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A dieci anni dalla sua morte, la sua carriera e le sue fantastiche interpretazioni non sono state dimenticate. Ecco la sua vita vista dai film più famosi di Heath Ledger.
“L’UNICO MODO SENSATO DI VIVERE IN QUESTO MONDO, È SENZA REGOLE”
Questo è stato il modus che ha adottato Heath Ledger nella preparazione e nell’interpretazione del film che lo ha reso immortale. La verità è che Heath una regola l’aveva: vivere per la sua passione.
La sua carriera decolla nel 1999 all’età di 20 anni, quando ottiene il ruolo da protagonista nel film “10 cose che odio di te”. Questo ruolo gli porta una discreta fama. Il pubblico lo ama per la sua interpretazione in questa rivisitazione di una commedia Shakespeariana. Il mondo del cinema inizia a notare questo talentuoso giovane e i meccanismi di Hollywood iniziano ad attivarsi per sfruttare al meglio questa nuova perla. Ma Heath Ledger dimostra subito di aver in mente molto chiaramente cosa vuole fare della sua carriera da attore. È così che aspetta un anno prima di entrare in una produzione. La sua paura era di essere etichettato come il nuovo giovane belloccio.
Con l’inizio del nuovo millennio, arriva per lui la possibilità di mostrare la sua tempra nella produzione di un film drammatico: Heath si presenta alle audizioni per partecipare al film “Il Patriota” con Mel Gibson. Ottiene la parte confrontandosi con altri 200 candidati, e inizia le riprese del film che lo portano a vincere un riconoscimento allo Showest Award come Male Star of Tomorrow. Nel film interpreta il figlio di Mel Gibson, che si arruola in guerra.
Dopo il successo ottenuto da “Il Patriota”, Heath Ledger continua alla ricerca di nuovi personaggi da studiare e in cui calarsi. Arriva la volta di “Il destino di un cavaliere”, un altro film ad alto budget di produzione Hollywoodiana. Questo ruolo gli permette di sgonfiare la tensione dovuta alla parte nel film di Mel Gibson. Il film è una commedia ambientata in un Medioevo anacronistico che vede un giovane scudiero dalle umili origini, cavalcare verso il proprio sogno: diventare un cavaliere.
L’attore non rimane mai totalmente fermo, partecipa a film minori e continua a entrare nella produzione di grossi film. Nel 2001 viene scartato per il ruolo di Christian nel musical Moulin Rouge! ma le audizioni gli permettono di conoscere un altro grande artista con cui collaborerà in futuro nel pluricandidato film “I segreti di Brokeback Moutain”: Jake Gyllenhaal, attore con cui lega una forte amicizia. Nel 2003 però la strada per il successo comincia a salire quando il regista Brian Helgeland, con cui Heath Ledger aveva già collaborato, gli propone una parte da protagonista nel film “La setta dei dannati”. Heath si trova a lavorare in Italia, a Roma. E l’Italia rimane la sua casa per la maggior parte delle riprese di questo film, ma non sarà l’unica volta in cui l’attore ci lavorerà. Circa due anni dopo infatti, Heath si stabilisce a Venezia, dove interpreta la parte di Casanova nel film di Lasse Hallström, presentato alla 62° mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Quell’anno Heath Ledger si aggiudica il record di attore più proiettato alla mostra, comparendo in ben tre film: I fratelli Grimm e l’incantevole strega, Casanova e I segreti di Brokeback Mountain, film che vince il Leone d’oro.
Proprio questa pellicola è quella che porta maggior successo a Heath, fino a quel momento. Il suo lavoro sul personaggio è magistrale. Nel film l’attore interpreta un cowboy omofobico che si innamora di un altro uomo (l’amico Jake Gyllenhaal). La sua interpretazione mostra a tutto il mondo, compresa la critica, la stoffa dell’attore, capace di modificarsi e adattarsi alla parte cucendosi perfettamente le vesti del personaggio addosso. Candidato al Golden Globe, al BAFTA e al premio Oscar, riceve una menzione dalla critica Newyorchese e Californiana che lo nominano “attore dell’anno”.
Il ruolo successivo inizia a essere provante per Heath. Una produzione Australiana lo chiama per un ruolo da protagonista nel film “Paradiso + Inferno”, in concorso al festival di Berlino 2006. Nel film Ledger interpreta un ragazzo tossicodipendente tormentato dalla sofferenza e da una travagliata storia d’amore. Dopo il film “Io non sono qui”, in cui lavora con Christian Bale, Heath riceve una proposta dal regista Christofer Nolan, il quale gli chiede di partecipare al suo film con il ruolo d’antagonista.
Heath Ledger inizia nel 2007 a prepararsi per la parte più complicata che gli sia mai stata commissionata. Il ruolo che lo farà poi entrare nella storia e diventare una leggenda: Joker. L’idea lo stuzzica da subito. Heath dichiara di essere eccitato dalla parte e inizia a preparare meticolosamente il personaggio, dovendo anche tenere conto dell’interpretazione fatta dal suo predecessore Jack Nicholson. Heath si chiude per 6 settimane in una stanza d’albero. Ne esce cambiato, turbato, profondamente disturbato e pronto per girare. I suoi colleghi lo ricordano durante le riprese dicendo che era un’altra persona, sembrava mosso da uno sconforto proveniente da dentro. Nel giugno 2008 Il film viene proiettato nelle sale di tutto il mondo e la critica considera Joker il vero protagonista del film. È un successo incommensurabile.
Alla fine del 2007 terminano le riprese de “Il cavaliere oscuro”. Subito dopo Terry Gilliam affida a Heath Ledger il ruolo da protagonista per il suo nuovo film “L’uomo che voleva ingannare il diavolo”. Nel gennaio 2008 iniziano le riprese e il 22 gennaio dello stesso anno Heath viene trovato privo di vita nella sua stanza d’albergo. Il mondo è sconvolto dalla notizia. Terry Gilliam decide di finire il film per commemorare l’artista. Nelle scene mancanti, l’attore viene sostituito da tre colossi della recitazione che vogliono omaggiare Heath prendendo la sua parte nel film: si tratta di Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell.
Oggi, a distanza di 10 anni dalla sua scomparsa, Heath Ledger è diventato una vera e propria leggenda. Il mondo del cinema continua a riconoscerlo come un attore capace di entrare nella mente dei personaggi, e di tirarne fuori una creatura vera, palpabile che inevitabilmente emozionerà il pubblico del mondo. L’eccellenza di questo attore è molto rara e difficile da emulare, ciò che ci rincuora è poter rivedere la sua grandezza dietro a uno schermo in ogni occasione possibile.
Post n°14219 pubblicato il 21 Gennaio 2018 da Ladridicinema
Intervista a Viola Carofalo, ricercatrice precaria di 37 anni e portavoce di Potere al Popolo, lista di sinistra che correrà alle prossime elezioni politiche: “Enormi ricchezze sono in mano a pochissime persone. Occorre prendere quei soldi e redistribuirli verso il basso”.
POLITICA ITALIANA 16 GENNAIO 2018 16:48 di Davide Falcioni
Uno spettro si aggira per l'Italia, e se sarà destinato a rimanere tale o acquisirà corpo e concretezza dipenderà dalle prossime due settimane e dall'esito della raccolta firme necessarie per la presentazione della lista. Lo "spettro" – per citare il Manifesto del Partito Comunista, saggio scritto da Karl Marx e Friedrich Engels tra il 1847 e il 1848 – si chiama Potere al Popolo: un progetto di sinistra, elettorale ma non solo, nato due mesi fa da un appello del centro sociale napoletano Ex Opg "Je So Pazz": una pazzia, per l'appunto, che però ha avuto conseguenze che probabilmente neppure i promotori si aspettavano, con centinaia di riunioni in tutta Italia, due "sold out" in altrettante assemblee nazionali nei teatri romani e soprattutto una lista costruita effettivamente dal basso. Di Potere al Popolo fanno parte realtà di movimento, partiti come Rifondazione Comunista e PCI e realtà come Eurostop. A capo della lista una donna napoletana di 37 anni, Viola Carofalo.
– Chi è Viola Carofalo, "capo politico" di Potere al Popolo?
– Una persona come tante, che vive una condizione comune a molti della nostra generazione. Quella della precarietà lavorativa ed esistenziale, quella del non sentirsi rappresentati dalla politica attuale, che non dà risposte ai nostri bisogni, che non interviene sulle ingiustizie, anzi, le rinforza. Io ho 37 anni, una passione per lo studio che mi ha portato a fare due dottorati in filosofia, oggi lavoro con contratti precari all’università. Cerco ogni giorno di portare avanti i miei valori: l’onestà, la solidarietà, il rispetto dell’altro. In quanto donna e meridionale sento sulla mia pelle certe forme di oppressione e di discriminazione che mi sembra assurdo ancora vigano nell’Italia del 2018. E le vorrei cambiare. Per questo, più che un “capo politico”, mi sento una “capa tosta”. Perché come tanti non mi rassegno a questa situazione e da più di vent’anni faccio politica nei movimenti sociali per cercare di migliorarla, anche a partire da piccole cose. All’Ex OPG “Je so’ pazzo” di Napoli, il centro sociale che due mesi fa ha lanciato il video-appello per costruire “Potere al popolo!”, mi occupo di mutualismo, di attività per il quartiere, di antirazzismo. Forse per questo mi hanno scelto per essere portavoce del movimento. Dico “portavoce” perché ciò che ci contraddistingue è di essere innanzitutto un collettivo, di rifiutare i personalismi, di mettere al centro le idee e le pratiche, e soprattutto i bisogni delle persone.
– Perché avete scelto questo nome – Potere al Popolo – in una fase storica in cui il populismo di destra è egemonico anche nelle classi sociali popolari?
In realtà “Potere al popolo!” è solo la traduzione letterale della parola democrazia. Oggi molti lo hanno dimenticato, e pensano che democrazia sia andare a votare una volta ogni cinque anni partiti tutti uguali, e per il resto subire le decisioni che vengono prese altrove, non solo in parlamenti che ormai non rispecchiano più il paese, non solo da governi che sono macchine sempre più autoritarie, ma magari in qualche incontro riservato fra banche, finanza, associazioni di impresa, in qualche riunione di tecnocrati dell’Unione Europea…
Con “Potere al Popolo!” vogliamo innanzitutto mandare un messaggio: le decisioni sulla nostra vita e sui nostri territori spettano a noi. Oggi non decidiamo nemmeno dove passeremo la nostra esistenza, visto che per trovare un lavoro andiamo ovunque. Non decidiamo quando avere un figlio, perché dipende dal contratto che qualcuno ci farà. Non decidiamo come gestire il bilancio di una municipalità o di una città, anche perché ce lo tagliano. Figuriamoci se decidiamo su questioni di politica economica e internazionale… Ecco, noi pensiamo che una democrazia sia tale se non è formale ma sostanziale, se è radicale nel senso che parte dalle radici; se le classi popolari possono effettivamente contare ed esercitare il potere. “Potere” può essere anche una bella parola, è la possibilità di fare, di creare. Pensiamo che non debba essere negata ad alcun essere umano, che sia bianco o nero, povero o ricco.
Poiché diciamo queste cose che non dice nessuno, non temiamo di essere confusi con la destra che oggi, nelle varianti di PD, 5 Stelle e Lega/Forza Italia, è di fatto l’unica forza politica. Nessuno di questi partiti vuole una partecipazione reale dei cittadini, nessuno vuole mettere in discussione le basi economiche di questa società, o la disuguaglianza. Quando anche sembrano parlare nell’interesse del popolo, è per ingannarlo, per dividerci e governarci meglio.
Il 4 marzo milioni di persone vedranno sulla scheda elettorale i soliti partiti che fanno gli interessi di vari gruppi imprenditoriali in lotta fra loro. E poi vedranno un movimento nuovo, che manda un messaggio di rottura, non ha dietro nessuno se non le persone che lo stanno costruendo. Ci sembra una bella novità!
– Mai come oggi il "popolo" sembra propenso ad accettare un discorso razzista e securitario: i cittadini comuni sono disposti a scendere in piazza contro inesistenti invasioni di migranti e riscontrano pieno successo petizioni come quelle sul possesso di armi e la "legittima difesa". Che "popolo" è quello di Potere al Popolo?
– Guarda, noi non pensiamo che il razzismo sia maggioritario in Italia. In generale la barbarie ci sembra più diffusa dall’alto che provenire dal basso. Sono i media e i politici che cavalcano le peggiori pulsioni di questo paese. E questo per uno scopo ben preciso: bisogna dare alle persone qualcuno o qualcosa da odiare. Bisogna creare falsi problemi per distogliere l’attenzione da quelli reali. Così il sistema si può conservare a vantaggio dei pochi.
È chiaro che un popolo terrorizzato, diviso, rassegnato, arrabbiato spesso senza nemmeno sapere perché, finisce poi effettivamente per ammalarsi di odio. E però noi che viviamo i quartieri popolari facciamo anche esperienza del contrario. Il nostro popolo esiste: è quello che resta umano, che anche se è in difficoltà economica aiuta il prossimo, quello degli sfruttati che si riconoscono, dei lavoratori che sui posti di lavoro non abbassano la testa, delle insegnanti che continuano a dare valori ai ragazzi anche quando altri li distruggono, dei cittadini che intervengono quando vedono consumarsi un’ingiustizia, di chi resiste alle mafie e alle prepotenze, di chi ha il coraggio di denunciare…
I razzisti, i fascisti, i mafiosi, sono una minoranza, solo che è una minoranza rumorosa e coccolata dall’alto, che si sente forte e protetta, mentre i buoni si sentono isolati, frammentati. Dobbiamo spezzare questo circolo vizioso che sta portando questo paese al decadimento, dare forza alle energie giovani, alla creatività, alla gentilezza, alle lotte.
– Nel vostro programma vi sono l'abrogazione della riforma Fornero e del Jobs Act, oltre a un grande piano di messa in sicurezza del territorio e la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Si tratta evidentemente di un programma molto ambizioso: dove prendereste i soldi per realizzarlo?
– I soldi ci sono. In dieci anni di crisi sono anche aumentati. Il problema è che sono finiti nelle mani di sempre meno persone. Tutti i dati dicono che se da un lato aumenta la povertà, da un altro lato è aumentata la concentrazione delle ricchezze: l'1% degli italiani detiene il 25% della ricchezza nazionale. Questi soldi non vengono dal cielo, sono il prodotto del lavoro di cui qualcuno si appropria in vari modi (non corrispondendo il giusto salario, con una tassazione iniqua etc). Se vogliamo fare una società più giusta e salvare questo paese, si tratta quindi innanzitutto di andare a prendere questa massa di capitali e redistribuirla verso il basso.
Immaginiamo una serie di misure concrete innanzitutto sulla fiscalità generale, che oggi si configura come un vero furto ai danni della maggioranza. Vogliamo colpire l’evasione fiscale, a partire da quella delle grandi multinazionali, delle rendite e dei capitali finanziari: l’evasione sottrae oltre 130 miliardi ogni anno ai salari e alla spesa sociale. Poi vogliamo una vera tassazione progressiva, come previsto dalla Costituzione. L'Irpef, quando fu introdotta, prevedeva 32 scaglioni di reddito, con l'aliquota più bassa al 10% e la più alta al 72%, mentre ora gli scaglioni sono 5, con la prima aliquota al 23% e l'ultima al 43%.
Ancora, vogliamo il recupero dei capitali migrati verso i paradisi fiscali. E vogliamo una patrimoniale, che è davvero una misura minima di civiltà mentre troppi dei nostri concittadini fanno la fila alla Caritas per mangiare…
Esiste inoltre, come sottolineano anche Podemos, France Insoumise etc, una reale necessità di disobbedire al Fiscal Compact e al pagamento del debito finanziario che ci stritola – di fatto, anche se da anni siamo in pareggio di bilancio, continuiamo a pagare interessi infiniti, una vera e propria usura.
In più, le politiche dei governi Renzi e Gentiloni non hanno fatto altro che regalare risorse alle imprese, oltre 40 miliardi solo negli ultimi tre anni. Questi soldi non sono stati usati per lo sviluppo del paese, tantomeno per garantire stabilità ai lavoratori, ma sono finiti nelle tasche dei datori di lavoro, già ricchi. Per non parlare dei soldi regalati alle banche… Ecco, noi immaginiamo, con tutti questi soldi, di creare lavoro stabile e sicuro, di mettere in sicurezza i territori e gli edifici, di assumere nel pubblico, visto che il servizio pubblico italiano è inferiore quantitativamente e qualitativamente a molti dei più importanti paesi europei.
Infine vogliamo tagliare le spese militari o i programmi inutili e costosi come “strade sicure”. Parliamo di miliardi di euro all’anno usati per riempire le tasche di industrie belliche, di vere e proprie fabbriche di morte. Noi vogliamo la vita, non la morte.
Ripetiamo: i soldi ci stanno, dobbiamo solo toglierli a chi oggi ne ha troppi e metterli a disposizione delle classi popolari per lavorare, studiare, crescere in un paese più funzionante e coeso. In fondo chiediamo soltanto che sia finalmente attuato l’articolo 3 della Costituzione: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
– Perché non avete deciso di confluire in Liberi ed Uguali e rappresentare, in quella lista, l'anima più di sinistra? Non avreste avuto maggiori possibilità di eleggere?
– Non si è mai posto il problema. Non puoi cambiare le cose con chi è parte integrante del sistema. Liberi e Uguali è un PD2: ci sono D’Alema, Bersani, tutti quelli che hanno gestito gli ultimi venti anni di potere, che hanno votato il Governo Monti, il Governo Renzi e le peggiori schifezze, dalla partecipazione alle guerre alla liberalizzazione degli orari di lavoro, dal Fiscal Compact a riforma Fornero, Jobs Act, Sblocca Italia e Buona Scuola… Per non parlare di Grasso, che è andato, fino alla fine, d’amore e d’accordo con Renzi, non ostacolando mai la sua azione. Che credibilità avremmo se per cambiare le cose ci associassimo a questa gente? Che alternativa potremmo mai praticare?
Noi, per età, per genere, per appartenenza sociale, siamo un’altra cosa. Per contenuti e metodi politici, Liberi e Uguali è la continuità con tutto un mondo che ha portato avanti politiche antipopolari. Noi non vogliamo unire il ceto politico della “sinistra storica”, di cui ormai si salva poco o nulla. Noi vogliamo unire le persone, chi sta in basso, le associazioni, i collettivi, i comitati territoriali e ambientali, le reti di solidarietà, le esperienze di lotta sui posti di lavoro e nel sociale. Il nostro problema prioritario non è tanto eleggere qualcuno, ma far partecipare le persone, ricostruire una comunità, un senso di appartenenza, un sentire di essere dallo stesso lato della barricata. Essere utili al nostro popolo, diffondere la pratiche che funzionano, mettere in connessione le competenze e metterle a disposizione di chi ne ha bisogno, per migliorare la loro vita.
Questo è un lavoro che non è iniziato ora, che dentro la crisi è enormemente cresciuto, adesso si tratta solo di farlo vedere a milioni di persone e di organizzarlo sempre meglio. Tutto questo potrebbe produrre anche l’elezione di parlamentari, espressione di un movimento che sta davvero dalla parte del popolo. Ma non abbiamo ansie da prestazione: se anche così non dovesse essere – e sarebbe comprensibile: abbiamo solo due mesi di vita, le persone sono molto disilluse, i nostri mezzi per raggiungerle sono pochi, non abbiamo soldi o grandi nomi… – non è decisivo ai fini del progetto, perché dal 5 marzo continueremo ugualmente, a federare, a crescere, a stare nei territori e nelle strade. E quando le persone vedranno che non eravamo un cartello elettorale, ma una comunità e un’idea di società, non potranno che partecipare, contribuire, e far crescere. E i risultati, anche sul piano della presenza nelle istituzioni, non tarderanno ad arrivare.
– Come sono state composte le liste?
– Con un metodo antico e innovativo: le assemblee aperte e orizzontali. In due mesi sono nate ben 150 assemblee su tutto il territorio nazionale, per un totale di 20.000 partecipanti. Il nostro principio è radicalmente democratico: decidono i territori. E anche nella provincia più sperduta le candidature sono state decise dalla base del movimento, con il metodo del consenso o, dove non fosse possibile, per voto ad ampia maggioranza. I requisiti per le nostre candidature sono diversi da quelle degli altri partiti: non conta quanti soldi o conoscenze hai, che pacchetto di voti porti, ma quanto ti sei dato da fare per difendere i nostri valori. Per noi era importante la parità tra i generi, la bassa età, il radicamento sul territorio, la coerenza tra curriculum del candidato e il programma elettorale…
– Donne, giovani, precari: Potere al Popolo sembra parlare soprattutto a questi soggetti…
– Esatto. D’altronde chi subisce di più gli effetti della crisi sono proprio loro. Sono quelli tradizionalmente esclusi dalla politica. Eppure sono quelli che avrebbero più da dare, proprio perché – da esclusi – sanno cosa vuol dire includere. Il nostro programma parla di questo, e queste figure sono in prima linea. C’è bisogno di rottura e rinnovamento, di levarsi di dosso il “morto” di questo paese. Non è facile, noi pensiamo di aver solo iniziato. Abbiamo ancora migliaia di persone da coinvolgere, per far tornare a fare della politica uno strumento e non una cosa sporca, una possibilità di trasformazione e di riappropriazione della propria vita.
– Sostenete che le elezioni politiche saranno solo un passaggio obbligatorio da attraversare, ma che il progetto andrà avanti a prescindere dal risultato elettorale. Ecco, qual è il vostro progetto politico?
– Un paese lo si cambia innanzitutto se si è presenti in ogni aspetto della società. Se si sa rispondere ai bisogni materiali ma anche costruire un immaginario, fare musica, teatro, cinema. Se si sanno sviluppare pratiche che modificano il funzionamento delle istituzioni. Noi andremo avanti perché non basta un’elezione a fare tutto questo, ma è un lavoro che va portato a fondo, per anni. Le elezioni sono un passaggio che ci permette di fare “massa”, di iniziare a contarci, di uscirne rafforzati. Poi dopo si continua sui territori, a costruire un “partito sociale”.
Qui il mutualismo ha un’importanza fondamentale. Se lo Stato non è in grado di risolvere i nostri problemi, perché ostaggio di interessi di pochi e strutturalmente pensato per difenderli, noi cominciamo ad agire subito con un metodo d'intervento che parte dalle necessità del popolo e che, insieme al popolo, sviluppa coscienza e partecipazione. Mettere su un doposcuola sociale, uno sportello contro il lavoro nero, una palestra, ti permette di fare tante cose: inchiestare la realtà, avvicinarti a soggetti non politicizzati, non fornirgli solo un servizio ma spiegare i motivi, imparare con loro e lottare insieme, sviluppare quindi quegli embrioni di coscienza e di autogoverno senza cui la democrazia non si regge. Non facciamo assistenzialismo, ma protagonismo. Il mutualismo, come il controllo popolare, ci permettono di uscire da quella terribile retorica da eterni sconfitti di cui siamo stufi: ci dimostra che se ci si attiva in maniera intelligente e creativa si può vincere, si può dimostrare materialmente che le istituzioni non fanno abbastanza e quindi possono essere sostituite dal popolo che si organizza, vigila e propone. Chi meglio di chi vive le condizioni di lavoro, di chi usa un servizio, di chi abita un territorio, può dire come intervenire e come migliorare quel servizio?
Queste pratiche non sono solo utili, sono anche molto divertenti. Tirano fuori il meglio delle persone. Le spingono a riflettere e a fare comunità. Ecco, in chiusura possiamo dire che la nostra principale differenza con tutto o scacchiere politico sta tutta qui: anche se siamo esclusi, poveri, e ancora deboli, noi ci divertiamo, sappiamo ridere e gioire, sappiamo pensare e sognare.
continua su: https://www.fanpage.it/viola-carofalo-ci-spiega-cos-e-e-dove-vuole-arrivare-potere-al-popolo/
Post n°14218 pubblicato il 21 Gennaio 2018 da Ladridicinema
La lista Potere al popolo punta a erodere voti a LeU e grillini, soprattutto al Sud
Viola Carofalo, 37 anni, è il capo politico di Potere al popolo. (Foto tratta da Facebook)
Pubblicato il 17/01/2018
ANDREA CARUGATI, ILARIO LOMBARDO
Le citazioni più frequenti sono di Marx, Lenin, Fidel Castro, Hugo Chavez, Antonio Gramsci, Salvador Allende. L’obiettivo dichiarato è la “liquefazione delle tolleranze morali verso i governanti”. Sembra complicato, ma è quel “punto di rottura” in cui le masse di proletari e sfruttati si ribellano fino a sovvertire lo status quo.
Parliamo di Potere al popolo, la lista di ultrasinistra che nasce dalle ceneri del movimento del Teatro Brancaccio dello storico dell’arte Tomaso Montanari: una lista che parte da un video-appello notturno di un centro sociale occupato di Napoli “Je so pazzo”, nato nell’ex ospedale psichiatrico del quartiere Materdei. A novembre l’appello su Facebook, pochi giorni dopo un’affollata assemblea a Roma. Il capo politico è stato individuato in Viola Carofalo, 37 anni, assegnista in Filosofia all’Orientale di Napoli, una vita nei movimenti antagonisti, una che già alla parola “capo” inorridisce.
La lista sta nascendo da assemblee territoriali, mette insieme No Tav, No Triv, No Mose e tutto quello che sa di ribelle all’ordine costituito. Una lista che guarda al mutualismo di Podemos e della prima Syriza (prima che Alexis Tsipras chinasse il capo all’Europa), e ha ottimi rapporti anche con i francesi di France Insoumise guidata da Jean-Luc Melenchon, che ha mandato un rappresentante all’ultima assemblea romana.
Il traguardo del 3% resta un miraggio, ma il tentativo è quello di ricostruire delle reti dal basso e rosicchiare voti al M5S, soprattutto al Sud, sui cavalli di battaglie dell’ambientalismo e del no alle grandi opere. Puntano sui delusi del grillismo che tornerebbero a votare un partito di sinistra radicale invece di affollare le fila dell’astensionismo. L’altro bacino possibile di voti è quello di Liberi e uguali, considerati una sorta di “Pd-2”, un partito “ambiguo”. “Molti di loro hanno votato il fiscal compact e la legge Fornero”, una delle accuse. Carofalo non usa gira di parole verso i big di Liberi e uguali: “D’Alema, Speranza, Bersani sono i responsabili del collasso della sinistra e dell’arretramento delle nostre condizioni di vita, odiati da tutti». Qualche timido tentativo di contatto c’è stato nei mesi scorsi, sponsorizzato da alcuni ex Sel confluiti sotto le insegne di Pietro Grasso. Ma la scelta come leader dell’ex pm ha contribuito alla rottura: Pap (l’acronimo usato dagli attivisti di Potere al popolo) contrasta ogni logica securitaria, propone l’abolizione dell’ergastolo e del 41 bis. Non vuole magistrati al potere.
Al di là della partecipazione spontanea, che pure c’è, l’ossatura arriva dalla vecchia Rifondazione comunista, che ha totalizzato circa 60mila donazioni con il 2 per mille, oltre 600mila euro. Un risultato record per una forza che da tempo è fuori dal Parlamento. Rifondazione resta un po’ defilata, per scelta: nel simbolo non c’è traccia della falce e martello rimasti in custodia dopo la fine del Pci. Al loro posto una stella rossa. Il segretario del Prc Maurizio Acerbo sarà uno dei candidati, mentre sono stati posti paletti invalicabili verso chi è stato già eletto in qualche istituzione: stop dunque a Paolo Ferrero ma anche a Paolo Cacciari, fratello antagonista dell’ex sindaco di Venezia. E tuttavia alle assemblee si sono viste vecchie glorie della sinistra come Franco Turigliatto (il senatore che voleva far cadere Prodi), Giorgio Cremaschi, e poi Haidi Giuliani, l’eurodeputata della Lista Tsipras Eleonora Forenza. Ci sono stati endorsment di peso come quello della ex staffetta partigiana Lidia Menapace, ma anche di sportivi come il tecnico Renzo Ulivieri e del cantautore e autore di “Contessa” Paolo Pietrangeli.
Schierati i sindacalisti di base dell’Ubs, si attende una lettera -appello firmata da alcuni dirigenti della Cgil. Col sindaco di Napoli Luigi De Magistris un rapporto dialettico. “Lo sosteniamo, ma non a scatola chiusa”, spiega Carofalo. Che lo invita, la prossima volta, a “candidarsi con noi”. Per il momento, a Napoli correrà con Pap lo storico Giuseppe Aragno, molto vicino al sindaco di Napoli. Ma i punti di riferimento di Pap sono soprattutto stranieri. E’ all’estero che i nuovi marxisti italiani cercano le ricette per “riannodare il dialogo con le masse popolari”. Come? “Camminare domandando”, come dicono gli zapatisti. E così facendo abbiamo imparato tantissimo”.
Post n°14217 pubblicato il 21 Gennaio 2018 da Ladridicinema
Giorgio Cremaschi: "Potere al Popolo è l'unica forza politica che ha in programma la rottura con l'Unione Europea e la NATO"
La nostra intervista a Giorgio Cremaschi, ex Segretario Fiom e candidato a Napoli e Bologna per la Lista Potere al popolo. "Lavoro, Welfare e diritti sociali possono tornare protagonisti in questo paese solo con la rottura chiara con Bruxelles". di Alessandro Bianchi
Partiamo dalla sua candidatura. Perché dopo 50 anni di militanza attiva, come ha ricordato in un suo recente scritto, ha scelto di candidarsi alle elezioni al Parlamento italiano solo ora? E cosa l’ha convinto di Potere al Popolo?
Mi hanno convinto la crisi drammatica che vive la politica nel nostro paese e il coraggio e l'entusiasmo dei giovani di Je So Pazzo. Qualcosa dobbiamo fare e dobbiamo farlo ora. Il delirio mediatico, economico e culturale che espelle tutto ciò che non è conforme al pensiero unico dominante è stata sicuramente la spinta decisiva. Vorrei essere molto chiaro su questo punto: siamo tornati al livello della politica borghese ottocentesca in cui il mantra del sistema verso le classi meno abbienti era: “Non si può far nulla”. Prendete la decisione ultima votata ieri sul Niger auspicata dall’UE e voluta da Macron. Abbiamo deciso di mandare i nostri soldati all’ordine di Macron in un’iniziativa neo-coloniale per difendere il governo più corrotto dell’Africa, responsabile di disastri economici che spingono tante persone ad emigrare, e, pensate, lo hanno votato insieme centro destra e centro sinistra, che poi alla sera fanno finta di litigare in TV. Ecco se la Politica oggi in Italia si è trasformata in un’enorme e perenne fake news, mettersi in gioco è un dovere ed è per questo che ho accettato la sfida.
Perché Potere al Popolo?
Tanti motivi assieme mi hanno convinto a compiere questa scelta. E ad essi aggiungo anche il disgusto per una competizione elettorale che vede tre diverse forze liberiste scontrarsi, in attesa di governare assieme, se nessuno avrà i voti sufficienti per farlo da solo. E contro queste forze una finta sinistra, in realtà una corrente esterna del PD, che già prima del voto comincia ad accordarsi con quel partito. Non ci sarebbero stati appelli al voto utile, al meno peggio, a turarsi il naso, che mi avrebbero convinto a votare uno di questi. Nasce una lista diversa da tutte le altre, che si propone di organizzare il popolo oppresso e sfruttato ben oltre la scadenza elettorale. La passività di fronte alle ingiustizie è davvero l’elemento più forte della società attuale. Ed è proprio su questo che vorrei essere molto chiaro: il voto non è che un primo passo di per sé del tutto insufficiente. Serve modificare i rapporti di forza che oggi si sono strutturati nella nostra società e per farlo dobbiamo riorganizzare la lotta popolare contro i padroni interni ed esterni. Per questo è nata Potere al popolo.
A proposito di fake news. In questi giorni i giornali sono invasi dalla retorica renzista della “ripresa economica”, della “ripresa dell’occupazione”... Se guardiamo i numeri però in questo paese sono milioni e milioni i poveri e coloro che ci stanno diventando, i disoccupati, i precari, coloro che decidono di non curarsi più perché inadempiente. Sono centinaia di migliaia le persone senza una casa. Sono queste persone il vostro riferimento elettorale?
Siamo un’autoconvocazione in cui chiunque può sentirsi coinvolto e portare la propria esperienza di lotta. Da questo punto di vista è veramente un piccolo miracolo. Nato da un appello dell’Ex Opg di Napoli, in cui sono confluite forze organizzate è vero, non ha un centro. Vive di proposte di lotta quotidiane e di assemblee territoriali. Ad oggi siamo l’unica forza politica che ha un programma chiaro per punti e che ha identificato con altrettanta chiarezza quali sono i nemici che si devono combattere per applicarlo: le corporazioni transnazionali, l’Unione europea e la NATO. Da loro non chiediamo legittimazione perché sono i nostri nemici.
In molti vi stanno associando a Syriza. Che ne pensa?
Personalmente ritengo l’esperienza di Syriza un fallimento e un tradimento delle richieste popolari espresse con il famoso referendum anti-austerità disatteso da Tsipras. Il nostro punto di riferimento più vicino, anche se sono contrario sempre a fare paragoni con l’estero, è la France Insoumise di Melenchon.
La piattaforma Eurostop negli ultimi mesi aveva coraggiosamente messo al centro tre NO chiari: Ue, Nato e euro. Leggendo il programma di Potere al Popolo manca all’appello l’euro. Perché? E qual è la posizione della lista verso le organizzazioni sovranazionali europee?
Deve essere chiaro come premessa che noi siamo l’unica forza politicha che nel programma indica la rottura con l’Unione Europea. Certo mi capita di essere d’accordo con esponenti del Movimento Cinque Stelle in alcune loro dichiarazioni e perfino con l’economista della Lega Claudio Borghi che ha posizioni addirittura socialisteggianti quando parla dell’Unione Europea. Ma poi si ritrova alleato di Berlusconi e il Cinque Stelle ha ormai chiarito che non ha nessuna intenzione di fare la guerra a Bruxelles. Quindi, e questo lo voglio ribadire con forza, noi siamo gli unici a porre la rottura dell’Unione Europea come cardine del nostro programma. Del resto - come ci ha ricordato da ultimo Moscovici facendo capire che il prossimo governo sarà concordato con la Troika - lavoro, Welfare e diritti sociali possono tornare protagonisti in questo paese solo con la rottura chiara con Bruxelles. E’ vero che sull’euro nella Lista non c’è una posizione chiara come quella di Eurostop. Ci sono forze che hanno una posizione diversa e che pensano che sia possibile concordare nuovi parametri in vista di un maggior coordinamento dei paesi dell’Europa del sud. Questo chiaramente in un contesto in cui l’Unione Europea e le logiche mercantiliste non esiteranno più. Io, al contrario, rimango fermamente convinto che sia necessario ritornare alla sovranità monetaria. Del resto, il nostro programma economico pone al centro la nazionalizzazione della Banca d’Italia, la modifica dell'art.81 della Costituzione che ha introdotto il pareggio di bilancio e il ritorno ad un forte controllo pubblico dell’economia.
Nazionalizzazioni, diritti sociali e lavoro. Il programma di Lista Potere al Popolo è di fatto l’antitesi dell’Unione Europea e della zona euro. A proposito di Melenchon e prendendo a riferimento anche Linke e il nuovo corso laburista di Corbyn, sempre più forze a sinistra in Europa non hanno più molte remore nell’attaccare frontalmente queste organizzazioni. In Italia invece si è sempre molto timorosi. Perché?
Noi siamo gli unici che facciamo finalmente chiarezza e che facciamo un discorso molto preciso anche sul debito. Mentre Pd e Forza Italia - che hanno lo stesso programma anche su questo - pensano a svendere ulteriormente il nostro patrimonio pubblico noi diciamo basta. Noi diciamo con forza che non ripagheremo più i 70 miliardi di euro di usura che ogni anno diamo alle banche come paese. Questi soldi verranno utilizzati per istruzione, sanità e lavoro. Non per le banche. Il nostro è il programma più sovrano che esiste sul panorama politico italiano. Non c’è niente di più sovrano nell’affermare il ritorno della sovranità popolare contro i poteri esterni come facciamo noi. E’ vero c’è ancora troppa timidezza nel dirlo.
Viviamo, del resto, nei fallimenti della sinistra e ne paghiamo le conseguenze. Noi come Lista lo abbiamo nel programma. Gran parte delle candidature sono storie personali e politiche che nulla hanno a che vedere con i fallimenti della sinistra. Tante persone candidate hanno vissuto con la loro esperienza diretta di lotta la malvagità del peggiore dei sistemi possibili, quello dell’Unione Europea. Ma sono d’accordo, la richiesta di rottura deve essere gridato con più forza. Bisogna essere meno timidi nel dire che l’Unione Europea, insieme alla Nato, sono oggi il nostro principale nemico contro cui combattere. Spero che la nostra crescita possa essere da stimolo per rompere questa timidezza.
A proposito di sovranità. In Europa diverse forze a sinistra iniziano a interrogarsi sul concetto di nazione e sulla costruzione di un programma di immigrazione meno utopico. Potere al popolo che posizioni sta maturando?
La nazione è il popolo. E la sovranità appartiene al popolo come chiarisce la nostra Costituzione. Solo in quello strano paese che è l’Italia tutto questo ha assunto connotati di destra. Noi siamo per rifare della sovranità popolare sancita dalla Costituzione il perno di riferimento del paese. Rifiutiamo qualunque connotato etnico o razziale. Per me il riferimento è il popolo senza distinzione alcuna di razza. Sono gli oppressi, i lavoratori sfruttati… Sull’immigrazione c’è il punto di rottura più forte con le destre. Il punto di partenza dell’analisi che manca sempre quando si affronta la questione è che il sistema attuale ha reso l’Italia un paese in cui i giovani scappano. C’è un’emorragia di gente che scampa. Secondo punto che manca sempre nel dibattito: basta alimentare questa perenne guerra contro i poveri. E’ l’assenza di parità di diritti che crea l’emarginazione e lo scontro. Quando ci sono pari diritti, pari dignità non c’è scontro tra poveri. Il vero razzismo è quello contro i poveri. Quando lo sceicco di turno compra la squadra di calcio non c’è razzismo, anzi. Il razzismo è contro la povertà. Quindi iniziamo ad aggredire la povertà, iniziamo a puntare sui diritti, e iniziamo ad interrompere le politiche imperialiste di guerre e sfruttamento economico contro quei paesi da cui sono costretti a sfuggire in migliaia e migliaia. Il neo-colonialismo e l’imperialismo ad esempio di Minniti con la Libia alimentano i problemi non li risolvono. Prendiamo poi a riferimento il Niger e la nuova scellerata decisione del Parlamento italiano. Cosa andiamo a fare in quel paese esattamente? E se le popolazioni di quei paesi scappano dalle miserie, dalle guerre e dallo sfruttamento delle multinazionali di chi è la colpa? Fermare la migrazione aggredendo la povertà e le politiche imperialiste. Le migrazioni si fermano quindi, anche qui, attaccando i veri nemici: Unione Europea e Nato.
Veniamo finalmente alla NATO da Lei citata più volte. Potere al Popolo è per la rottura? E perché nel programma non si fa riferimento ai criminali interventi compiuti in ex Jugoslavia, Libia, Siria, Ucraina e da ultimo l’attacco al Venezuela?
La rottura con la NATO come quella con l’Unione Europea è il cardine del nostro programma. Rottura immediata senza se e senza ma. Ma nel nostro programma è spiegata bene la motivazione con i contenuti e con i riferimenti alla condizione di servitù cui il nostro paese è costretto e per cui è costretto a delinquere. Ad esempio il 20 saremo a Ghedi per dire basta alle armi nucleari nel nostro paese. Quello che non si sa perché non si dice è che l’Italia è un paese canaglia per colpa della NATO, violiamo il nuovo Trattato Onu installando armi atomiche di nuova generazione, costruite per essere utilizzate ecco la novità rispetto a quelle presenti in passato. E’ una politica di criminali. Quante volte ho ripetuto di criminali in quest’intervista? Legalità in campagna elettorale la sento nominare all’infinito, ma quando la politica legale è criminale la ribellione è l’unica strada. Sui riferimenti ai paesi della domanda, questi esempi di crimini della Nato del passato e del futuro sono sempre presenti nei nostri dibattiti e nelle assemblee che hanno prodotto il problema. Sono quegli esempi che hanno maturato le nostre linee guida e che ci differenziano totalmente da Liberi e Uguali, al cui interno, al contrario, ci sono diversi fautori di “imprese umanitarie” passate e future.
Vorrei finire con il Lavoro. Dopo la tragedia di Milano, anche oggi dobbiamo registrare l’ennesima morte di un giovane diciannovenne a Brescia. Il mondo del lavoro in Italia che livello ha raggiunto? E quali le proposte di Potere al Popolo?
Il Lavoro è in una situazione di disastro totale. Ogni linea rossa è stata superata. Si vede nella faccia di quegli operai di quell’azienda di Milano che avevano paura di dire che i loro colleghi erano stati assassinati barbaramente per paura di perdere il loro posto. Il lavoro è stato trasformato in schiavitù materiale ed etica. Si permette che si muoia di cancro, di gas, ci si ammali. La responsabilità non è mai delle vittime, ma dei carnefici. E provo ribrezzo ascoltando quegli economisti che ancora oggi, nonostante tutto, parlano di produttività o ad Agorà, trasmissione TV, in cui si mostrava per l’ennesima volta la storia dei furbetti del cartellino quando anche nel pubblico ci sono infermieri che muoiono per troppo lavoro. Siamo di fronte ad una società culturalmente fascista verso il lavoro. Il lavoro è oggi oppresso come non lo è mai stato a mia memoria. I diritti nel passato li abbiamo conquistati, persi ma mai come oggi la situazione è in mano ad un pensiero criminale che produce morti. Tanti morti. Cosa propone la lista del popolo? L’abbattimento totale del sistema attuale con la cancellazione immediata di una serie di provvedimenti: Legge Fornero, Buona scuola con l'alternanza scuola lavoro gratis, il Jobs Act e i suoi precedenti (dalla legge Treu). Il punto di partenza immediato è la lotta allo sfruttamento. Gli sfruttati devono riprendersi in mano le loro vita. Anche e soprattutto questo è Potere al popolo.
Sempre sul lavoro. Non crede sia giunto il momento di allargare la sfera all'interno dei quali si considerano gli sfruttati? Mi spiego meglio, l’artigiano, le Partite Iva che non arrivano a fine mese, i piccoli imprenditori che lavorano 15 ore al giorno per salvare i posti di lavoro dei loro dipendenti e che conservano un salario minimo dignitoso per le loro famiglie non devono rientrare oggi in questa categoria? E se per “padroni” nel 2018 sono da considerare le corporazioni economiche e finanziarie transnazionali, non è il momento di allargare gli strati sociali di persone a cui rivolgere la proposta di rottura dalle catene attuali?
Assolutamente si. Bisogna costruire un blocco sociale d’intesa che sappia unire gli sfruttati tutti, i poveri e coloro che subiscono le oppressioni di questo sistema. Badate bene: questo sistema per mantenersi in vita ha bisogno di mettere uno contro l’altro il pensionato con l’artigiano, la partita Iva con il dipendente pubblico. Il popolo insieme può uscire da questa gabbia e per questo bisogna lavorare per un blocco sociale.
La quarta stagione di Black Mirror arriva sugli schermi di Netflix con una carica di provocazione forse minore del solito, ma con una coesione tematica significativa che fa perdonare volentieri anche le sviste in un paio di episodi.
di Andrea Tremaglia - 17 gennaio 2018
Noi siamo la nostra mente e, come tali, siamo trasferibili e replicabili? Cosa accadrebbe se qualcuno potesse guardare con i nostri occhi, vedere i nostri ricordi? In un mondo in cui tutto è simulabile, a cosa può condurre la mancanza di empatia? E cosa c’entrano i robottini killer con tutto il resto? Queste le domande che attraversano la quarta stagione diBlack Mirror; e questi, uno per uno, i suoi episodi. Buona lettura e buona visione.
01. USS CALLISTER
Cosa succede ai personaggi dei videogiochi quando non sono videogiocati? Nel primo episodio della quarta stagione di Black Mirror, Toy Story incontra Matrix. L’ambientazione è un videogioco online in stile Star Trek nel quale un nerd incattivito e malvagio imprigiona i cloni, coscienti e digitali, delle persone che lo trattano male nella vita reale, sottoponendo le copie virtuali a sadiche angherie quando gli disobbediscono. Nulla di differente da ciò che facevamo da bambini con i soldatini (almeno, chi è abbastanza vecchio) gettati nei prati, incollati ai razzi, fatti esplodere con i petardi; o dalle più recenti vicissitudini con i videogiochi simulativi tipo Sim City (quanti hanno provocato volontariamente disastri naturali nella propria città?) e The Sims. Salvo ovviamente che, nella finzione filmica di Black Mirror, i personaggi digitali sono senzienti.
Cosa succede dunque se il (naturale?) sadismo preadoloescenziale, il desiderio di sentirsi padroni assoluti del proprio mondo immaginario si incontra con un’adolescenza quasi eterna e con simulazioni sempre più realistiche? L’esito deteriore è un’assenza di empatia online che rischia di tramutarsi in un incattivimento offline. Le persone fabbricano un proprio mondo che media la realtà attraverso social e multiplayer, salvo scoprire di esser chiusi dentro, piuttosto di aver chiuso fuori gli altri. Fino a che punto può insinuarsi nella quotidianità il sadismo online? I cloni digitali, le intelligenze artificiali, hanno vere identità anche se sono semplici righe di programma? A queste due ultime e interessanti suggestioni la prima puntata di Black Mirror non risponde, rimanendo nei toni molto più leggera e molto meno inquietante di quanto la serie ci abbia abituato in passato.
Episodio natalizio.
02. ARKANGEL
Edipo si cavò gli occhi perché troppo aveva visto, ovvero troppo aveva saputo; troppo poco, almeno per buona parte della sua vita, è invece quanto ha visto la giovane protagonista di Arkangel. Questo secondo episodio, diretto da Jodie Foster, ci riporta nelle atmosfere distopiche che hanno fatto il successo della serie, presentandoci un programma, Arkangel appunto, che permette di installare un gps/visore nella mente dei bambini affinché i genitori letteralmente non li perdano mai di vista, arrivando addirittura alla possibilità di filtrare ciò che i figli vedono. Il tema principale è da ormai vent’anni uno dei più centrali nella instabile civiltà occidentale: qual è l’equilibrio tra libertà e sicurezza, tra controllo e censura? Essere umani d’altronde significa anche sbagliare, farsi male, ingannare, cosa succederebbe se togliessimo alle persone ogni possibilità di fare e farsi del male? Sarebbe un mondo perfetto, o sarebbe un inferno? Le due differenti posizioni sono incarnate nell’episodio da madre e figlia, la prima simbolo di un impossibile controllo amorevole, ma eccessivo e invadente, la seconda di un desiderio di libertà necessario per crescere, anche a costo di farsi male. Le dinamiche tra le due differenti visioni sono schematicamente ma efficacemente mostrate nei 50 minuti che ci lasceranno, come è giusto che sia, con più domande che risposte.
È perciò facile accusare la madre di soffocare la figlia, ricordando come un tempo i figli fossero gettati nella mischia senza troppi complimenti; ma nel mondo in cui viviamo oggi tutti hanno accesso a una quantità senza precedenti di informazioni pericolose. Già giovanissimi si può accedere a film horror d’incredibile violenza e realismo, esecuzioni per mano dei terroristi, ogni genere di pornografia. In un mondo del genere la paranoia della madre è poi tanto incomprensibile? Censurare, per brutto che istintivamente appaia il verbo, è così sbagliato? Voler evitare ai figli di ripetere i nostri stessi errori, di vivere esperienze che noi a nostro tempo abbiamo vissuto, è da ipocriti o da bravi genitori? Le risposte non possono che essere aperte e filosofiche. Per la Foster il tema è quello del libero arbitrio: se non siamo liberi di scegliere, non possiamo far nulla di giusto. L’etica è l’applicazione concreta dei concetti astratti di bene e male, è la decisione tra fare e non fare, perciò non può esistere in capo a chi non abbia la possibilità di determinarsi. Sceglie quindi la libertà riuscendo però a non condannare (sarebbe stato troppo facile) la madre, simbolicamente accecata come Edipo, e a non cadere celebrare come idilliaca una libertà che, per necessaria che sia, è nel mondo di oggi sempre più pericolosa.
Episodio esistenzialista.
03. CROCODILE
Due ragazzi, ubriachi e innamorati dopo una notte in discoteca, investono un ciclista e lo ammazzano. La coppia decide di disfarsi del cadavere; ma nel paesaggio freddo e deserto dell’Islanda un macchinario in grado di leggere i ricordi delle persone, utilizzato dalla polizia e dalle assicurazioni per raccogliere prove di crimini e incidenti, verrà a tormentarli, provocando una reazione a catena di violenza crescente.
Di nuovo la colpa, di nuovo il guardare come partecipazione: se tutto è registrato, vedere o non vedere può fare la differenza anche tra vita e morte. Sembra impossibile liberarsi dei propri ricordi e se non è possibile dimenticare non è possibile nemmeno perdonare e perdonarsi. L’episodio può esser letto come contraltare e sviluppo di “Arkangel”: in un futuro nel quale sarà sempre più difficile farla franca con la legge, la gente sarà più o meno buona? In questo episodio si osserva a cosa una singola persona, buona ma che ha sbagliato, può essere portata. Più che la tecnologia ad essere protagonista dell’episodio è l’istinto di conservazione umano. Tappa minore dell’antologia di Black Mirror, che non ci lascia nulla di particolare se non un amaro colpo di scena finale e gli spettacolari scenari dell’eterno gelo islandese.
Episodio freddo.
04. HANG THE DJ
L’amore è rivolta anti-sistema, questo potrebbe essere il riassunto del quarto episodio, nel quale siamo catapultati in un mondo quasi asettico, “Il sistema” appunto, nel quale un programma accoppia le persone dando alle loro relazioni una durata predeterminata, così da metterle alla prova e trovargli l’anima gemella. I due teneri protagonisti si trovano, si perdono e si ritrovano come nelle migliori commedie romantiche, si domandano come fosse possibile prima del “sistema” creare relazioni stabili, si fanno domande sul mondo in cui vivono e sull’onnipotenza del programma che li unisce, quasi equivalente al destino. A un livello superficiale la suggestione più interessante è data dalle relazioni con la data di scadenza: sapere in anticipo quanto durerà una storia è un bene o un male? Ritorna il tema del libero arbitrio, dell’uomo che non vuole sentirsi macchina, ma irrazionale e istintivo, e che dunque non è in grado di accettare meccanicamente ciò che un programma gli ordina di fare. Ma il ragionamento può essere condotto oltre: in un mondo nel quale abbiamo potenzialmente accesso a milioni di persone, partecipi della quotidianità di amici e conoscenti con un’intimità che era impensabile anche solo pochi anni fa, è ancora possibile conoscere e scegliere? Tanto più se a ciò si accompagna un’educazione emotiva sempre più approssimativa, un’attitudine sempre minore al contatto diretto e all’empatia.
Il risultato è il ricorso diffuso non solo al dating online, ma a agenzie/programmi che “accoppiano” matematicamente, levandoci il dubbio della scelta. L’assunto dell’uomo istintivo e irrazionale cade, sostituito da un uomo docile che è stanco di sbagliare continuamente e si accontenta volentieri di quello che gli viene offerto. Il dubbio della scelta diviene così paradosso. Lo verifichiamo nell’acquisto: dal negozio sotto casa in cui le disponibilità erano poche decine di prodotti e andavano alle volte prenotate, fino ai grandi siti online con milioni di prodotti consegnati a domicilio, l’escalation di offerta commerciale rende più o meno facile scegliere? Avere accesso a milioni di prodotti, come a milioni di persone, ci spinge in un primo momento a non accontentarci di ciò che c’è, sembrandoci legittimo all’interno di una così vasta offerta pretendere il prodotto/persona ideale e perfetto. Perciò, non possiamo essere davvero mai soddisfatti. Non solo. Le possibilità sono tante e tali che è virtualmente impossibile scorrerle tutta: finiamo allora per affidarci alla pubblicità (del prodotto o della persona, autopromossa sui social), al consigliato o correlato. Insomma, è lo strumento di mediazione a scegliere statisticamente per noi, valutando tutte le nostre esperienze precedenti (sentimentali e d’acquisto) e sulla base delle nostre scelte ci consiglia (leggi: impone) nuove scelte coerenti con le precedenti. Che sia un algoritmo, il destino o un interesse a muovere questi suggerimenti è una domanda aperta.
Episodio spikejonziano.
05. METALHEAD
In una campagna scozzese post-apocalittica, un gruppo di sopravvissuti fugge da un robot assassino che dà loro la caccia. Questo è quanto. L’episodio ha molto diviso i fan per la sua totale assenza di contesto, spiegazioni, interpretazioni. Ci sono ottime ragioni per detestarlo e ottime ragioni per amarlo. Partiamo da queste ultime: è girato, fotografato, montato e gestito in maniera incredibile. Ottima recitazione. Ottime animazioni digitali. Dal punto di vista puramente artistico, è probabilmente il miglior episodio della serie, non solo di questa stagione. Pressoché nessun dialogo, presenza scenica della protagonista continua e convincente, livello di tensione sempre molto alto, quest’episodio sarebbe in realtà pronto per il cinema – se solo avesse un senso. Sembra la metà di un bellissimo film, che consiglierei volentieri a tutti di vedere: solo che la metà mancante è quella importante. Ci si può abbandonare al godimento estetico di quest’episodio, ma non siamo più all’interno di Black Mirror, il cui obiettivo è quello di far riflettere, provocare, attraverso distopie tecnologiche di un futuro prossimo.
Quindi certo, il robottino che insegue la protagonista può essere un riferimento ai cani robot sviluppati dallaBoston Robotics, qualcosa quindi che già esiste e “ci minaccia”. Ad aver ancor più fiducia in Slade e Brooker, regista e sceneggiatore, potremmo pensare alla nascita di un genere, lo slayer-robotico, con al posto di Michael Mayers il malvagio cane bionico (che a un certo punto si dota anche di un coltello, nella migliore tradizione del genere). Ma mentiremmo a noi stessi. È come se avessero messo un ottimo episodio di Breaking Bad dentro How I met your mother: bello che sia, non sarebbe giusto definirlo avanguardistico, ma semplicemente nella serie sbagliata. Auguriamo agli autori di contestualizzarlo e farne un film di 100 minuti perché sarebbe, probabilmente, un bellissimo esperimento.
Episodio divisivo.
06. BLACK MUSEUM
Finale col botto con una sorta di antologia di episodi dentro l’episodio. Una ragazza in viaggio per il deserto degli Stati Uniti Occidentali si imbatte in un curioso museo e nel suo ancor più particolare curatore-proprietario; gli oggetti esposti sono l’occasione per racconti dal contenuto etico via via più controverso, fino a un finale a sorpresa che non è proprio il caso di rovinare a nessuno. Con riferimento anche ad episodi precedenti, ci è fatta una sorta di panoramica di quello che la scienza del distopico futuro di Black Mirror è in grado di combinare con la coscienza umana. L’intelligenza, la voce nella nostra testa, diviene così definitivamente un hard disk, un flusso di dati. Condannata ad essere solo sequenza di uno e di zeri è in questo modo plasmata, trasferita, ricombinata, clonata: nel momento in cui iniziamo a decodificare il funzionamento cerebrale, ecco che questo – e dunque, l’uomo – diviene da soggetto a semplice oggetto. Tante volte è stato affrontato il tema dell’intelligenza artificiale, in molte maniere differenti ci siamo posti la questione di come e con quali conseguenze questa possa prendere vita e consapevolezza; in questo geniale episodio le domande saranno di segno opposto: quando un’intelligenza umana cessa di essere tale e diventa puramente artificiale, priva di un’anima? Se fossimo in grado di scollegare definitivamente un’identità dal suo supporto fisico, cosa diventerebbe?
Anche con riferimento alla contemporaneità, forse il rischio maggiore che corre l’umanità è quello di diventare una somma di esistenze esclusivamente mentali. Il nostro pensiero non è più la nostra rampa di lancio verso l’esterno, ma una prigione. Chiusi dentro noi stessi, siamo costretti a guardare senza poter toccare, utilizzando (la percezione delle) sensazioni altrui. I corpi diventano involucri e supporti, la loro funzione è quella di strumenti di dolore e di piacere, nulla di più. Piuttosto che parte del nostro ente, sono estensioni funzionali e fallaci della nostra mente, delle quali liberarci quando inutili. L’eternità, stupenda o diabolica, è irraggiungibile fisicamente, ma può essere garantita al nostro pensare, al nostro sentire, insomma a ciò che noi interpretiamo come noi. L’avevamo visto nel – popolarissimo – episodio San Juniperodella terza stagione, dove ci veniva mostrato un paradiso di coscienze digitali: in questo Black Museum, che ne è una sorta di prequel, ci viene invece illustrato l’inferno. Siamo lontani molto più di un paio di secoli da “io è un altro” del veggente Rimbaud, il quale con la lucidità del poeta adolescente riconosceva la verità degli istinti e dell’irrazionale umano. La nostra mente è ospite del corpo. A renderci ciò che siamo è il nostro essere limitati nel tempo e nello spazio: fuggiamo le sirene dell’immortalità, gustiamoci il mondo fisico, godiamoci la nostra stupida, meravigliosa, difficoltà.
Palmiro Togliatti è stato uno dei fondatori e, successivamente, il capo del più importante partito comunista dell’Occidente e tra i principali padri costituenti dell’Italia repubblicana. A lui dobbiamo l’intuizione della costruzione di una democrazia di tipo nuovo, ancorando i destini del suo partito all’orizzonte della funzione nazionale della classe operaia candidata ad essere classe dirigente “che si fa carico della sorte e dei valori positivi della nazione” (Alessandro Natta).
E’ vero e confortante che, oggi, la figura di Palmiro Togliatti stia tornando al centro dell’attenzione degli storici. A patto che ci si liberi dall’artiglio perverso della damnatio memoriae imposta dai ceti conservatori e da una certa cultura estremistica e liberaldemocratica in oltre mezzo secolo.
Fondamentale è, dunque, la ricerca sull’atteggiamento seguito da Togliatti riguardo alla costruzione in Italia di una democrazia di tipo nuovo. Ricerca non astratta ma costruita nel fuoco di lotte e sommovimenti profondi all’interno di epoche storiche differenti e drammatiche (lotta di liberazione e Costituente, Guerra Fredda e repressione interna all’Italia, rapporto col socialismo reale e via italiana al socialismo) e che, tuttavia, fanno emergere Togliatti per originalità.
In un’intervista all’Unità dell’ottobre 1984, l’allora segretario comunista Alessandro Natta soffermandosi su Togliatti e la Costituente rilevava come egli non si muovesse “come un liberal democratico classico, semplicemente preoccupato di un ripristino di guarentigie statutarie. La sua visione della democrazia andava al di la di quella visione “pura” per cui la democrazia si riduce alla democrazia politica e alle garanzie e agli equilibri procedurali. Nella Costituzione si riverbera il suo pensiero che è quello di un ordinamento politico che consente l’esplicarsi dell’azione per una trasformazione sociale dello Stato, per una democrazia sostanziale che penetra e configura le strutture economiche, i rapporti sociali, l’area delle libertà reali”.
Da qui partiamo per parlare di “Togliatti e la democrazia italiana”, volume edito da Editori Riuniti nel 2017 che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Roma nel 2014 organizzato dalla Casa delle culture e dall’Associazione culturale Il Migliore. Gli interventi raccolti nel volume – curato da Alex Hobel – nulla omettono sul percorso politico del leader comunista evitando così di farne una figurina depotenziata nella sua forza, tuttavia respingendo l’immagine falsa costruita in decenni di anticomunismo militante e ossessivo. Nella premessa del volume non a caso il curatore osserva, citando uno scritto di Luciano Canfora di vent’anni fa, che la riflessione su Togliatti “era oggetto di un quotidiano martellamento polemico condotto in spregio ad ogni verosimiglianza o documentazione”.
Una periodizzazione schematica non sarebbe certo utile. Tuttavia, le varie fasi delle scelte di Togliatti consentono di osservare il vistoso e robusto filo che accompagna le sue analisi e la conseguente azione politica: la svolta di Salerno e la partecipazione dei comunisti ai primi governi; la Costituzione repubblicana; la resistenza alla repressione durante la guerra fredda senza diventare una ridotta assediata dalla quale non si potesse uscire vincitori; la via italiana al socialismo; il memoriale di Yalta; l’attenzione critica al primo centro sinistra.
Rileggendo i discorsi di Togliatti e legandoli all’azione politica del Pci da lui diretto, si osserva una forza in movimento, non dogmatica, legata alla realtà e alla storia italiana, capace di indicare obbiettivi avanzati senza mai perdersi in un vacuo estremismo parolaio. Dalla sua analisi sul fascismo negli Anni Trenta – il regime reazionario di massa – fino all’ardita riflessione sull’inserimento delle masse nella struttura di uno stato capitalistico, ritroviamo i capisaldi di ciò che è stato il comunismo italiano, fino alla segreteria di Enrico Berlinguer che portò naturalmente il Pci su posizioni ancora più nette, direi fortemente togliattiane, facilitate in questo da una storia che veniva da lontano.
Oggi anche la lettura più rispettosa della verità non si è liberata da alcune caricaturali impostazioni sul carattere di Togliatti. Ad esempio il suo leggendario realismo, nutrito di cinismo e pragmatismo – annotazioni solo in parte vere – non può essere disgiunte dal fatto che il segretario comunista fosse un autentico capo del movimento comunista italiano ed internazionale e non un, pur rispettabile, riformista socialdemocratico (così come quando si sceglie il Berlinguer che più aggrada alla bisogna: quello della questione morale, ma non quello della lotta agli euromissili, del la critica al craxismo corruttore, della difesa della scala mobile etc).
Certamente Togliatti parla all’oggi. Anzitutto a chi presume di fare politica a sinistra. Ad esempio nel rifiuto deciso degli slogan, della mancanza di analisi, dell’estremismo, della mancanza dell’orizzonte nazionale. Nel 1946, ad esempio, spiegava come anche nell’Uomo qualunque (il movimento di Giannini) pur legato nel Sud alle forze reazionarie e del latifondo ci fossero elementi di riflessione nell’analisi dei suoi elettori. O quando descrisse in un lungo saggio diviso in sei puntate su Rinascita (tra il 1955 e il 1956) la figura di Alcide De Gasperi, lamentando che la stesa Dc non ne avesse colto l’occasione per riflessioni originali.
Guido Liguori che analizza la questione dell’eredità gramsciana, vede nel periodo compreso tra il 1947-1948 e il 1953 “una sospensione della politica di Salerno”. La guerra fredda e la conseguente rottura dell’unità antifascista, la sconfitta del Fronte popolare, l’attentato del 1948, la feroce repressione anticomunista portarono a un pericolo reale di ritorno indietro. “Tutta la strategia togliattiana era fondata sull’ipotesi di lungo periodo di collaborazione tra i partiti democratici. L’analisi del fascismo come fase epocale, il suo stesso pessimismo facevano temere a Togliatti la possibilità di un ritorno a forme non democratiche di egemonia borghese” scrive Liguori. Eppure, aggiunge, “l’originalità del Pci in quegli anni di dura guerra fredda non venne meno”.
Fu grazie alle scelte di Togliatti – politiche ed editoriali – se il pensiero di Gramsci soffiò sull’Italia democratica. Luciano Gruppi nel 1974 scrisse che la pubblicazione dei Quaderni inflisse “un colpo decisivo ad ogni mortificazione meccanicistica del marxismo”. Questo ha consentito al Pci di diventare elemento decisivo della democrazia italiana – fattore incontrovertibile – e di poter continuare anche in frangenti dolorosi (1956) a restare il partito della Repubblica, della democrazia progressisva, della rivoluzione in Occidente.
Nel volume che stiamo analizzando, vi sono numerosi contributi tematici. Quello di Andrea Ricciardi, ad esempio, prende in esame il “controverso” rapporto con la cultura azionista a partire dalla accettazione obtorto collo della svolta di Salerno da parte dei dirigenti del Pd’A. In effetti quello fu un rapporto perennemente conflittuale: Togliatti nel 1951 rendendo loro l’onore delle armi ritenne che al Pd’A fosse mancata “paziente tenacia e tranquilla costanza” per diventare il partito delle masse lavoratrici. Sottinteso che quel partito fosse invece il suo Pci.
Nicola Tranfaglia analizza il contributo di Togliatti tra ricostruzione e riforme ricordando che il Pci, pur criticando severamente l’esperienza del primo centrosinistra, parlò di “opposizione diversa”. E tale fu il tratto dei comunisti anche nei decenni successivi. Era già accaduto con l’attenzione forte nel 1949 al piano del lavoro della Cgil di Giuseppe di Vittorio. Scrive Maria Paola Del Rossi che quell’intuizione della Confederazuione “andava nella direzione indicata da Togliatti nel 1948 di avviare un’importante battaglia politica, non solo sindacale, che si sarebbe dovuta basare su un programma di riforme strutturali per limitare il potere padronale in fabbrica in linea con il nuovo corso economico avviato dal Pci nel comitato centrale del settembre 1946”.
Gli “appunti per una ricerca” sulla via italiana al socialismo sono elencati da Renzo Martinelli. Quando nel 1964 muore Togliatti a Jalta, in Italia risorge un nuovo governo di centrosinistra organico guidato da Moro col Psi di Nenni. Per Martinelli quella è l’ultima battaglia di Togliatti conclusa “con una evidente sconfitta” perché il segretario comunista rivendicava la partecipazione organica dei comunisti al governo. Il “significato periodizzante” della morte di Togliatti costituirebbe infatti “la conclusione di un’intera fase storica nella vicenda del partito nuovo” se non addirittura “una sorte di precoce fine del Pci”. Tesi che Martinelli spiega successivamente addebitando la “sconfitta” (cioè la non partecipazione del Pci al governo) a limiti di strategia mettendo però in ombra i potenti condizionamenti internazionali anticomunisti, che drammaticamente riemersero tre lustri dopo con il terrorismo, strumento contro l’avanzata del movimento dei lavoratori e dell’attacco alla partecipazione dei comunisti al governo.
Giovanni Gozzini analizza il primato della politica estera nella concezione di Togliatti e quella cultura storicista “che concepisce i partiti come strumenti di intersezione delle masse popolari dentro lo Stato”. Il Pci, assediato anche militarmente nella guerra fredda, si vide costretto a una stretta organizzativa senza perdere, anzi accentuando, le caratteristiche di massa. Lo stesso Togliatti capì che senza di lui il Pci avrebbe rischiato di deragliare e disse no all’invito di Stalin – avallato da un voto quasi unanime della direzione del partito – che lo voleva nel 1951 a capo del Cominform. Tuttavia Gozzini mette in evidenza, nel rapporto con L’Urss “la rinuncia a una critica strutturale”, mantenendo invece una sorta di “vincolo esterno” che coinvolge i militanti.
Di notevole interesse il saggio di Alexander Hobel sulla traiettoria del Pci, di Togliatti e del movimento comunista internazionale a partire dal 1956 sino al memoriale di Yalta. Otto anni densi che confermarono il dinamismo internazionale dei comunisti italiani alle prese con il XX congresso del Pcus, con la demolizione di Stalin e dello stalinismo, con la critica al “progressivo sovrapporsi di un potere personale alle istanze collettive” (intervista a Nuovi Argomenti). Hobel ricorda il continuo richiamo all’analisi della realtà, a partire dal contesto internazionale necessarie “per affrontare e risolvere in modo nuovo le questioni dell’avvicinamento tra diversi settori del movimento operaio”. Posizioni che i sovietici accolsero con irritazione al punto che Krusciov criticò l’intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti “soprattutto per l’uso del termine degenerazione”. Il legame di ferro non modificò, anzi esaltò, l’autonomia del Pci dal Pcus a differenza di altri partiti comunisti, come il Pcf.
Il mondo bipolare cambia agli inizi degli Anni Sessanta. Con lo sviluppo della decolonizzazione, la crescita del campo socialista e dei movimenti di liberazione, la fallita invasione della Baia dei Porci, la nascita del Muro a Berlino, i contrasti con la Cina e l’unità nella diversità. Il libro si conclude con la riproposizione di un saggio di Salvatore D’Albergo del 1973, pubblicato come prefazione ai Discorsi della Costituente di Togliatti.
Alex Hobel (a cura di) Togliatti e la democrazia italiana (Editori Riuniti, 2017, pagine 332, 18 euro)
Nel silenzio assordante dei principali mezzi di informazione, e già questo la dice lunga sul concetto di “verità” che si vuole propagandare, il Ministro dell’Interno Minniti ha annunciato ieri un provvedimento che d’intesa con la Polizia di Stato permetterà a detta del Viminale di intervenire a gamba tesa sulla questione delle “fake news”.
Di fatto, i cittadini potranno segnalare alla Polizia le notizie che ritengono infondate e quest’ultima potrà intervenire a sua discrezione per segnalare quali siano notizie vere e quali false. E’ tutto vero, potete leggerlo qui, sempre che non sia anche questa una fake news e la Polizia non decida di intervenire contro sè stessa.
L’esito del provvedimento è l’istituzione di una sorta di Ministero della Verità, che mette in discussione in maniera palese la possibilità di espressione politica in Rete, e che soprattutto introduce chiaramente l’idea per la quale ci possano essere delle istituzioni che la Verità la conoscono e posseggono.
Uno scenario orwelliano, che è il logico punto di arrivo di un dibattito malato sin dalle origini e che partendo da un problema reale, ovvero la moltiplicazione incontrastata delle notizie palesemente false sopratutto sul web, giunge ad una sorta di censura poliziesca che come ogni censura non può essere animata da un criterio diverso da quello politico.
Per quanto della politica di Palazzo ci interessi poco, fa sensazione leggere nel suo comunicato che la Polizia di Stato considera evidente “la necessità di arginare, con specifico riguardo al corrente periodo di competizione elettorale, l’operato di quanti, al solo scopo di condizionare l’opinione pubblica, orientandone tendenziosamente il pensiero e le scelte, elaborano e rendono virali notizie destituite di ogni fondamento, relative a fatti od argomenti di pubblico interesse.”
Chi deciderà se una promessa elettorale è realizzabile o meno? Chi avrà l’analisi giusta e vera dei dati economici? La solerzia poliziesca contro i siti di click-baiting si applicherà in maniera equa con il Tg1 o il Tg4 quando questi diffonderanno ricostruzioni palesemente irreali? Il poliziotto diventerà un giornalista impegnato in un quotidiano lavoro di “fact-checking”? E con quali competenze?
Ma è un discorso che ovviamente ha ulteriori complicazioni per chi ha ancora meno voce e possibilità di espressione nei mezzi mainstream. La propaganda di un sito di controinformazione o di movimento, se segnalata da centinaia di leoni da tastiera, da quale funzionario verrà giudicata “vera” o “falsa”? E se il solerte funzionario giudicherà in maniera errata una notizia? Come si desume da queste poche domande, un provvedimento del genere ha lati quantomeno oscuri.
Vedremo come si realizzerà in pratica questa intesa, sperando che si risolva in una boutade pre-elettorale, ma siamo di fronte ad una svolta sicuramente preoccupante nella concezione dell’opinione pubblica da parte di istituzioni sempre più avviluppate in una dimensione reazionaria e che attacca sempre più gli spazi anche semplicemente formali di una democrazia liberale.
Come scrivevamo già qualche mese fa, “la realtà è che le fake news non portano con sé alcuna novità: sono già tra noi, sono presenti pienamente nelle nostre vite da anni. Sono quelle dell’economia che si sta riprendendo, dello spread che si abbassa grazie alle riforme e alla stabilità, del Jobs Act che porta lavoro, dei voucher che servono a far emergere il lavoro nero, della Buona Scuola che mette al pari gli studenti con l’attuale sviluppo della tecnologia e del mondo del lavoro, dei risparmiatori tutelati dal crack finanziario”.
La verità è che un fenomeno come quello delle fake news è derivazione di una profonda mancanza di educazione all’informazione digitale che sta a monte della Rete. Intervenire in maniera poliziesca per limitare la libertà, in un nome di una presunta sicurezza informativa, non è altro che blindare ulteriormente gli attuali canali di propaganda unificata, approfittando del caos informativo per stringere ancora di più i cordoni all’informazione indipendente e garantire stabilità ai manovratori.
"Paura? No, terrore", confessa Luca Marinelli. Il 23 e 24 gennaio in sala, poi in tv, è lui a cantare il Principe libero
19 gennaio 2018
Il 23 e il 24 gennaio in sala con Nexo Digital, il 13 e 14 febbraio in prima serata su Rai Uno, è Fabrizio De André Principe libero, diretto da Luca Facchini, scritto da Giordano Meacci e Francesca Serafini, interpretato da Luca Marinelli (Faber), Valentina Bellè (Dori Ghezzi), Elena Radonicich (la prima moglie Puny).
Pruduzione Bibi (Angelo Barbagallo) E Rai Fiction, del cantautore scomparso l’11 gennaio 1999 vengono passati in rassegna circa 40 anni, dalla sua prima chitarra donatagli dal padre Giuseppe (Ennio Fantastichini) all’Hotel Supramonte composto dopo l’esperienza del sequestro, lui e Dori, in Sardegna nel 1979.
Il De André che conosciamo, tra carruggi e graziose, musica e poesia, bicchiere e sigaretta, Paolo Villaggio (Gianluca Gobbi) e Luigi Tenco, i figli Cristiano e Luvi, l’anarchia e l’arte, l’arte e gli ultimi.
Marinelli, che ritrova Meacci e Serafini dopo Non essere cattivo e la Bellè dopo Una questione privata, ricorda: “In quel periodo mi sono sentito un uomo migliore, tornare a me è stato abbastanza deludente”. Voce e talvolta chitarra, nel film, tra gli latri, esegue La ballata dell’eroe, Il pescatore, Canzone dell’amore perduto, Se ti tagliassero a pezzetti, e senza sfigurare.
Tinni Andreatta, di Rai Fiction, sottolinea: “Ogni film è un tradimento, tradire per essere fedeli all’essenza: le canzoni ci portano dentro, una condizione artistica che ha reso questo film diverso dal solito. Luca Marinelli è un protagonista fuori dagli schemi, incarna l’anima senza cadere nel mimetismo. In questa storia ci ha portato per mano Dori, ci ha permesso di sentire il cuore pulsante di questo spaccato di vita”. Replica Dori Ghezzi, seconda moglie e custode della memoria di Faber: “E’ stato un film molto dibattuto, fatto da persone che hanno incontrato Fabrizio tanti anni prima, sono cresciuti con le sue musiche, stando attente al Fabrizio uomo: Giordano, Francesca e anche Facchini, tramite Fernanda Pivano. Io ho voluto dare fiducia anche a dei giovani, come ha fatto Fabrizio con Piovani e De Gregori”. Della gestazione Dori sottolinea: “In certi casi han dovuto convincere me, in altri io loro, siamo tutti scesi a compromessi, non conoscevo la drammaturgia cinematografica, a volte per seguire il flusso bisogna tradire la realtà”. E sulla scelta di Marinelli: “Abbiamo aspettato tanto tempo per trovare lui, era la persona più credibile, l’ho capito subito vedendo Tutti i santi giorni, e da lì ho inteso che poteva avere le caratteristiche e la sensibilità per entrare nel ruolo di Fabrizio”. “Ma tutti gli attori sono straordinari – prosegue – mia cognata si è commossa vedendo Davide Iacopini interpretare suo marito Mauro De André: a sto punto, mi sono detta, non abbiamo commesso tanti errori”.
Marinelli rammenta di aver provato “terrore puro. Non avevo idea di cosa fare, ero terrorizzato, ho pensato che la cosa migliore da fare fosse creare un personaggio in questo universo parallelo di finzione, creare un De André che non era De André: questo mi ha dato più tranquillità. E ringrazio Dori, mi ha tenuto per mano, c’erano momenti in sala d’incisione in cui avrei voluto essere in tutt’altro posto”.
Se la sceneggiatrice Serafini rivela come “per noi Faber era una specie di dio, qui correvamo il rischio di farne agiografia, allora abbiamo capito che la strada da seguire era quella della sua Buona novella: lui c’era riuscito con Gesù Cristo, e allora noi potevamo farlo con lui, lasciando da parte i miracoli che sono le sue canzoni”, la Radonicich parla di “un progetto ammantato d’amore dal principio, noi un gruppo incredibile, ci siamo mossi come un flusso, nessuno mai solo” e la Bellè rivela “l’imbarazzo di avere il proprio personaggio seduto dietro il monitor, sul set”.
Infine, Dori Ghezzi su un attore romano, Marinelli, per De André e, più in generale, sulla mancanza o penuria di interpreti genovesi nel cast di Principe libero: “Avessimo dovuto aspettare un attore genovese, magari saremmo ancora qui. E poi De André aveva un accento neutro, se scherzava lo faceva in gallurese o napoletano, sia lui che Villaggio erano nati a Genova, ma erano figli dell’universo: toglietevi dalla testa questa cosa dell’accento”.
Siamo governati da ignoranti contenti di esserlo. Dunque da gente pericolosa per tutta la popolazione, perché – perversa conseguenza di leggi elettorali che promuovono i “nominati” da qualche segreteria – dispongono delle leve del potere militar-poliziesco. L’unico che gli sia rimasto, dopo la “sussunzione di sovranità economico-finanziaria” da parte dell’Unione Europea.
La notizia è rimbalzata su tutti i media, spaventando in parte anche quelli più strettamente di regime (fa eccezione solo qualche fulminato del pig journalism). Il ministro dell’Interno Marco Minniti ha presentato “il Primo protocollo operativo per il contrasto alla diffusione delle fake news attraverso il web”, predisposto dal Ministero del’Interno in collaborazione con la Polizia. Ovvero con se stesso.
Una classica misura da ministro fascista. Ma questa definizione non gli si attaglia più molto, perché persino il fascismo storico – quello che metteva come ministro dell’istruzione il miglior filosofo italiano del tempo, Giovanni Gentile – ha evitato di affidare a dei poliziotti il compito di stabilire cosa fosse “vero” e cosa no. Inventò infatti un ministero apposito, quello della stampa e propaganda, poi diventato Minculpop, incaricato di far girare la voce del regime su qualsiasi argomento, censurando tutte le altre.
Non c’era molta differenza con la pensata di Minniti, all’effetto pratico, ma in qualche modo si faceva capire che la “verità di regime” era una verità di parte, basata sulla forza.
Il deciso passo avanti di Minniti sta in due passaggi decisivi: la pretesa di stabilire quasi automaticamente cos’è vero e cos’è falso (fake news), tramite un “red button” affidato a dei poliziotti, e soprattutto la pretesa di far credere che questa sia un’operazione “democratica”.
Andiamo con ordine. La discussione sulla verità è antica quanto l’essere umano e continuerà fin quando esisterà un bipede pensante sulla Terra. In ambito scientifico – assai più rigoroso di quello politico, specie italico – la verità viene espressa in leggi e teorie, che per essere considerate valide debbono essere verificate da qualsiasi appartenente alla comunità scientifica di riferimento (i biologi non si impicciano di fisica, e viceversa), tramite la replicabilità degli esperimenti che hanno portato alla loro formulazione.
La relatività di Einstein, per fare un esempio, è “verità accettata” da un secolo a questa parte. Ma ciò non toglie che ogni esperimento o ricerca punti esplicitamente a verificare se qualche aspetto della realtà fisica possa metterla in discussione.
Questo modo di procedere assume insomma che “la verità” sia un processo storico infinito – che naturalmente è fatto di punti temporaneamente fermi e accettati da tutti –, ma anche e soprattutto un processo che deve essere affidato a esperti della materia. E le materie sono una moltitudine, per cui anche tra gli scienziati ognuno parla di quel che studia e sa, mentre tace e ascolta (al massimo fa domande) sul lavoro altrui in materie diverse.
Vabbeh, dirà qualcuno, però i poliziotti di Minniti si occuperanno di cose ben meno difficili, tipo cancellare la pletora di falsi palesi sull’infinito numero di presunti parenti di Laura Boldrini che sarebbero stai assunti da qualche parte (un tormentone in effetti osceno che dura da cinque anni e terminerà il 4 marzo…).
E’ un’obiezione idiota quasi quanto l’istituzione del red button e i meme offensivi. Il punto è infatti uno solo: l’affidamento alla polizia di stabilire cosa sia vero o no. Una volta fissato per legge, questo potere sarà applicato secondo i regolamenti e le indicazioni del ministro dell’interno e del governo in carica. Non crediamo che Salvini riuscirà a fare molto peggio di Minniti (visto che Berlusconi lo candida in quel ruolo), ma è chiaro che si tratta di un potere enorme e abnorme, che costringerà ogni blogger, giornalista, cronista o free lance, ad evitare qualsiasi notizia potenzialmente sgradita al governo. Il red button vigila sulle sue parole.
Qualcuno ha giustamente assimilato questa pretesa a quella medioevale del Sant’Uffizio, che arrivò a un passo dalla tortura su Galileo o che aveva già mandato al rogo Giordano Bruno. Ma anche qui Minniti è riuscito a far peggio. In fondo il Sant’Uffizio vigilava sulla nascente attività scientifica, che metteva inevitabilmente in discussione le cosiddette sacre scritture. Insomma, una roba che riguardava allora poche centinaia di persone e su materie che non erano accessibili alle masse sterminate degli analfabeti.
Qui, invece, il bottoncino di Minniti pretende di vigilare sul notiziume quotidiano, quello su cui ognuno di noi – per proprio conto – forma le proprie opinioni. Dunque Minniti instaura uno strumento che vorrebbe proprio essere un controllo delle fonti con cui si costruisce l’opinione pubblica.
Una pretesa stupida, diciamolo subito. La massa di informazione circolante è largamente superiore alle capacità di lettura quotidiana di un reparto anche numeroso di poliziotti del pensiero. Dunque bisognerà far ricorso a qualche algoritmo incentrato su un certo numero di “parole sensibili”. Non è difficile immaginarle, perché avranno come criterio di individuazione la “sicurezza”, che è sempre quella del potere. Quindi ogni “critica” ai potenti verrà registrata, monitorata, soppesata nella frequenza e ripetizione, e – quando il “limite di guardia” sarà raggiunto – entrerà in funzione il famigerato bottoncino.
Una pretesa stupida non è per questo meno pericolosa. E lo sanno benissimo, perché scrivono:«non esiste nessun sistema tecnologico in grado di individuare in maniera assoluta le notizie false e la loro veridicità è dimostrabile solo attraverso la valutazione di esperti di settore». Insomma, il bottone deve essere azionato da un bipede pensante, che ha le sue idee come tutti noi. Immaginatevi un poliziotto stile Bolzaneto o Diaz come potrà comportarsi…
La stupidità prepotente del fascista, però, risalta maggiormente mettendola a confronto con la realtà del mondo dell’informazione attuale. In cui, come spiegava addirittura Obama qualche tempo fa, «Il mondo di uno che si informa su Fox News non ha praticamente nessun punto in comune con quello di uno che si informa ascoltando la NPR». Cosa significa? Che si sono creati “microcosmi” fatti di informazioni coerenti tra loro e assolutamente diversi tra loro. Esempio? Chi si abbevera al microcosmo composto da Libero-Giornale-Rete4-”Dalla vostra parte” è convinto di vivere in un mondo alieno, senza alcun punto di contatto con quello reale e meno ancora con quello di altri microcosmi.
La molteplicità di questi mondi è tale da mettere in discussione radicale ogni “autorevolezza”. Un po’ quello che abbiamo visto accadere nel microcosmo della cosiddetta sinistra radicale degli ultimi 25 anni, quando si è imposta la criminale psicologia dell’”ognuno dice la sua”; alla fine chiunque si sente in grado di discettare alla pari con chiunque altro, fosse pure il massimo esperto della materia di discussione.
E ovviamente quando scompare l’autorevolezza si apre un vuoto terribile in cui ogni imprenditore della paura ritiene di potersi infilare, surrogandola con l’autorità. Non c’è più un un universo condiviso, una comunità che riconosce chi ha ragione per la forza degli argomenti? E allora ecco qui quello che sbandiera l’argomento della forza per ridurre la complessità inestricabile del reale.
Luciano Scandulli (Silvio Orlando), appassionato professore liceale, viene ingaggiato da Cesare Botero (Nanni Moretti), giovane ministro delle partecipazioni statali, perchè scriva i suoi discorsi dopo una carriera da "ghost writer" per un noto scrittore scoperta dalla bella traduttrice del suo staff, Juliette. Nonostante le agevolazioni l'uomo lascia il maleodorante posto intuiti gli intrallazzi dietro alla scalata praticamente senza ostacoli e che ormai porta il botero dritto allo scranno più alto del governo. Finale d'impatto.
Cominciamo col dire che da un film cosi solido e a compartimenti stagni ci si aspettava degli avvenimenti più decisivi: il tanto sottolineato, anche dal finale incandescente, cambiamento "dai buoni ai cattivi" di Scandulli è tutto negli ideali degli sceneggiatori: i nuovi privilegi come l'ottenere un libro raro in prestito o una ristrutturazione gratis di casa, sono virgole en passant, non lo convicono di nulla ne lo mettono a tacere,a dire la verità è lontano anche da una basica reazione di gratificazione, apprezzamento o anche solo stupore (a parte ovviamente, quando riesce ad avere i temi per gi esami della maturità della sua classe) . E poi c'è lui, Botero: qual è la possibilità che un ministro che deve nascondere azioni non solo moralmente non irreprensibili ma anche giuridicamente, prenda al suo servigio un uomo che è evidentemente 1)non corruttibile 2)impossibilitato per motivi di intelletto brillante e vivido a bersi la quantita di castronerie dello staff del ministro? Dovrebbe essere un ennesima annotazione su quanto Botero creda nel suo potere, ma sembra più un fiammante segno di stupidità (in ogni caso, non vi era bisogno di nessuna delle due repetita non-juvant, essendone costellata tutta la trama, al punto che essa, quando pensa a torto di essere troppo sibillina, fa addirittura dire a moretti "io non ho mai finito un libro! mai!") insomma, molto si regge sulla solita maestria di Rulli e Petraglia e Luchetti , qua aiutati da un montaggio che ha evidentemente tagiato rami e rami e da una vera regia, ma con qualche veridicità in più e un colpo di scena vero e non telefonatissimo avrebbe detto e funzionato di più, senza lasciare quel senso di incompiutezza e di opera a metà che devasta il giudizio finale. Raro caso di pellicola che parla al cuore della nazione, che sviluppa anzi anticipa -uscì due anni prima di Mani Pulite- temi veri e sacrosanti, ma fredda come un cubetto di ghiaccio, genere pilota di un format televisivo.
Ernesto e Filippo si conoscono da una vita, ma non si rivedevano da 25 anni: a dividerli è stato l'amore per la stessa donna, Marianna, e la nascita di una figlia, Nina. Ora però si sono ritrovati ad insegnare nello stesso liceo, l'uno italiano, l'altro matematica, e a dividerli è subentrato il loro modo di gestire il rapporto con le alte tecnologie: Ernesto ha un Nokia del '95, non possiede un computer ed è orripilato davanti al dilagare dei social media; Filippo invece vive di selfie, chat e incontri in rete. Le rispettive preferenze non possono non influire sullo stile accademico dei due docenti nonché sulle loro relazioni personali, e l'attrito esplode proprio in classe, debitamente filmato e condiviso su Internet. Nina intercetta quel video virale e decide di girare un documentario creando un esperimento antropologico secondo cui Ernesto dovrà imparare ad utilizzare computer, smartphone e social, mentre Filippo dovrà disintossicarsi da qualsiasi comunicazione virtuale, con l'aiuto di un gruppo di sostegno per la dipendenza online. E poiché Nina ha una conoscenza personale di entrambe le sue cavie la situazione è destinata a complicarsi e ad assumere sfumature tragicomiche.
Massimiliano Bruno e la Italian International Film di Fulvio Lucisano si buttano a pesce sulla nuova tendenza cinematografica italiana che individua nel suo capostipite Perfetti sconosciuti, ma come ogni progetto successivo che rincorre un'ispirazione originale Beata ignoranza non riesce a trasformare un'idea interessante (il confronto fra due modi opposti di gestire un aspetto chiave della contemporaneità) in una narrazione cinematografica soddisfacente.
Il principale problema di Beata ignoranza è infatti proprio la sceneggiatura firmata da Bruno insieme a Herbert Simone Paragnani e Gianni Corsi, piena di implausibilità che riguardano soprattutto la costruzione dei due protagonisti. Se da un lato Ernesto è divertente nella sua avversione granitica alla modernità (merito anche della recitazione di Marco Giallini, che sa inserire sfumature anche là dove non sono previste) dall'altro risulta del tutto incoerente nella gestione del suo rapporto con Nina e nell'attrazione per un'altra insegnante, Margherita, assuefatta a quei social che lui dovrebbe detestare. Ma va ancora peggio a Filippo, ignorante anche della materia che insegna (Perché gli permettono di fare il docente di ruolo in un liceo? Perché per fortuna c'è la "Buona Scuola", suggerisce una battuta), ex elettore di Forza Italia che vive alla Balduina insieme a due perdigiorno cannaioli, in un assetto domestico (anche solo di arredo) che sarebbe concepibile al Pigneto, non in uno dei quartieri più conservatori di Roma. E via elencando incoerenze e assurdità. Alessandro Gassman si vede costretto a recitare il suo ruolo contradditorio e bidimensionale con sguardi e smorfie che non fanno onore alla sua abilità di attore.
Dopo numerose "piccole deviazioni" lungo il suo percorso professionale, il 37enne David sta per fare il grande salto e conquistarsi uno stipendio da 1700 euro al mese. La svolta dovrebbe avvenire grazie al lancio di un prodotto rivoluzionario di cui David curerà la promozione. Ma durante la prova di quel lancio David viene accostato da uno strano tipo, Marcello, che lo riempie di elogi, lo invita a bere e poi a casa sua, dove lo aspettano due ragazze straniere molto attraenti. Il mattino successivo David si sveglia in una casa vuota, senza auto né portafogli, e senza aver presenziato al lancio che avrebbe dovuto essere la sua grande occasione. Da quel momento passerà ogni minuto alla ricerca di Marcello, truffatore professionista di consumata abilità. Loro chi? si inserisce coraggiosamente nel solco dei recenti film americani sugli imbroglioni consumati, da Il genio della truffa a Colpo di fulmine a Now you see me, e riesce a tenere loro dietro per velocità della narrazione e frenetiche svolte della trama, alcune più credibili di altre. Il film però alza il tiro ogni qual volta fa leva su quelle debolezze tipicamente italiane che rendono ogni truffa più semplice (perché "in Italia ci sono ottimi incentivi nel settore truffa"), prima fra tutte il campanilismo e il desiderio dei politici locali di entrare nei giri grossi. Funziona bene la verve trasformista di Marco Giallini, che attraverso i suoi travestimenti mantiene intatto quello spirito guascone che ha tra i suoi predecessori filmici il Bruno de Il sorpasso, così come l'ingenuità da uomo comune di Edoardo Leo, in un ruolo che in passato avrebbe potuto essere interpretato da Nino Manfredi. La regia è elastica, il montaggio atletico, e la sceneggiatura (di Fabio Bonifacci, che debutta anche dietro la cinepresa accanto a Francesco Micchiché) è insolitamente ricca e scoppiettante, per una commedia italiana contemporanea. Lo stratagemma iniziale, per cui la storia di David viene narrata da lui stesso a un editore, ha una conclusione davvero improbabile, ma l'escalation truffaldina è divertente, e Micciché e Bonifacci fanno del loro meglio per creare illusioni ottiche utilizzando la qualità di "lanterna magica" del cinema. Al centro della trama c'è l'idea di contrapporre alla noia di un'esistenza sempre più risicata e prevedibile l'emozione violenta e coinvolgente dell'imbroglio, anche quello subìto, perché "il resto è coda alla posta". E la volontarietà di chi si fa fregare per provare il brivido di una vita almeno un po' spericolata è l'elemento cardine affinché una truffa (o un'avventura, anche cinematografica) funzioni.
L'ora più buia è un film di genere biografico, drammatico, storico, guerra del 2017, diretto da Joe Wright, con Gary Oldman e Kristin Scott Thomas. Uscita al cinema il 18 gennaio 2018. Durata 125 minuti. Distribuito da Universal Pictures.
Political drama firmato Joe Wright, L'Ora più buia è ambientato all'inizio della Seconda guerra mondiale. L'ora più buia cui fa riferimento il titolo è il momento cruciale della scelta, da parte del Primo ministro britannico Winston Churchill(Gary Oldman), tra l'armistizio con la Germania nazista e l'intervento nel conflitto armato. Di fronte all'avanzata dell'esercito tedesco e all'imminente invasione della Gran Bretagna, Churchill è chiamato a decidere tra la tutela del Paese in nome di una pace apparente e temporanea e la difesa dei propri ideali di autonomia e libertà. Accanto a lui, indaffarate nel dietro le quinte della storia, la moglie Clementine (Kristin Scott Thomas) e la segretaria personale Elizabeth Nel(Lily James). Nel cast anche Ben Mendelsohn nei panni dell'amato sovrano Re Giorgio VI, e Ronald Pickup in veste di Primo ministro uscente, Neville Chamberlain.
PANORAMICA SU L'ORA PIÙ BUIA:
Le pagine cruciali della storia britannica sono recentemente sempre più in primo piano, al cinema come nelle serie televisive. Non è un territorio inusuale anche per il regista Joe Wright, il cui piano sequenza sulla spiaggia di Dunkerque in Espiazione è stato spesso lodato, e confrontato al lavoro di Nolan nel recente film omonimo. L'ora più buia già dal titolo ci fa intuire la delicatezza del momento in cui si trova il protagonista, Winston Churchill. Il primo ministro Neville Chamberlain è prossimo alle dimissioni dopo molte mosse impopolari, come l'ostinazione nel cercare una soluzione politica con l'aggressivo regime hitleriano.Siamo nel maggio 1940 e il corpulento politico conservatore, appena nominato premier, deve subito prendere una decisione fondamentale per le sorti del suo Paese. Prendere atto della sconfitta francese e cercare la pace con la Germania, o continuare a combattere, confidando in una pronta riscossa, a partire dal recupero delle proprie truppe, accerchiate sulla spiaggia francese di Dunkerque?
Una sfida totale con l'obiettivo di mobilitare la nazione intera per proseguire la guerra in nome degli ideali liberal democratici degli alleati. L'ora più buia è tutto ambientato negli austeri e cupi uffici della politica britannica, in una sorta di fronte interno rispetto all'eroismo epico del film di Nolan. Wright sceglie una via claustrofobica, tutta concentrata sulla parola, quella molto caratteristica del linguaggio di Churchill, un vero leone in gabbia. Il premier inglese è qui interpretato da un irriconoscibile Gary Oldman, truccato pesantemente per l'occasione, tanto da richiedere oltre tre ore di make-up ogni mattina prima di iniziare le riprese. Un lavoro estremo che ogni attore sogna, con un tono di voce anch’esso ben diverso dal proprio, per il grande interprete londinese, nominato solo pochi anni fa all'Oscar per La talpa. La sceneggiatura è del neozelandese Anthony McCarten, già autore de La teoria del tutto: ancora una storia vera e biografica con un’interpretazione forte, quella dello scienziato Stephen Hawking per cui Eddie Redmayne vinse l'Oscar.
Per il ruolo di Neville Chamberlain era stato scelto John Hurt, poi sostituto da Ronald Pickup a causa della malattia del grande attore, poi scomparso a gennaio del 2017. Non si smentisce la grande scuola degli interpreti britannici, qui presente in forze: Stephen Dillane è il ministro degli esteri Lord Halifax, grande sostenitore di una pace con Hitler, Kristin Scott Thomas è la moglie di Churchill, Clementine, mentre Lily James passa dai piani nobili di Donwton Abbey al ruolo di segretaria personale del primo ministro. C’è anche un po' d’Italia nella squadra de L’ora più buia, con il montatore Valerio Bonelli e il compositore della colonna sonora, il pisano Dario Marinelli, collaboratore abituale di Wright, vincitore dell'Oscar per Espiazione e nominato per Anna Karenina e Orgoglio e pregiudizio.
L'uscita nei cinema in Italia di L'ora più buia è prevista per il 18 gennaio 2018.
Giorgio VI (Ben Mendelsohn): Perché sono stato costretto a convocare Churchill? Ha dei precedenti catastrofici!
Clementine Churchill (Kristin Scott Thomas): Fagli vedere le tue vere qualità, la tua assenza di vanità... Winston Churchill (Gary Oldman): Sì, la mia volontà di ferro... Clementine: Il senso dell'umorismo! Winston Churchill: Oh-oh-oh
Generale Ironside (Malcom Storry): I tedeschi circondano 60 divisioni britanniche e francesi, nei prossimi giorni vedremo il collasso dell'Europa occidentale
Elizabeth Layton (Lily James): Quando tempo gli resta se non li soccorriamo? Winston Churchill: Due giorni, forse...ci vorrà un miracolo per salvarli
Clementine: Il peso del mondo intero è sulle tue spalle
Visconte Halifax (Stephen Dillane): Abbiamo di fronte una sconfitta, l'annientamento dell'esercito e una imminente invasione; dobbiamo negoziare la pace Winston Churchill: Quando impareremo la lezione? Non si può ragionare con una tigre, quando la tua testa è nella sua bocca! Halifax: Sciocchezze! L'unico pericolo vero... Winston Churchill: Vuole smetterla di interrompermi quando la sto interrompendo io?!
Winston Churchill: Abbiamo di fronte molti, molti lunghi mesi di lotta e sofferenza! Anche se tanti vecchi e importanti Stati sono caduti nella morsa del dominio nazista, noi difenderemo la nostra isola quale che sia il prezzo da pagare! Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sulle piste di atterraggio, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline! Non ci arrenderemo mai! Perché senza vittoria non può esserci sopravvivenza!
Winston Churchill: Vostra Maestà! Giorgio VI: Signor Churchill...La invito ad assumere la carica di Primo Ministro
Reporter (Joshua Higgott): Deve rispondere al Lord del sigillo privato Winston Churchill: Sono sigillato in gabinetto! Penso di potermi occupare solo di una cacca alla volta
Winston Churchill: L'Europa è ancora... Visconte Halifax: L'Europa è persa
Winston Churchill: Dobbiamo incitare ad una resistenza eroica
Winston Churchill: Mi assumo la responsabilità Visconte Halifax: Davvero? Winston Churchill: Davvero sì, Signore! Ed è la ragione per cui occupo questa sedia!
Ella & John - The Leisure Seeker è un film di genere drammatico del 2017, diretto da Paolo Virzì, con Helen Mirren e Donald Sutherland. Uscita al cinema il 18 gennaio 2018. Durata 112 minuti. Distribuito da 01 Distribution.
The Leisure Seeker è il soprannome del vecchio camper con cui Ella e JohnSpencer (Helen Mirren e Donald Sutherland, diretti da Paolo Virzì, al suo primo film in lingua inglese) andavano in vacanza coi figli negli anni Settanta. Una mattina d'estate, per sfuggire ad un destino di cure mediche che li separerebbe per sempre, la coppia sorprende i figli ormai adulti e invadenti e sale a bordo di quel veicolo anacronistico per scaraventarsi avventurosamente giù per la Old Route 1, destinazione Key West. John è svanito e smemorato ma forte, Ella è acciaccata e fragile ma lucidissima, insieme sembrano comporre a malapena una persona sola e quel loro viaggio in un'America che non riconoscono più - tra momenti esilaranti ed altri di autentico terrore - è l'occasione per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione, ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni sorprendenti fino all'ultimo istante.
A distanza di quindici anni dalla prima esperienza, Paolo Virzì torna ad attraversare l'Atlantico e a girare negli Stati Uniti. Ma questa volta, al contrario di quanto era stato per My Name is Tanino, non lo fa con un soggetto originale e una storia, tutto sommato, "italiana": Ella & John - The Leisure Seeker, è il vero film "americano" del regista livornese, basato sul romanzo del 2009 di Michael Zadoorian "In viaggio contromano", edito in Italia da Marcos y Marcos. Virzì ha adattato il libro assieme a collaboratori abituali come Francesco Piccolo, Francesca Archibugi e quello Stephen Amidon che gli aveva ispirato Il capitale umano con l'omonimo romanzo e che già in quell'occasione fu un co-sceneggiatore.
PANORAMICA SU ELLA & JOHN - THE LEISURE SEEKER:
Tutto americano - anzi, tutto anglosassone - è il cast di Ella and John: Virzì non si è portato dietro nessun attore da casa, affidando i ruoli dei protagonisti di questa storia d'amore e di vita in età avanzata all'inglese Helen Mirren (che si è portata a casa una nomination ai Golden Globes grazie al ruolo di Ella) e al canadese Donald Sutherland (che verrà insignito del premio Oscar alla carriera nel corso della serata di premiazione del 2018), per la seconda volta su un set assieme a diciassette anni di distanza dal film canadese del 1990 Bethune: Il mitico eroe.
Curiosamente, così come avvenne per My Name is Tanino, anche questo Ella & John - The Leisure Seeker è valso a Paolo Virzì una nuova partecipazione al Festival di Venezia, che non arrivava proprio da allora, dal 2002. Tanino fu presentato fuori concorso, mentre Ella & John ha concorso alla vittoria del Leone d'Oro, proprio come avvenne nel 1997 con Ovosodo, che vinse il Gran Premio della Giuria. La prima volta di Virzì a Venezia risale invece al 1994, quando il suo esordio, La bella vita, venne presentato in una sezione di nome Panorama Italiano. Insolito road movie geriatrico a bordo di un camper, lungo una east cost statunitense - da Boston alla Florida - dove già si percepisce la nascita del fenomeno Trump, Ella & John è impregnato di letteratura e immaginario americano: non a caso il personaggio di John è un professore di inglese in pensione, e la meta del viaggio con sua moglie è la casa-museo di Hemingway a Key West.
CURIOSITÀ SU ELLA & JOHN - THE LEISURE SEEKER:
Presentato in Concorso al Festival di Venezia 2017.
John (Donald Sutherland): Ma dove sono i bambini? Ella (Helen Mirren): A casa Amore John: Abbiamo lasciato i bambini a casa da soli?! Ma non ci posso credere! Dio, cosa abbiamo fatto!! Ella: John, sono adulti ormai John: Sul serio?!
John: Che ci facciamo qui a terra? Ella: Non te lo ricordi? Io sono caduta e tu sei caduto addosso a me!
Kid (Elijah Marcano): Metti giù il fucile o gli faccio molto male Ella: Se pensate di farci paura, vi sbagliate, perché non abbiamo niente da perdere! Ella: Joohn! Joooohn! John: Ella! Che diavolo ci fai su una motocicletta? È pericoloso, Santo Cielo!
Ella: Lo sai il mio nome. Qual è? Ell-... John: Lilian Ella: Lilian è la nostra vicina di casa, Amore. Io sono tua moglie!
John: Non lasciarmi mai più, capito? Ella: Oh, te lo prometto.
John: Il Paradiso? Ella: Forse! John: Credi che si possa avere un hamburger quassù?
Il nuovo film di Ferzan Ozpetek è un thriller personale, elegante con una stupenda Giovanna Mezzogiorno che si cala in una Napoli esoterica, borghese, misteriosa. Peccato per la sceneggiatura, assolutamente approssimativa e con toni eccessivamente cupi, che sembrano caratterizzare questo nuovo cinema del regista italo-turco. E' probabilmente il film più ambizioso della sua intera cinematografia, un viaggio nel dramma interiore di una donna
Come catatonica. Come in trance. Come sospesa. Come se non fosse lei ad agire, ma fossero i fatti, gli accadimenti e gli incontri ad agire in lei. È straordinario il lavoro di “sottrazione” che Giovanna Mezzogiorno ha messo in atto per creare il personaggio di Adriana, protagonista di Napoli velata di Ferzan Ozpetek. In un contesto narrativo dai tratti marcatamente melò, alle prese con una sceneggiatura e una regia che non temono di far propri gli eccessi (drammaturgici, ma anche ritmici, sintattici e visivi) che del melò sono costitutivi e irrinunciabili, lei lavora in direzione opposta. Quanto più la regia eccede, tanto più lei recede. Cioè leva, sottrae, riduce. Quasi a creare una sorta di attrito (un controcanto?) fra il suo corpo e il contesto – narrativo, ma anche sociale, culturale ed emozionale – in cui il suo corpo agisce. Meglio: viene agito. Perché fin dall’inizio il personaggio di Adriana non sceglie. Viene scelto. Non decide, accetta che altri decidano per lei.
Prendete anche solo la prima scena, quella in cui lei assiste insieme a tutti gli altri personaggi al rito apotropaico della “figliata” dei femminielli. Uno sconosciuto, da lontano, la guarda fisso negli occhi, poi le si avvicina e le dice: “Tu passerai la notte con me”. Lei non replica, non risponde, non reagisce. Il suo viso è come una maschera impenetrabile. Un mix di titubanza, sorpresa, compiacimento, desiderio, paura, curiosità. Ma è il suo corpo a rispondere. La vediamo camminare di spalle, al fianco dello sconosciuto, in una piazza di Napoli, e poi, subito dopo, appena entrati in casa, abbandonarsi rapinosamente al sesso che lui le offre e le chiede. Il sesso, finalmente. Come scomparso dal cinema italiano degli ultimi anni, continuamente alluso, evocato, raccontato, ma mai visto e vissuto, irrompe con spavalda energia nell’incipit del film di Ozpetek. Senza preamboli, senza preliminari. Appassionato, divorante, vorace. E Giovanna Mezzogiorno vi si abbandona con un’intensità di cui non molte altre attrici italiane sarebbero capaci. Senza paura di mettere in gioco e in campo la nudità, il corpo, la bocca, il seno, i glutei, la pelle, la lingua, gli ansimi e i gemiti di ogni relazione d’amore. Lei vi si getta a capofitto, spudorata e innocente al tempo stesso. E solo qui, in questa scena davvero esemplare, abbandona quello stato di sospensione che caratterizza il suo personaggio per tutto il film. Qui e nel sorriso con cui si sveglia il mattino dopo, quando assapora l’aroma del caffè bollente che lui le mette sotto il naso. Per tutto il resto del film Adriana è come distaccata. Emotivamente prosciugata. Simile, in questo, alle statue di cui il film è punteggiato. O ai cadaveri di cui lei si prende cura (è anatomo-patologa all’ospedale di Napoli).
La statue, i cadaveri: corpi inorganici, corpi senza vita. Tra loro, il corpo vivo di Adriana si aggira come compresso e sperduto, lasciando intuire le tempeste interiori che lo devastano solo attraverso un’accuratissima microfisica dei gesti (un battito di ciglia, un abbozzo di sorriso, uno smarrimento dello sguardo). Mentre altri attori del cast, a cominciare dai bravissimi Peppe Barra e Luisa Ranieri, conformano la loro recitazione all’esuberanza tipica del melò (o della napoletanità…), Giovanna Mezzogiorno – in sintonia con Alessandro Borghi, chiamato come lei a interpretare un doppio ruolo – oscilla tra freddezza e incandescenza, facendo proprio del suo volto e del suo corpo di attrice il luogo in cui queste due pulsioni contrastanti si incontrano e si neutralizzano. I primi piani di Adriana diventano così il luogo di massima ambiguità dell’intreccio, simili – in questo – alla scala a spirale su cui si apre il film, senza che si capisca se è inquadrata dal basso o dall’alto, e se sia occhio o utero o coscienza, ma simili anche alla maschera antica dietro cui si nascondono le due algide archeologhe interpretate da Lina Sastri e Isabella Ferrari, che proprio grazie alla maschera al contempo si celano e si rivelano. Perché proprio la maschera è il cuore del mistero che il film mette in scena. La maschera o lemaschere. Perché tutti i personaggi ne hanno una. Tutti, anche i fantasmi partoriti dalla mente della protagonista. Ma nessuna ha la potenza di senso di quella che Giovanna Mezzogiorno fa indossare proprio ad Adriana: lei è l’unica che trasmette a noi spettatori lo stesso turbamento della statua settecentesca che appare nel finale, quella del Cristo velato nella cappella Sansevero di Napoli: una superficie di marmo in cui le passioni tanto più affiorano e si rivelano quanto più sono nascoste e trattenute.
Velate, per l’appunto: come se Ozpetek e la Mezzogiorno avessero applicato alla creazione del personaggio una loro personale, sensuale ed efficacissima estetica della velatura.
Una Stella per Gina. Era stata annunciata in occasione del 90° compleanno lo scorso 4 luglio, e il 1° febbraio, Gina Lollobrigida sarà a Los Angeles per la posa della sua stella sulla Walk of Fame di Hollywood e per ricevere il Filming On Italy Award.
La cerimonia si terrà il 1° febbraio alle 11.30 a Hollywood e Vine Boulevard, nell’ambito di Filming on Italy a Los Angeles: il festival nato grazie ad un accordo tra Agnus Dei di Tiziana Rocca, l’Istituto Italiano di Cultura Los Angeles e il suo direttore Valeria Rumori, e il Consolato Generale d’Italia a Los Angeles, la manifestazione è in programma dal 31 gennaio al 2 febbraio.
E' stata proprio Tiziana Rocca a segnalare alla Hollywood Chamber of Commerce il nome della Lollobrigida per inserirla tra i candidati all’assegnazione della Stella più ambita dalle personalità di tutto il mondo. Quella della Lollobrigida, votata all’unanimità, è la 14esima Stella che porta il nome di un italiano illustre.
“Sono felice che la Hollywood Chamber abbia accettato la mia segnalazione – sottolinea Tiziana Rocca -, credo che una personalità come Gina Lollobrigida rappresenti meglio di chiunque altro la cultura e il cinema di un’Italia ricca di arte. La carriera di Gina dimostra come bellezza e talento possano convivere nel loro intreccio di emozioni e creazioni. Il mio ringraziamento va anche, e soprattutto, a Gina che ha creduto in me e che ha deciso di essere a Los Angeles al Filming On Italy, un Festival che in poco tempo è cresciuto moltissimo. Ringrazio anche la Direzione Cinema del MiBACT che ci ha sostenuto in questa bellissima avventura ”.
In America la Lollobrigida è un’icona di stile, dopo il suo film d’esordio negli States, Il tesoro dell'Africa di John Huston (1954), l’anno successivo il Time le dedica la copertina. Ora con una straordinaria filmografia che conta oltre 60 titoli con i più grandi del cinema internazionale e una straordinaria carriera di pittrice e scultrice, Gina Lollobrigida arriva a Los Angeles per assistere alla posa della stella che porterà il suo nome.
In questa occasione, l’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles consegna alla Lollabrigida il premio IIC Los Angeles Creativity Award, riconoscimento all’eccellenza italiana nel mondo. Il premio consiste in un’opera originale creata appositamente per l’Istituto da Emilio Cavallini, artista e stilista noto internazionalmente, ed ispirata al soffitto del Pantheon di Roma.
Il Filming On Italy inoltre dedica alla Lollobrigida un’intera giornata all’Istituto Italiano di Cultura di LA con la proiezione di due suoi film e un incontro con il pubblico moderato da Claudio Masenza, direttore artistico di Filming On Italy. Filming on Italy è prodotto e organizzato da Agnus Dei di Tiziana Rocca con l’Istituto Italiano di Cultura a Los Angeles, sotto gli auspici del Consolato Generale Italiano Los Angeles, con il sostegno della Direzione Cinema del MiBACT, ICE Los Angeles, ANICA. Partner: MEI. Partner tecnico Crystal Couture. Media Partner: Cinecittanews.it, FRED Film Radio, Variety.
la Vostra decisione di “chiudere i battenti” della testata giornalistica mi angoscia, da cittadino, da collega e da Presidente di Articolo Ventuno. Anche io, spesso, ho avuto momenti di sconforto, temuto che non ne valesse la pena e che fosse meglio “gettare la spugna”. Tanti sono stati (purtroppo sono e, temo, saranno) i momenti di solitudine e di paura, ma è nella “libertà” che si tiene la democrazia, proprio quella libertà che voi – da quasi un anno – cercate di assicurare al territorio di cui vi occupate. Ecco, quindi, che la notizia della chiusura di Tribù Press mi addolora e mi angoscia. Informare oggi è sempre più difficile, stretti come siamo tra la velocità della notizia e i bavagli che si vorrebbero mettere ai giornalisti che, in maniera scomoda, fanno il proprio lavoro per onorare una professione e con il sogno della libertà. Una politica – mai generalizzare, ma gli esempi sono sotto gli occhi di tutti – sempre più attenta ad attaccare il giornalista prendendolo a capo espiatorio per i propri insuccessi (e le proprie inefficienze); un giornalismo che dovrebbe essere “cane da guardia della democrazia” e che invece è spesso svilito a cane da compagnia. Voi siete stati (e spero sarete) dei pitbull, pronti ad “azzannare” la notizia, dopo averla verificata. Lo avete fatto non guardando in faccia nessuno, né gli amici né, tantomeno, i potenti. Gioirà qualcuno oggi, certamente.
Gioirà qualche politicante ed anche qualche mafioso, staranno brindando i “colletti bianchi” che avete a più riprese attaccato, ma non gioiranno i vostri lettori, convinto come sono che, se dovesse venir meno la vostra “gamba informativa”, noi cittadini saremo più poveri. Un popolo informato è un popolo libero di scegliere da che parte stare, senza il vostro contributo (come senza il contributo di molte colleghe e colleghi liberi, nonostante tutto, in questa dannata ma meravigliosa Terra di Trinacria) il popolo siciliano sarà meno libero e meno indipendente. La Sicilia, ancora oggi, rimane una Terra difficile, popolata da persone – noi siciliani – spesso sbadati e pronti a lamentarci, senza cercare soluzioni. Leoni da tastiera ma cittadini sbadati nella quotidianità. Una terra “irredimibile”, diceva Sciascia, capace di eleggere una quantità enorme di ineleggibili alle ultime elezioni regionali, di indignarsi ad intermittenza e di vendere il proprio voto per una manciata di spiccioli. Si, è vero. Ma è anche una Terra che ha dato i natali a donne e uomini liberi, penso a Falcone e Borsellino, ma anche a Libero Grassi, Don Pino Puglisi, Giuseppe Fava, Peppino Impastato e Giovanni Spampinato e la lista sarebbe lunghissima. Pensatori, Magistrati, Giornalisti, Imprenditori, Sacerdoti, insomma, persone libere, cittadini nella pienezza del termine, non sudditi. Cari Antonio, Ettore, Valerio, se voi oggi getterete la spugna farete vincere chi ha sempre malignato e chi ha sperato nel vostro sfinimento. Sono convinto che se le cose sono andate così fino ad oggi, non è detto che debbano continuare ad andare in questo modo. E cambieranno con l’impegno di ognuno di noi, soprattutto con l’attenzione dell’informazione libera. Quella libertà che è ossigeno! Vi prego di ripensarci e di rilanciare con più forza e vigore la vostra azione libera.
Con sincera stima, verso voi e verso tutte le colleghe ed i colleghi liberi che in Sicilia lavorano con la schiena dritta!
L'ombra di Harvey Weinstein sulla 75° edizione. Miglior film “Tre manifesti a Ebbing Missouri”, miglior serie "Big Little Lies"
08/01/2018 08:18 CET | Aggiornato 08/01/2018 08:28
Eleganza, solidarietà alle donne, speech indimenticabili e delusione, almeno per l'Italia. Ricorderemo così i Golden Globes Awards 2018, una 75esima edizione caratterizzata da un redcarpet con tutte le star presenti in totalblack per protestare contro le violenze sessuali a Hollywood. A ricordare HarveyWeistein ("magari tra vent'anni faremo una celebrazione in memoriam in negativo") e Kevin Spacey ("Plummer è libero? Potrebbe fare il presidente di House of Cards e magari avrebbe un accento del sud migliore del suo"), ma solo all'inizio, è stato il comico SethMeyers, che ha presentato la serata trasmessa dal Beverly Hills Hotel di Los Angeles. Per il resto, è stata una cerimonia che – nonostante tutto – è stata una festa, ma non per l'Italia, visto che su cinque candidature, non ha portato a casa neanche un premio.
Non ce l'ha fatta Luca Guadagnino e il suo "Chiamami col tuo nome" (era candidato come miglior film drammatico, per il migliore attore protagonista e il migliore attore non protagonista); non ce l'ha fatta Helen Mirren – candidata come migliore attrice protagonista per Ella & John - The Leasure Seekerdi Paolo Virzì – e nemmeno Jude Law - candidato come migliore attore protagonista in una serie o film per la tv per la sua interpretazione in The Young Pope, la serie originale Sky di PaoloSorrentino.
La Hollywood Foreign Press Association ha deciso di premiare come Miglior Film "Tre manifesti a Ebbing Missouri", l'acclamata pellicola diretta e scritta dal Premio Oscar Martin McDonagh (In Bruges, Seven Psychopaths) e straordinariamente interpretata da Frances McDormand che, vestendo i panni di una madre alla ricerca dell'assassino che ha messo fine in modo tragico all'esistenza della figlia, si è aggiudicata il premio per la migliore attrice. "Di solito tengo per me le mie idee politiche, ma è stato fantastico essere qui stasera e partecipare a questo spostamento teutonico: le donne che sono qui non certo perché si mangia gratis", ha detto l'attrice durante il suo discorso con quella sua solita pacatezza che la contraddistingue. Il film – in uscita nelle sale italiane l'undici gennaio prossimo per la 20th Century Fox - ha vinto anche quello per il miglior attore non protagonista – assegnato a Sam Rockwell (nei panni di un agente violento) - e per la migliore sceneggiatura, bissando così quello già ricevuto all'ultima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, dove è stato presentato in anteprima.
Il regista messicano Guillermo Del Toro è invece il miglior regista grazie al suo La forma dell'acqua, la storia dell'incontro tra una donna delle pulizie muta e un uomo pesce, una divinità per il popolo amazzonico e un mostro da sfruttare per il governo americano della Guerra Fredda. "I film, questi strani giocattoli mi hanno salvato la vita", ha dichiarato stringendo forte il suo primo Golden Globe. "Fin dall'infanzia sono stato salvato dai mostri perché sono lo specchio delle nostre imperfezioni".
Miglior commedia è Lady Bird di Greta Gerwig - un film che racconta il difficile rapporto tra una giovane ragazza che cerca di realizzare i suoi sogni e i suoi genitori – interpretato dalla ventitreenne Saoirse Ronan, premiata come migliore attrice. "Big Little Lies"- la miniserie tv che racconta un piccolo mondo a Monterey di madri che si trovano a condividere dolori e segreti e ad affrontare insieme le violenze domestiche – ha vinto invece come migliore serie drammatica e per le sue protagoniste: Nicole Kidman e Laura Dern. "Mia madre è stata una femminista e grazie a lei sono qui oggi", ha ricordato la Kidman, dopo aver ricordato sua sorella e le colleghe sul set: Reese Witherspoon, Shailene Woodley, Zoë Kravitz e la stessa Laura Dern, premiata per il suo ruolo di "una donna scandalosa e terrorizzata", come l'ha definita l'attrice preferita di David Lynch, perché la sua bambina ha subito una violenza e ha paura di alzare la voce. "A tutte noi – ha aggiunto - è sempre stato detto di non fare pasticci e invece è arrivato il momento di migliorare la vita dei nostri figli insegnando loro che si può alzare la voce per denunciare violenze e abusi senza paura di avere conseguenze".
Momento clou della serata, il discorso di Oprah Winfrey, poco più di nove minuti che sono già nella storia di Hollywood, un vero e proprio manifestopolitico apprezzato da milioni di spettatori che si sono scatenati sui social network dichiarandole la voglia di vederla candidata alle elezioni americane del 2020. Standing ovation per il suo discorso sulle donne, dopo quella per Kirk Douglas, 101 anni, accompagnato dalla nuora Catherine Zeta Jones, e per Barbra Streisand, nel ruolo di presenter.
Tra gli attori, il miglior in una miniserie o tv movie è Ewan McGregor per "Fargo" e . Per lui il primo Golden Globe e il Miglior attore in una serie drammatica è Sterling K. Brown per "This is us", primo attore afroamericano a vincere in questa categoria. AlexanderSkarsgård ha vinto per il suo ruolo di marito violento in Big Little Lies mentre Aziz Ansari ha vinto come miglior attore in una serie tv a commedia o musical per Master of None - quella in cui ha lavorato anche AlessandraMastronardi, bellissima sul red carpet in Chanel.
Gary Oldman ha ritirato il Golden Globe come miglior attore drammatico per L'ora più buia in cui interpreta il Cancelliere Winston Churchill – "un film che mostra come le parole e le azioni possono cambiare il mondo, e sappiamo quanto ne abbiamo bisogno oggi" – mentre al compositore Alexander Desplat è andato quello per la miglior colonna sonora del film di Guillermo Del Toro La forma dell'acqua. La migliore canzone invece è stata giudicata This is me dal musical The greatest showman, i compositori Benj Pasek, Justin Paul (vincitori lo scorso anno dell'Oscar per La La Land) e il miglior attore per la commedia "The Disaster Artist" è James Franco che l'ha diretta, la storia vera dell'attore Tommy Wiseau, poi chiamato sul palco.
La serata verrà poi ricordata anche perché c'è stata la prima uscita pubblica del movimento Times Up, il progetto volto a prevedere un fondo per il sostegno legale a donne e uomini molestati sessualmente sul lavoro e sostenuto da Meryl Streep, Cate Blanchett, Ashley Judd, Natalie Portman, Reese Witherpoon e molte altre, compresi gli attori – alcuni dei quali in total black persino nella camicia (da RalphFiennes a RickyMartin, da Ewan McGregor a Guillermo Del Toro) e con la spilletta del movimento in bella mostra sull'occhiello della giacca. Hollywood si è svegliata e non perdona, questo è certo.
Inviato da: Mr.Loto
il 28/03/2022 alle 11:57
Inviato da: Mr.Loto
il 15/10/2020 alle 16:34
Inviato da: RavvedutiIn2
il 13/11/2019 alle 16:33
Inviato da: surfinia60
il 11/07/2019 alle 16:27
Inviato da: Enrico Giammarco
il 02/04/2019 alle 14:45