Facciamo sentire la nostra voce!
Una campagna per la verità
(30 agosto 2006)
Appello
Gli appelli degli intellettuali sono un rito. E rischiano di passare inosservati, specie quando esprimano punti di vista estranei all’opinione prevalente. Eppure mai come oggi, noi sottoscritti, docenti di varie sedi universitarie, donne e uomini impegnati nel “mestiere” di intellettuali, riteniamo sia un dovere, prima che un diritto, “dire la nostra”, invitando tutti coloro che esercitano la nostra stessa professione, e che dovrebbero essere i primi “sacerdoti della verità”, ossia promuovere il dubbio e segnalare la complessità e la problematicità degli eventi, contro la disinformazione e la menzogna, a ridestarsi dal letargo, e a gridare sui tetti le parole che, molti, a mezza voce dicono tra di loro. Ci riferiamo a quella che pudicamente, e ipocritamente, è stata chiamata “la guerra del Libano” e che invece va definita come l’aggressione israeliana al Libano.
Le motivazioni che i governanti e i militari d’Israele forniscono, accettate acriticamente da media e politici europei, sono che la guerra sia una risposta all’attacco degli Hezbollah: ma una incursione militare con la cattura di due soldati (tuttavia i dubbi sulla natura vera, “preventiva”, e concertata con Washington, dell’attacco israeliano, si fanno ogni giorno più corposi, sulla base di rivelazioni e documenti inquietanti), può, sul piano del diritto prima ancora che su quello etico, dare luogo a una risposta come quella cui il mondo ha assistito inerte? L’azione svolta per oltre un mese – le armi tacciono da pochi giorni, ma non del tutto, e non siamo sicuri che il loro silenzio perdurerà, e Israele non è apparsa finora intenzionata a un vero rispetto della tregua e rifiuta di togliere l’umiliante oltre che gravemente dannoso blocco aereonavale al Libano – dalle truppe di Tel Aviv, ha provocato oltre un migliaio di morti, la gran parte civili, di cui moltissimi bambini, ha devastato un Paese, al quale da tempo immemorabile gli israeliani recano danni e lutti. Sono stati distrutti infrastrutture, edifici civili, strade, fabbriche, ospedali, preziose testimonianze storiche e artistiche. Si è trattata di una vera “guerra totale”: ai civili, al territorio, all’ambiente, nella quale le forze armate israeliane hanno dispiegato una potenza terribile, facendo ricorso anche ad armi illegali (chimiche e radioattive, bombe a grappolo…), contro un Paese, multietnico e multireligioso, quale il Libano, che non ha neppure la possibilità materiale di difendersi.
Le stesse parole usate dai rappresentanti del potere israeliano – tra le quali spicca la parola “rappresaglia”, e la frase del capo del governo Olmert, “non chiederemo scusa a nessuno” – confermano il carattere punitivo, “esemplare” di questa guerra non dichiarata, che si aggiunge a innumerevoli atti compiuti dai governanti di Tel Aviv in spregio a reiterate risoluzioni dell’Onu (oltre 70, rimaste tutte disattese!), e alle norme del diritto internazionale. Questa guerra insomma è il più recente, certo non l’ultimo, atto di una politica fondata sull’arroganza di chi si sente spalleggiato dallo strapotere degli Stati Uniti.
Davanti a tale scempio di legalità, giustizia e morale, le voci di dissenso nella comunità intellettuale sono state poche e sommesse. Perché? Perché su di noi – che ci professiamo democratici (molti dei firmatari si dichiarano senza esitazione “di sinistra”), antirazzisti, amici del dialogo tra popoli, religioni, culture, come le nostre biografie intellettuali e politiche dimostrano – grava il peso di un ricatto: chi critica Israele, ci si dice, ne vuole la distruzione, chi condanna la sua politica è marchiato come antisemita. Ebbene, noi che ci siamo battuti contro fascismo, militarismo, razzismo (in specie l’antisemitismo), e ogni forma di ingiustizia e di illegalità, contro le disuguaglianze, contro la prepotenza dei forti, e dalla parte dei deboli, oggi diciamo basta.
Oggi dobbiamo avere il coraggio di essere impopolari, dichiarando a tutte lettere che la politica israeliana, e alle sue spalle quella statunitense (con il sostegno permanente dell’alleato-subordinato britannico e l’afasia complice della quasi totalità dei governanti europei, anche se alcuni dei firmatari di questo Appello apprezzano, pur dubitando del risultato, e, almeno in riferimento a certe forze politiche, delle stesse intenzioni, lo sforzo del governo italiano di allontanarsi dall’assoluta subordinazione a Washington e dalla totale adesione alle tesi di Tel Aviv), costituiscono un rischio permanente per la pace mondiale: non l’unico, certo, ma uno dei principali, accanto all’opera di tutte quelle formazioni fondamentaliste che, inventandosi un “dovere religioso”, seminano terrore, odio e morte, giocano in realtà a favore della politica statunitense e di quella israeliana, animate a loro volta da altrettali integralismi, ai quali troppo poco si bada nel dibattito giornalistico e politico. Al Qaeda sembra essere la sola centrale operativa del Terrore; dell’azione inquietante dei servizi segreti statunitensi e israeliani, non si parla.
Ora, non v’è dubbio, che la paura degli uni generi odio, l’odio susciti paura, in una spirale mostruosa, a cui l’esportazione della democrazia con i bombardamenti e l’imposizione di regimi-fantoccio, serve a far scorrere altro sangue, in una precarietà istituzionale che si rivela in tutta la sua fragilità, come gli inferni iracheno ed afgano dimostrano.
Noi tuttavia non possiamo dimenticare che la politica d’Israele si fonda sulla pulizia etnica e sull'apartheid di fatto nei confronti dei Palestinesi, del resto per decenni dimenticati dagli stessi cosiddetti “regimi arabi moderati”. La costruzione di un muro invalicabile nell'esiguo territorio concesso ai Palestinesi, la deliberata destrutturazione della già misera economia dei Territori, le azioni "mirate" volte a uccidere – o a catturare, contro ogni legge – i loro leader politici, anche quelli democraticamente eletti e legittimamente in carica, e la totale noncuranza della possibilità di sopravvivenza di un intero popolo, fanno di quella che ci viene instancabilmente presentata come “la sola democrazia del Medio Oriente”, una potenza imperialista, che impone un concetto di “difesa preventiva” e non negoziabile della sicurezza nazionale, che la rende pronta a pronta a rischiare lo scatenamento di un terzo conflitto mondiale.
Come non rendersi conto che tale politica, accompagnata da una campagna mediatica e poliziesca contro il mondo arabo e musulmano, rappresentato ormai, nel coro di molti politici, intellettuali e giornali occidentali, come “islamo-fascista” (un’autentica bestialità sul piano storico e politologico), scatena modalità sempre più aspre di conflitto, eccita le forme più atroci di terrorismo dall’altra parte, suscitando un risentimento non solo anti-israeliano, e antiamericano, ma antioccidentale, di cui tutti siamo e saremo soggetti a pagare conseguenze pesantissime? Come non rendersi conto che anche in termini di realismo tale politica non porta ad alcun risultato utile per lo stesso Israele? E questa guerra, inutilmente distruggitrice, è stato uno smacco per il governo israeliano: difficile negare una verità così evidente.
Noi affermiamo che essere dalla parte della verità e della giustizia, significa innanzi tutto essere dalla parte dello Stato di diritto all’interno, e della legalità sul piano internazionale. Israele, nella sua politica, in cui la democrazia vacilla e il peso degli apparati militari diventa ogni giorno più forte, non deve più contare sul nostro silenzio. Noi chiediamo a tutti i nostri colleghi di esprimersi, di levare le loro voci, e di avviare una campagna di informazione autentica verso i loro allievi, verso il pubblico che legge i loro scritti o ascolta le loro conferenze e lezioni. Chiediamo ai giovani studiosi, agli operatori della comunicazione (giornalismo, editoria…), ai volontari dell’associazionismo culturale, ai ricercatori del mondo extrauniversitario, agli studiosi in formazione, di mobilitarsi, accanto a noi.
Anche se alcuni dei firmatari di questo documento ritengono giusto ricordare che la nascita dello Stato di Israele, mentre tentava la riparazione di un torto e dava esito a un’antica aspirazione di Ebrei, creava una drammatica ferita non soltanto territoriale nel Medio Oriente, i cui esiti sono sotto i nostri occhi, noi ribadiamo che oggi non è in discussione l’esistenza d’Israele, che va accettata e riconosciuta dai suoi confinanti e dagli altri Paesi circumvicini, ma sulla base di un analogo sforzo degli Israeliani, che li porti a cambiare rotta alla loro politica. In una lettera indirizzata a un quotidiano italiano, e non pubblicata, un ebreo italiano, commentando questa guerra, ha concluso: «…basta leggere Anna Frank, Etty Hillesum o Franz Kafka e poi pensare allo “stato ebraico” di Israele per rendersi conto dell'abisso che ormai separa la grande tradizione culturale dell'ebraismo da questa entità statale che pretende di rappresentarla ed esaurirla». Forse anche su ciò Ebrei di Israele ed Ebrei di tutto il mondo, e le Comunità organizzate che li rappresentano, dovrebbero meditare, smettendo di schierarsi acriticamente con i governanti israeliani, e rinunciando alla tentazione di esserne i portavoce.
Con questo Appello i sottoscritti intendono dar vita a una campagna di informazione, documentazione, studio e mobilitazione.
I principali punti di questa campagna dovranno essere sette (con un ottavo punto rivolto al governo italiano):
- Primo: Spiegare che Israele deve accettare tutte le risoluzioni dell’Onu, ritirarsi entro i confini del 1967, in particolare rinunciando alla pretesa di fare di Gerusalemme la sua “capitale unica, eterna e indivisibile”, e consentendo a quella città plurimillenaria di ritornare ad essere un luogo d’incontro e di convivenza di popoli, culture e religioni.
- Secondo: Affermare con altrettanta chiarezza che ai Palestinesi sia data la possibilità immediata di costruire un proprio Stato, indipendente e libero, con confini certi, ed esterni allo Stato israeliano, internazionalmente riconosciuto e non un piccolo protettorato di Israele. E che il riconoscimento dell’esistenza di Israele da parte di chi finora nella Regione non l’ha concesso, è subordinato alla creazione dello Stato palestinese.
- Terzo: Chiedere con vigore che il Libano eserciti pienamente la sovranità sul proprio territorio, contro le pretese di ingombranti tutele di Paesi confinanti, in particolare, in questo momento, Israele, che deve togliere immediatamente il blocco, al quale deve essere impedita la prosecuzione di furti d’acqua sul territorio libanese.
- Quarto: Sostenere che la forza di interposizione sia davvero tale, forza di pace, e non un esercito volto a continuare la guerra, magari con il fine di “disarmare i nemici di Israele”; che sia dispiegata anche nel territorio israeliano, e non solo libanese, e che anche nella Striscia di Gaza, minuscolo frammento di uno Stato che non c’è, ma ci deve essere al più presto, e su di una superficie non irrisoria come quella che si vorrebbe concedere, si provveda a difendere i Palestinesi dalle quotidiane incursioni, violenze e uccisioni “mirate” da parte degli Israeliani; e che, infine, l’azione che ora si avvia sia accompagnata e seguita da una concreta opera costruttiva, da condursi non con gli eserciti e le armi.
- Quinto: Chiedere che sia imposto a Israele il pagamento dei costi necessari per la ricostruzione di case, ponti, strade distrutti dai suoi bombardamenti sul Libano.
- Sesto: Invitare a studiare, e ove possibile, fornire adeguati strumenti per far conoscere meglio la vicenda storica di quella regione, la sua fisionomia geografica ed economica, le sue componenti etniche e religiose, fuori da ogni pregiudizio o di “conoscenza” per sentito dire.
- Settimo: Richiedere la convocazione, al più presto, di una grande, vera conferenza internazionale che riporti non solo la pace nella regione, ma assicuri una stabilità nella giustizia per tutti i popoli che vi vivono.
- Ottavo (specificamente rivolto al governo italiano): Denunciare l’accordo di collaborazione militare tra Italia e Israele (legge 94/2005) che rende complice lo Stato italiano di crimini di guerra.
La campagna, a cui noi firmatari di questo Appello ci impegnamo, dovrà proseguire anche se questa guerra davvero si fermasse definitivamente; non possiamo aspettare la prossima, per agire. E del resto la Palestina è, da troppi decenni, sotto le fiamme della guerra, e il suo popolo subisce soprusi e violenze, attendendo giustizia. Dobbiamo continuare a far sentire la nostra voce, in nome non solo del dovere professionale e morale di tutti noi, ma anche, e soprattutto, dell’universale e ormai irrinunciabile bisogno di pace sulla Terra.
Angelo d’Orsi, professore di Storia del pensiero politico, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Torino
In risposta all’appello “una campagna per la verità”
controappello
Io ebreo italiano, che ha sempre votato a sinistra, e a cui stanno molto a cuore le sorti dello Stato d’Israele e della pace in Medio Oriente, dichiaro di essere in totale disaccordo con l’appello “una campagna per la verità” redatto da Angelo D’Orsi dell’Università di Torino, e firmato da numerose personalità e colleghi universitari.
I firmatari dell’appello invitano a “promuovere il dubbio e segnalare la complessità e la problematicità degli eventi”. Ma il testo diffuso non promuove nessun dubbio, né segnala complessità. I buoni sono buoni e i cattivi sono cattivi. Gli aggressori sono gli israeliani, lacchè di Bush. Poco importa se negli arsenali sotterranei Hezbollah fossero nascoste migliaia di missili destinati al nord di Israele. L’appello riporta “inquietanti rivelazioni” di concertazione tra Israele e Stati Uniti, nonchè altrettanto “inquietanti azioni” dei servizi segreti israeliani e americani che farebbero concorrenza a Al Qaeda “come centrale operativa del Terrore”. I dubbi (o insinuazioni ?) degli estensori dell’appello cominciano e finiscono su queste voci incontrollate. Sui fatti la loro “verità” è a tutto tondo e incontrovertibile.
Israele ha sicuramente commesso molti e tragici errori nella sua breve storia, compresi gli eventi di questa estate, la risposta, anche a mio parere sproporzionata all’offesa. Ma questo non può essere espunto dal contesto nel quale tutta la travagliata storia del Medio Oriente si svolge da molti anni. Nel giorno immediatamente successivo alla sua nascita (deliberata all'ONU nel 1948, seguita dal primo riconoscimento dell'URSS), Israele è stato aggredito da tutti i paesi vicini che ne volevano la distruzione (e che, per fortuna, ha vinto quella guerra), e da allora ha sempre dovuto fronteggiare molti nemici che lo circondano e ne auspicano quotidianamente la sparizione dalla carta geografica (alcuni potenti, altri meno, ma tutti insieme infinitamente più numerosi). Non esiste altro paese al mondo in analoghe situazioni di accerchiamento esterno prolungato per quasi 60 anni, e oggi anche sotto la possibile futura minaccia del nucleare iraniano. E contemporaneamente di vulnerabilità interna nei confronti dei terroristi di Hamas, pronti a farsi saltare in aria insieme a centinaia di inermi civili israeliani nei caffè, nelle stazioni di autobus e nei mercati (nonostante il muro e i ferrei controlli ai valichi aperti tra Territori Occupati e Israele).
Che il bersaglio della risposta israeliana al sequestro dei due soldati e ai primi bombardamenti nel Nord del paese non potesse che essere il territorio da dove sono partiti gli attacchi, è purtroppo ovvio. Il Libano è solo in teoria uno stato indipendente, di fatto assoggettato per anni, prima al dominio siriano e poi a quello Hezbollah. Nè Hezbollah è un movimento palestinese che lotta per la propria indipendenza, ma un movimento sciita, politicamente manovrato e militarmente preparato e rifornito da Siria e Iran in funzione anti-israeliana e delle rispettive mire di predominio sulla regione. Peraltro l’efficacia dell’intervento è ampiamente messa sotto accusa in Israele stesso e si è rivelata disastrosa sotto il proflo politico. Tra i morti civili libanesi e quelli israeliani c’è una tragica differenza numerica. Sta però di fatto che i civili dei villaggi del Sud del Libano, donne, vecchi e bambini, sono stati usati come scudo umano da Hezbollah, i quali non hanno esitato a piazzare le batterie di missili puntati su Israele nei cortili delle scuole e delle case, e che sotto le case delle proprie famiglie hanno costruito i bunker in cui ammassavano missili e munizioni. E’ eticamente ammissibile rischiare di colpire scudi umani per colpire i terroristi che se ne servono ? Francamente io non ho risposta.
I profughi palestinesi – da 250 mila che erano nel 1948, fuggiti o espulsi dai territori conquistati da Israele nella guerra di indipendenza, poi divenuti 2 milioni nel corso di quasi 60 anni per motivi quasi esclusivamente demografici - sono una pesantissima eredità di quella guerra (ma quali guerre non lasciano tragiche eredità ?) e alla base di quasi tutte le tensioni in Medio Oriente da allora in poi. Di certo nessun paese arabo si è mai preoccupato di alleviarne le sofferenze. I profughi sono stati biecamente usati, e continuano ad esserlo, come unico collante di una unità fittizia di gran parte del mondo islamico contro il nemico sionista, quando proprio quel mondo è lacerato da sanguinose lotte interetniche per la supremazia politico-religiosa e il controllo delle risorse petrolifere.
Il diritto dei palestinesi ad un proprio stato, libero e indipendente è sacrosanto, ed ormai, anche in Israele, pochi lo mettono in dubbio. Non tutti necessariamente per amore dei propri vicini, ma perché se ne ravvisa la necessità (anche a seguito delle pressioni degli Stati Uniti che intendono spegnere la miccia in quella parte di Medio Oriente). Lo sgombero dei coloni dalla maggior parte dei Territori Occupati, dopo quello dalla Striscia di Gaza, ne è la premessa nonchè il nodo più difficile da risolvere. Purtroppo la politica miope di vari governi israeliani succedutisi negli ultimi venti anni ha ostacolato la nascita dello Stato Palestinese nei momenti in cui sarebbe stato possibile, ed ha rafforzato le frangie estremiste di Hamas. Né la dirigenza palestinese (Arafat) ha avuto mai il coraggio e la lungimiranza per sfruttare al meglio le occasioni offerte prima dal governo Rabin e poi da quello Barak. Oggi la pace tra israeliani e palestinesi impone nuove e coraggiose iniziative politiche da ambedue le parti, partendo dal riconoscimento reciproco tra Israele e Hamas, espressione delle prime elezioni democratiche tenute in un paese arabo medio-orientale.
Per concludere, rifiuto categoricamente le certezze che i firmatari dell’appello ci propongono: (i) che si sia trattato di “guerra totale” contro il Libano: i bombardamenti erano puntati sulle enclaves Hezbollah, con i civili allertati ad andarsene, e sulle infrastrutture che consentivano il rifornimento dei missili; (ii) che Israele sia “una potenza “imperialista” che impone “un concetto di difesa preventiva e non negoziabile” : su quali territori si esercita l’imperialismo israeliano ? Israele avrebbe dovuto aspettare bombardamenti a tappeto su Haifa prima di reagire militarmente; (iii) che si possa bollare Israele come paese dedito alla “pulizia etnica”, appellativo che è stato applicato agli spaventosi e sistematici genocidi avvenuti in Cambogia, nella ex-Jugoslavia, a Timor-Est, nel Ruanda, Congo, Sudan e altri paesi del Centro-Africa; (iv) che stia “vacillando” la democrazia israeliana: le commissioni d’inchiesta sono già al lavoro, le manifestazioni in piazza contro il governo si susseguono, le violente critiche di noti scrittori e militari fanno il giro del mondo; se qualcosa vacilla è il governo stesso sotto la spinta della piazza e dei media, e purtroppo queste spinte rischiano di spostarlo più a destra.
Né avrei dubbi sul fatto che la minaccia della pace nel mondo sia attribuibile al terrorismo globale di Al Qaeda e sigle analoghe (NY 9-11, Madrid, Londra, Istanbul…) infinitamente di più che alla politica del governo israeliano.
Così come rifiuto l’invito che proviene da ambienti delle comunità ebraiche (a cui appartengo) di difendere a spada tratta le azioni del governo israeliano, qualsiasi esse siano. Ma anche qui bisogna fare i distinguo che gli estensori dell’appello non fanno. E’ falso che tutti i gruppi comunitari italiani siano appiattiti su questi principi, e lo è ancora di più in numerosi paesi esteri, primo tra tutti gli Stati Uniti. Fare di tutta l’erba un fascio, additando gli ebrei del mondo come portavoce acritici del governo di Israele è un pericoloso segno di razzismo, non diverso da quando si parla di fanatismo islamico generalizzato.
Infine, attenzione ai toni e alle parole, colleghi estensori ! L’arroganza del documento non aiuta a “segnalare la complessità e la problematicità degli eventi”, meno che meno la condivisibile proposta di approfondire, discutere e confrontarsi.
Bruno Contini, Università di Torino
13 settembre 2006
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