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« I roghi della pulizia etnica Per non parlare dei Ro... »

Noemi racconta. 1941

Post n°290 pubblicato il 16 Maggio 2008 da Guerrino35



Ora
ti parlo della risaia. Molte furono le stagioni in cui feci la
mondina a cominciare da 13 anni fin dopo il matrimonio. Lavorai anche
una stagione, 40 giorni chinata,con i piedi nell’acqua, che ero
incinta di Robledo, il mio secondo figlio. Ricordo molti paesi del
Piemonte e della Lombardia. La prima volta avendo solo tredici anni,
per poter lavorare dissi che ne avevo sedici, e li dimostravo. Ero
sempre con le mie sorelle e qualche volta anche un fratello, perché
eravamo famiglia numerosa.
Si viaggiava in treno. Alla stazione
trovavamo i “cavaler” con carretti e cavalli che ci portavano
alla cascina. Arrivati alla cascina, buttavano giu’ dal fienile
balle di paglia, con la quale dovevamo fare i pagliericci, riempiendo
il paion (fodera vuota) che avevamo portato da casa.


Il lavoro era faticosissimo, la schiena faceva male. Un incaricato del
padrone, stava continuamente alle nostre spalle con un bastone.
Controllava che la schiena fosse sempre piegata e che l’erba
strappata non fosse riso.


I primi anni non resistevo alla necessità di drizzare la schiena
un istante e mia sorella mi tirava giu’. La sveglia era alle
quattro. Subito colazione con pane e un quarto di latte nella
gavetta. Poi un’ora di cammino a piedi per arrivare sul posto di
lavoro. A mezzogiorno e a cena minestra di riso. A metà
mattinata una pausa nella quale potevano mangiare un panino. Ci
davano il pane, ma il companatico dovevamo procurarcelo
autonomamente.

Da Mantova alle risaie, in treno, viaggiavamo con
carri bestiame. Qualche uovo e qualche salame era nella cassetta di
legno, che sul treno serviva da sedile. Compravamo queste cose prima
di partire per le risaie e le pagavamo al ritorno. La paga della
risaia doveva servire anche per l’affitto, i debiti della bottega e
la legna per l’inverno.


I giorni della risaia erano le nostre ferie. Nonostante la fatica non
mancava la festa. Si guadagnava e si scacciava piu’ lontano la fame
e la povertà. La sera si ballava sull’aia. Molto presto la
capa stabiliva la fine dei balli e l’ora del riposo, al mattino ci
si doveva alzare presto, e se qualcuna non ubbidiva sarebbe stata
scartata nella stagione successiva.


Mi ero portata la corona del rosario, ma smisi presto di recitarlo. Il
cambiamento della mia religiosità fu dovuto anche al fatto che
mi innamorai di un ragazzo, la novità di questo sentimento mi
fece dimenticare il rosario. Ricordi quella canzone che diceva:
“Scordai il Credo e pur l’Avemaria come potrò salvar
l’anima mia”.
Vidi passare un bel ragazzo in bicicletta. Lo
stuzzicai: “Guarda che la ruota di dietro gira”.


Spiritosa!”
rispose.


Si chiamava Italo.
Era carabiniere. Si arrivò fino alle presentazioni in casa e
all’anello. Ma quando incontrai Berto, con le mie stesse idee
comuniste, bello come il sole,
scrissi a Italo una lettera di addio,
adducendo motivazioni fasulle, come la lontananza.
Italo rispose:
“Ho capito che amare troppo si va a finire a essere inebetiti e
considerati niente. Dove io volevo portarti all’altare fin dal
giorno che ti avevo conosciuto”.






Gioco letterario
promosso da Writer: Un amore finito




 
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