Creato da marina1811 il 04/01/2009

PAROLE ONDEGGIANTI

Tutto ciò che ho voglia di scrivere

 

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Post n°113 pubblicato il 02 Luglio 2013 da marina1811

E' più di un anno che non scrivo sul blog. Non so nemmeno io bene il perchè. In questi mesi ne è passata di acqua sotto i ponti, ma l'orizzonte che avevo lasciato scuro è diventato nero.

In quest'Italia affossata dai politici, dalle banche e dagli italiani stessi, il futuro ormai è un grosso punto di domanda, sotto il quale rischiamo di rimanere miseramente schiacciati.

Si vede la sconfitta negli occhi dei padri di famiglia che non hanno più uno stipendio da portare a casa, nelle mani tremanti degli anziani che con le loro misere pensioni non riescono ad arrivare a fine mese, nelle smorfie arroganti delle nuove generazioni di giovani, cresciuti nel'avere tutto senza fatica e che si ritroveranno senza la terra sotto i piedi.

Si vede la sconfitta nella giustizia che condanna una signora per aver rubato il pane o un anziano che ha cercato di difendersi dagli aggressori e poi scarcera i pluriomicidi.

Anche le stagioni ormai hanno perso il conto e così un piovoso autunno si è sostituito a quella che doveva essere la primavera e le piante confuse non hanno fiorito ed ora non hanno frutti. Anche la terra si è inaridita come la gente e per colpa della gente.

Viaggiamo su binari troppi veloci, non ci accorgiamo di chi ci è seduto accanto e il notro bagaglio è pieno di cose inutili, oggi elevate a idoli. Sentiamo la fretta che ci dilania ma se ci fermiamo la noia ci affossa. Mangiamo continuamente e malamente per riempire un vuoto che sentiamo nello stomaco ma in realtà è il buco dell'anima odierna.

Cerchiamo compensazioni frivole e veloci, soddisfacimenti sporchi e leggeri; non conosciamo la profondità della mente, la forza dei sentimenti, il coraggio delle azioni, la serenità dei cuori. Non lottiamo perchè non abbiamo forti convinzioni o credenze o forse non crediamo che la lotta serva a qualcosa in questo mondo.

Vagheggiamo vincite milionarie e intanto fumiamo sigarette che ci incatramano i polmoni, sogniamo viaggi tropicali mentre ingurgitiamo schifezze artificiali che si mangiano la nostra salute, favoleggiamo corpi da favola e poi usiamo l'auto anche per fare il giro del quartiere, immaginiamo feste grandiose con tanti amici poi ci buttiamo sul divano per stordirci davanti alla tv.

Lo scenario è pessimo ma io sono un'inguaribile ottimista e continuerò a cercare la strada.

 
 
 

L'Italia sta morendo?

Post n°112 pubblicato il 04 Maggio 2012 da marina1811

La mia bella Italia, con i suoi panorami stupendi, la varietà dei paesaggi, la natura ricca, il mare che la bagna per due terzi, la gente verace... tutto questo sta morendo per l'ingordigia e l'incapacità di una classe dirigente assassina... ce la faremo a risollevarci o finiremo nel baratro mentre i nostri politici nuotano in piscine d'oro?

 

 
 
 

To Rome with love

Post n°111 pubblicato il 04 Maggio 2012 da marina1811

ack e Sally sono una coppia di studenti americani a Roma, in attesa dell'amica di lei, Monica, un'attrice in erba con la fama della seduttrice seriale. John è un famoso architetto, di ritorno nella città eterna dopo trent'anni, che rivede in Jack se stesso da ragazzo e tenta inutilmente di metterlo in guardia rispetto a Monica. Anche Hayley è giovane e americana: innamoratasi di Michelangelo, figlio di un impresario di pompe funebri, convoca i propri genitori in Italia per far conoscere le famiglie. Insieme al padre regista d'opera in pensione e alla madre strizzacevelli, arriva a Roma anche una coppietta di Pordenone che finirà separata per un giorno da un turbine di equivoci. Ultimo è Leopoldo Pisanello, che diverrà per qualche tempo il primo, per la girandola della ribalta, il capriccio di una fama che è pura illusione e come viene se ne va.
Vorrebbe, forse, essere un film felliniano, To Rome with love , ma è soprattutto un film stanco. Allen finge di avere in mente Lo Sceicco Bianco o i quadri eterogenei, chiassosi e umilianti di “Roma”, ma in verità non fa che citarsi addosso, senza trovare idee nuove e persino senza approfondire le vecchie, senza investire in alcun modo nell'impresa, quasi fagocitato dalle sabbie mobili dei topoi narrativi più facili – il vigile urbano che apre e chiude il decamerone di storielle morali, le donne baffute in veste da casa, la star della tivù che lusinga la ragazzina di provincia -, proprio lui che è sempre fuggito da qualsiasi clichés non fosse di sua invenzione.
Si vorrebbe credere, allora, che guardi volontariamente ad un cinema del passato, come ha fatto altrove, come ad un rifugio nostalgico, ma è presto chiaro che così non è, al contrario: dal “fantasma” di Alec Baldwin alla nevrosi istrionica di Ellen Page, sono pezzi delle sue stesse opere che qui ritornano senza ossigeno vitale, come rovine di un'età ispirata ma antica (con tutto che questo episodio “americano” è forse il più riuscito, nel suo essere un classico del repertorio del regista, affidato ad un trio di giovani).
Certo il colpo d'occhio dello straniero sui costumi della capitale è da maestro di sintesi e cinismo, tutti gesticolano, spuntano i nani e le ballerine, realtà e finzione si confondono come nei Pagliacci - il cui allestimento ironico rappresenta l'unica trovata geniale del film - ma il resto è irrimediabilmente sciatto, abbozzato, per lo meno di seconda mano. Mai così povero, pur nell'abbondanza di personaggi e situazioni. Quando Benigni si cala i pantaloni, per dirla con Leoncavallo: “la commedia è finita”, il delitto è compiuto.

 
 
 

Quasi amici

Post n°110 pubblicato il 26 Marzo 2012 da marina1811

 

La vita derelitta di Driss, tra carcere, ricerca di sussidi statali e un rapporto non facile con la famiglia, subisce un'impennata quando, a sorpresa, il miliardario paraplegico Philippe lo sceglie come proprio aiutante personale. Incaricato di stargli sempre accanto per spostarlo, lavarlo, aiutarlo nella fisioterapia e via dicendo Driss non tiene a freno la sua personalità poco austera e contenuta. Diventa così l'elemento perturbatore in un ordine alto borghese fatto di regole e paletti, un portatore sano di vitalità e scurrilità che stringe un legame di sincera amicizia con il suo superiore, cambiandogli in meglio la vita.
Il campione d'incassi in patria (con cifre spaventose) è anche un campione d'integrazione tra i più classici estremi. La Francia bianca e ricca che incontra quella di prima generazione e mezza (nati all'estero ma cresciuti in Francia), povera e piena di problemi. Utilizzando la cornice della classica parabola dell'alieno che, inserito in un ambiente fortemente regolamentato ne scuote le fondamenta per poi allontanarsene (con un misto di Mary Poppins e Il cavaliere della valle solitaria), i registi Olivier Nakache e Eric Toledano realizzano anche un film tra i più ottimisti sulle tensioni che attraversano la Francia moderna.
Mescolando archetipi da soap (anche i ricchi piangono), la favola del vivere semplice e autentico come ricetta di vera felicità e un pizzico di “fatti realmente accaduti”, a cui gli autori sembrano tenere molto (l'autenticità viene ricordata in apertura e di nuovo in chiusura con i volti dei veri personaggi), Quasi amici riesce a mettere in scena un racconto che scaldi il cuore e rischiari l'animo a furia di risate liberatorie (l'uinca possibile formula che porti incassi stratosferici) senza procedere necessariamente per le solite vie.
La storia di Philippe e Driss non segue la canonica scansione da commedia romantica, non procede per incontro/unione/scontro/riconciliazione finale ma ha un andamento più ondivago, che fiancheggia la crisi del rapporto e le sue difficoltà senza mai forzare il realismo.
Pur concedendo molto a quello che piace pensare, rispetto al modo in cui realmente vanno le cose, il duo Olivier Nakache e Eric Toledano riesce nell'impresa non semplice di infondere un'aria confidenziale ad un film che poteva facilmente navigare le acque del favolismo.
Molto è merito di un casting perfetto che, si scopre alla fine, ha avuto il coraggio di allontanarsi parecchio dalle fisionomie dei personaggi originali. Sul corpo statuario sebbene non perfettamente scolpito (come sarebbe invece accaduto in un film hollywoodiano) di Omar Sy passano infatti tutte le istanze del film. Dai suoi sorrisi alle sue incertezze fino alla sua determinatezza, ogni momento è deciso a partire da quello che l'uomo nero può significare nella cultura francese odierna. Elemento pericoloso quando vuole spaventare un fidanzato che merita una lezione o un arrogante vicino che ingombra il passaggio, indifesa vittima della società quando ha bisogno di un aiuto, forza primordiale e vitale quando balla e infine carattere autentico quando tenta approcci improbabili con le algide segretarie.

 
 
 

La sorgente dell'amore

Post n°109 pubblicato il 12 Marzo 2012 da marina1811

 

La vicenda si svolge ai giorni nostri in un piccolo villaggio situato da qualche parte tra Nord Africa e Medio Oriente. Tutti i giorni le donne debbono compiere un accidentato percorso in salita per andare a prendere l'acqua da una sorgente. Molte di loro hanno perso dei figli che portavano in ventre sottoponendosi a questo duro sforzo. Gli uomini stanno da sempre a guardare e nessuno di loro si è mai dato da fare per far sì che i soldi che arrivano dalle visite dei turisti vengano investiti nella realizzazione di un piccolo acquedotto. Un giorno Leila, giovane sposa venuta dal Sud, decide di non sopportare più questa situazione. Insieme a una delle donne più anziane del villaggio e opponendosi all'ostilità della suocera prova a convincere le donne ad attuare uno sciopero del sesso che dovrà protrarsi sino a quando gli uomini non porranno rimedio alla situazione.
Radu Mihailehanu dopo il treno dei possibili deportati in fuga (Train de vie), la vita non facile di un finto falascià in Israele (Vai e vivrai) e la polifonica irruzione a Parigi dei musicisti russi (Il concerto) affronta il tema dei rapporti uomo/donna nel mondo islamico. Lo fa ammantandolo con l'ottica del racconto di fantasia e partendo da uno spunto da commedia classica dell'antica Grecia: lo sciopero del sesso. Ma non aspettatevi i toni da commedia di almeno due dei film precedenti. Ci sono ma sono minoritari rispetto al bisogno di battersi (ancora una volta per il suo cinema) con senso dello spettacolo contro tutti gli integralismi.
Le sue donne non sono contro gli uomini in quanto tali ma combattono il loro essersi ridotti, per machismo, per vittimismo o per pigrizia mentale allo stereotipo negativo del maschio mediterraneo. La figura di Leila (che trova nell'anziana madre di un Imam tanto giovane quanto integralista una convinta e brillante alleata) emerge. È colei che viene da fuori, colei che la suocera contrasta perché ha il coraggio di gesti che la madre di suo marito non ha mai avuto il coraggio di compiere.
È un piccolo mondo quello che Mihaileanu ci racconta. Ma il suo cinema, che non punta al capolavoro quanto piuttosto a un solido rapporto con il pubblico, trova in sé la forza dell'apologo discreto che ricorda a tutti (non solo ai musulmani) che le Scritture predicano qualcosa di ben diverso dalla sottomissione della donna. Predicano l'amore e il rispetto reciproci.

 
 
 

The edge of love

Post n°108 pubblicato il 06 Marzo 2012 da marina1811

 

Le vite di due donne dallo spirito libero sono legate tra loro da un brillante e carismatico poeta, Dylan Thomas, che le ama entrambe

 
 
 

Monalisa smile

Post n°107 pubblicato il 05 Marzo 2012 da marina1811

 

In pieno maccartismo, la giovane professoressa Katherine Watson giunge dalla California al prestigioso college di Wellesley, nel Massachussetts, per insegnare storia dell'arte ad una classe di future appartenenti all'elite dominante. Lo scanzonato anticonformismo di miss Watson, però, non attecchisce facilmente negli animi delle allieve, più interessate ad un futuro già programmato di mogli benestanti che a decifrare il mistero del sorriso della Gioconda. Così, alla giovane professoressa non resta che tornarsene in Cailfornia credendo di non avere ricavato nulla dal suo semestre di insegnamento. Ma qualcosa, invece, sarà mutato per sempre.
Mike Newell, dopo i fasti ormai datati di Quattro matrimoni e un funerale, pensa di tornare alla grande con un rifacimento al femminile de L'attimo fuggente; ma le lezioni di vita e di filosofia del mitico professor Keating del film di Weir diventano qui solo scipiti consigli di bon ton, ed il sorriso smagliante di Julia Roberts (unito ad una legione di future star di Hollywood) non basta a nascondere la preoccupante mancanza di idee che sottintende al progetto. Una furba operazione commerciale, capace di commuovere solo gli appassionati di una morale da bigino.

 
 
 

Il gatto con gli stivali

Post n°106 pubblicato il 15 Febbraio 2012 da marina1811

 

In un antico borgo spagnolo, Gatto e Humpty Dumpty sono cresciuti come fratelli in un orfanotrofio, col sogno di trovare un giorno i fagioli magici e arrivare all'oca dalle uova d'oro. Nel frattempo, geloso del suo compare più atletico ed amato, Humpty non ha però disdegnato la strada del crimine ed è proprio in occasione di una rapina che qualcosa è andato storto e la loro amicizia si è frantumata. Gatto si aggira da allora come un fuorilegge, in cerca di un modo per ripulire il suo nome, mentre Humpty fa squadra con Kitty Zampe di Velluto, una gattina bella e scaltra. Il destino li rimette un giorno insieme, finalmente sulle tracce dei fagioli magici.
Anche chi non è mai stato fan delle avventure animate dell'orco Shrek, non ha potuto resistere al fascino sornione e birichino del personaggio del gatto, apparso nel secondo capitolo e divenuto in fretta la sola oasi anti-noia all'interno di un franchise in rapido inaridimento. Il film che lo vede protagonista sceglie di non sfiorare nemmeno marginalmente il suo cammino al fianco degli orchi e di ciuchino ma di andare direttamente ad esplorare la sua infanzia e la genesi del personaggio, un po' come hanno fatto recentemente altre saghe cinematografiche, da Star Trek a X-Men.
Mutare terreno, data l'arsura della palude precedente, non sembrava affatto una cattiva idea, quella che non si spiega è la mutazione totale, diremmo genetica, del personaggio. Cosa ne sia stato della pallina di pelo capace di confondere gli avversari sgranando gli occhioni e facendo le fusa per poi tirare fuori gli artigli al momento opportuno, è un mistero senza soluzione. Ritroviamo il gatto trasformato in parte in Zorro, con tanto di cavallo e spada graffitara (e va bene che dietro c'è Banderas ma sembra una presa in giro), e in parte in D'Artagnan, con Milady al seguito. Ciò che non cambia, rispetto alla tradizione di famiglia, è il paesaggio narrativo, ispirato ancora una volta alla fiaba - qui è “Jack e il fagiolo magico” - ma, se possibile, più pretestuoso che altrove.
Per una curiosa legge del contrappasso, così come il gatto con gli stivali aveva a suo tempo rubato la scena ai protagonisti del film che l'ospitava, qui non c'è dubbio che i numeri del gatto siano di gran lunga meno interessanti di qualsiasi cosa faccia il personaggio di Humpty, l'uovo antropomorfo. Handicappato drammaticamente dalla sua forma fisica che lo rende totalmente dipendente dall'aiuto altrui, Humpty è invidioso, morbosamente legato al proprio compagno di giochi d'infanzia, incline a commettere atti fraudolenti e pronto a tradire, ma anche ingegnoso, spassoso e autoironico (la tutina dorata è un colpo di genio): l'unico personaggio che buchi lo schermo e per il quale valga la pena vedere il film.

 
 
 

Lo zucchero č un veleno

Post n°105 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

Il New York Times pubblica un lungo articolo del giornalista scientifico Gary Taubes sui possibili effetti negativi di zucchero e affini, che, se non giunge a conclusioni definitive e sottolinea che occorrono ulteriori ricerche, arriva comunque diritto al nostro stomaco, mettendoci in guardia sugli effetti nocivi dello zucchero per la nostra salute: lo zucchero, con tutte le sue varianti, è una ”tossina”, un ”veleno” ed una sostanza ”malefica”, causa del diabete, dell’obesità e di una serie di malattie metaboliche e cardiovascolari.

L’interesse per l’argomento negli Stati Uniti è molto alto. Due anni fa il celebre esperto in neuroendocrinologia americano Robert Lustig tenne una conferenza intitolata ”Lo Zucchero: l’Amara Verità”. Postata su YouTube, è stata finora letta da 800 mila persone e altre 50 mila la leggono ancora ogni mese.

Nella conferenza Lustig definisce lo zucchero una ”tossina”, un ”veleno” ed una sostanza ”malefica”. Ma lo scienziato non si riferisce solo allo zucchero propriamente detto, il saccarosio, quello che si aggiunge ad una tazza di caffè, ma anche allo sciroppo di granturco ad alto contenuto di fruttosio, che è diventato quello che Lustig definisce ”l’additivo più demonizzato”. Tornando allo zucchero, Lustig non si preoccupa solo delle sue calorie, ma afferma che è ”un vero e proprio veleno”.

Se Lustig ha ragione, scrive Taubes, allora il nostro eccessivo consumo di zucchero è la principale ragione per cui negli ultimi 30 anni è drammaticamente aumentato il numero degli americani obesi e diabetici. Non solo, Lustig considera lo zucchero anche la possibile causa dietetica di molte altre malattie determinate dallo stile di vita occidentale: malattie cardiache, ipertensione e molte forme di cancro. A giudizio di Lustig, lo zucchero dovrebbe essere considerato, alla stregua di sigarette e alcol, ovvero come qualcosa che ci sta uccidendo. Rileva in proposito Taubes che le sue ricerche lo hanno portato alle stesse conclusioni di Lustig.

Nei primi anni ottanta lo sciroppo di granturco col suo alto contenuto di fruttosio sostituì lo zucchero perchè questo aveva una pessima reputazione. Lo sciroppo di granturco fu presentato dall’ industria alimentare come una salutare alternativa, tra l’altro meno costosa, e i consumatori cominciarono ad utilizzarlo copiosamente. Adesso, ironicamente, la situazione si è rovesciata, e lo zucchero raffinato ha ripreso il suo posto nell’alimentazione scalzando lo sciroppo di granturco, ora considerato dannoso.

Ma i due dolcificanti, scrive Taubes, producono gli stessi effetti biologici. In una conferenza svolta lo scorso dicembre, Lustig ha ribadito che ”tra lo sciroppo di granturco e lo zucchero non c’è differenza, fanno entrambi male, sono entrambi velenosi”. L’ultima volta che un’agenzia federale ha preso in esame la questione dello zucchero e di quello che fa alla salute è stata nel 2005 in un rapporto dell’Institute of Medicine, una branca delle National Academies. Il rapporto riconobbe l’esistenza di ampie prove secondo cui lo zucchero potrebbe aumentare il rischio di malattie cardiache e diabete, ed anche aumentare il colesterolo LDL, ovvero quello ”cattivo”, ma senza considerare le conclusioni definitive e senza poter stabilire quanto consumo di zucchero va considerato eccessivo.

In un altro rapporto pubblicato lo scorso autunno l’Institute of Medicine ha ribadito che ”non vi è accordo in campo scientifico riguardo alla quantità di zucchero che può essere consumata in una dieta salubre”. Queste incerte conclusioni, scrive Taubes, hanno prodotto un aumento del consumo dello zucchero, che nel 2000, secondo i dati del ministro dell’Agricoltura, era salito a circa 41 kg pro-capite l’anno. Che questo aumento coincida con l’attuale epidemia di obesità e diabete è una ragione per cui si è tentati di incolpare del problema lo zucchero-saccarosio e lo sciroppo di granturco-fruttosio.

Nel 1980, circa un americano su sette era obeso e sei milioni diabetici. All’inizio degli anni 2000, quando il consumo di zucchero era salito al massimo, era obeso un americano su tre ed i diabetici erano 14 milioni. Questa correlazione tra il consumo di zucchero e la diffusione del diabete, osserva Taubes, è quella che gli avvocati chiamano una prova indiziaria.  Ma è più valida di quanto non potrebbe essere perchè l’ultima volta in cui il consumo di zucchero è salito fortemente negli Stati Uniti, è salita anche la diffusione del diabete.

D’altra parte, le ricerche sull’argomento concludono invariabilmente che occorrono maggiori studi per stabilire quali dosi di zucchero e sciroppo di granturco diventano quelle che Lustig definisce tossiche. In ogni caso ed allo stato degli studi a breve termine fin qui realizzati, scrive Taubes, si può affermare che l’alto consumo di fruttosio contenuto nelle bibite, nei succhi di frutta dolcificati e nei prodotti di pasticceria può aumentare il rischio di malattie metaboliche e cardiovascolari.

Così, replicando a Lustig, è certamente possibile affermare che lo zucchero fa male, scrive Taubes, aggiungendo però che non si potrà esserne totalmente sicuri fino a quando non saranno stati compiuti studi a lungo termine.

 
 
 

La talpa

Post n°104 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

Londra, 1973. Control, il capo del servizio segreto inglese, è costretto alle dimissioni in seguito all’insuccesso di una missione segreta in Ungheria, durante la quale ha perso la copertura e la vita l’agente speciale Prideaux. Con Control se ne va a casa anche il fido George Smiley, salvo poi venir convocato dal sottogretario governativo e riassunto in segreto. Il suo compito sarà scoprire l’identità di una talpa filosovietica, che agisce da anni all’interno del ristretto numero degli agenti del Circus: quattro uomini che Control ha soprannominato lo Stagnaio, il Sarto, il Soldato e il Povero.
John Le Carré, prima di diventare uno dei massimi esponenti della letteratura di spionaggio, è stato dipendente del MI6 e ha effettivamente visto la propria carriera interrompersi a causa di un agente doppiogiochista al soldo del KGB. Di questa trasposizione per il grande schermo Le Carrè stesso ha dichiarato: “sono orgoglioso di aver consegnato ad Alfredson il mio materiale, ma ciò che ne ha realizzato è meravigliosamente suo”, e non potrebbe esserci verità più lampante e gradita.
Meno rispondente, forse, al sapore del libro ricreato in sede televisiva trent’anni fa con un grande Alec Guinnes e il plauso incondizionato dell’autore, la Talpa di Alfredson soffrirebbe dentro qualsiasi schermo più piccolo di quello cinematografico. Perché è di un gran film che si tratta, di quel genere di film che è reso tale dalla perfezione delle parti e da qualcosa di più.
Visivamente impeccabile -elegante e vivido al punto che si sentono l’odore della polvere sui mobili, il leggero graffiare del tessuto dei cappotti, il fumo delle sigarette, l’umido, i sospiri-, il film ha una delicatezza che non si direbbe possibile sulla carta, parlato moltissimo com’è, da attori dal peso specifico enorme (dei quali il recentemente oscarizzato Colin Firth è in fondo il meno impressionante).
Lo Smiley di Gary Oldman è il più leggero ed immenso, col passo felpato e il cuore gonfio, non si sa se più fragile o più terrorizzante, impossibile cioè da “catturare” in un’impressione univoca. Qualcuno che confonde: un virtuoso del proprio mestiere di segreto ambulante.
Ma il vero valore aggiunto del film, il tocco che quasi riscrive il genere di appartenenza di questa pellicola, è il suo cuore sentimentale, addirittura romantico. Trattenuto, imploso, mostrato per piccoli indizi, quasi fossero distrazioni, il sentimento amoroso (tragico ma vitalissimo) è ciò che scalda il film di Alfredson da cima a fondo: il punto debole che fa la sua forza, il dettaglio che fa la sua grandezza.

 
 
 

The artist

Post n°103 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

 

Hollywood 1927. George Valentin è un notissimo attore del cinema muto. I suoi film avventurosi e romantici attraggono le platee. Un giorno, all'uscita da una prima, una giovane aspirante attrice lo avvicina e si fa fotografare sulla prima pagina di Variety abbracciata a lui. Di lì a poco se la troverà sul set di un film come ballerina. È l'inizio di una carriera tutta in ascesa con il nome di Peppy Miller. Carriera che sarà oggetto di una ulteriore svolta quando il sonoro prenderà il sopravvento e George Valentin verrà rapidamente dimenticato.
Anno Domini 2011, era del 3D che invade con qualche perla e tante scorie gli schermi di tutto il mondo. Michel Hazanavicius porta sullo schermo, con una coproduzione di rilievo, un film non sul cinema muto (che sarebbe già stato di per sé un bel rischio) ma addirittura un film ‘muto'. Cioé un film con musica e cartelli su cui scrivere (neanche tanto spesso) le battute dei personaggi. Si potrebbe subito pensare a un'operazione da filologi cinefili da far circuitare nei cinema d'essai. Non è così. La filologia c'è ed è così accurata da far perdonare l'errore veniale dei titoli di testa scritti con una grafica e su uno sfondo che all'epoa erano appannaggio dei film noir. Hazanavicius conosce in profondità il cinema degli Anni Venti ma questa sua competenza non lo ha raggelato in una riesumazione cinetecaria. Si ride, ci si diverte, magari qualcuno si commuove anche in un film che utilizza tutte le strategie del cinema che fu per raccontare una storia in cui la scommessa più ardua (ma vincente perlomeno al festival di Cannes) è quella di di-mostrare che fondamentalmente le esigenze di un pubblico distante anni luce da quei tempi sono in sostanza le stesse. Al grande schermo si chiede di raccontare una storia in cui degli attori all'altezza si trovino davanti una sceneggiatura e un sistema di riprese che consentano loro di ‘giocare' con i ruoli che gli sono stati affidati. Se poi il film può essere letto linguisticamente anche a un livello più alto (come accade in questa occasione in particolare con l'uso della colonna sonora di musica e rumori) il risultato può dirsi completo. Per una volta poi si può anche parlare con soddisfazione di un attore ‘cane'. Vedere per credere

 
 
 

Nato il 4 luglio

Post n°102 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

Ron Kovic, nato il 4 luglio 1946, si arruola nei Marines e torna dal Vietnam, nel 1968, paralizzato nella parte inferiore del corpo e impotente. Attraverso varie esperienze arriva a una presa di coscienza pacifista e porta la sua testimonianza alla Convenzione Democratica del 1976. Tratto dal libro autobiografico di Kovic, è un esercizio di alta retorica antimilitarista contro l'intervento USA in Vietnam, il fanatismo nazionalista, la mistica patriottica, il culto del successo. Ne esce un diseguale film epico con ambizioni di tragedia storica, sequenze corali di forte suggestione spettacolare e pagine di irritante enfasi o didascalica pesantezza. Fino a quel momento idolo delle ragazzine americane, Cruise esce dal suo status di sex symbol, calandosi nel personaggio con ammirevole impegno. Oscar per la regia e il montaggio.

 
 
 

Angela

Post n°101 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

Roberta Torre fa di nuovo parlare di sé. Con Tano da morrie aveva, nel suo piccolo, reinventato un genere, successivamente molto apprezzato dagli americani che hanno, in un certo senso, adottato la regista. Sarebbe stato facile, per lei, ripercorrere quella strada: quasi una franchigia, una garanzia di successo. Invece che cambiato direzione. L’ambiente continua ad essere quello della mala siciliana, ma i toni diversi. E’ storia d’amore. Un negozio di scarpe serve da copertura ai soliti traffici di mafia. Angela (Finocchiaro) è benissimo inserita, conosce il lavoro, conosce le regole, ed è legata a un boss. Insomma tutto nella norma, in “quella” norma, dove ci sono regole precise e ferree e se le disattendi sono guai, grossi. A “destabilizzare” arriva Masino (Di Stefano), altro mafiosetto ma particolare, con una sua chiacchiera e un suo sentimento. Lei perde la testa e crede di poter ricominciare rinnegando tutto il resto. Ma proprio non si può. Il film ha ottenuto un buon successo di critica (presentato a Cannes) e anche di pubblico. La Torre, così come Muccino (certo, per contenuti completamente diversi) sta acquisendo i contorni di “autore di culto”. Vedremo.

 
 
 

Mission impossible: protocollo fantasma

Post n°100 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

 

Implicati loro malgrado in un gravissimo attentato terroristico al Cremlino l'agente Ethan Hunt e i suoi collaboratori sono messi al bando dal governo americano. Il Presidente lancia l'operazione "Protocollo Fantasma". Hunt e i suoi ufficialmente non agiscono più per conto degli Usa ma tocca a loro, senza alcuna copertura, cercare di fermare chi sta cercando di scatenare una guerra nucleare contando sulla mai sopita diffidenza tra russi e yankee.
Le serie televisive, come si sa, sono concepite in modo tale da poter passare di mano in mano (leggi: di regista in regista) senza che i non addetti ai lavori si accorgano di nulla. La standardizzazione è la regola di base a cui tutti si debbono attenere. Sul grande schermo fortunatamente le cose procedono diversamente. Siamo ormai alla quarta Mission Impossible e ogni volta abbiamo assistito a una conferma della continuità unita però a un'incessante variazione di stile. Brian De Palma, che aveva curato l'esordio, non aveva rinunciato al suo gusto per la ricerca stilistica e la citazione raffinata mentre John Woo aveva dato sfogo alla passione per l'esasperazione di ogni singolo dettaglio. J.J. Abrams aveva raccolto l'eredità cercando di portare alla storia il suo spiccato interesse per una costruzione narrativa in cui l'amato (e ampiamente sperimentato in Lost) flashback entrasse in gioco per strutturare un'emozione che non scaturisse solo dall'azione.È ora il turno di Brad Bird che, lasciati i supereroi in cerca di tranquillità de Gli Incredibili e i fornelli di Ratatouille, affronta attori in carne ed ossa che agiscono però in una dimensione in cui gli spettatori debbono essere disponibili a sospendere la famosa incredulità o disporsi a fare altre scelte. Perché Ethan Hunt sopravvive ancora a qualsiasi percossa e caduta (con un po' di dolore a una gamba e nulla più) come da contratto ma, pur aderendo a questa dimensione, Bird non rinuncia a percorrere la strada esplorata da Abrams.
Cerca cioè di umanizzare l'"incredibile" agente offrendogli delle occasioni per far emergere emozioni che vadano al di là della pura action in escalation (che ovviamente non manca). Se allo 007 di Daniel Craig si concedeva un 'passato' ora quello di Ethan Hunt viene letto sotto una nuova luce. Ma, al suo fianco, c'è un gruppo che consente di diversificare anche i diversi livelli dell'azione aggiungendo qualche punta di ironia in più grazie al personaggio interpretato da Simon Pegg. I cattivi? Non mancano e sono proprio cattivi e, come spiega Hunt offrendoci in due battute una lezione di sceneggiatura di genere: "Quando sparano non pensano. Tirano su tutto quello si muove."

 
 
 

Qualunquemente

Post n°99 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

 

Uno spettro si aggira per la Calabria: è lo spettro della legalità. Contro questo spiacevole inconveniente, rappresentato dal candidato sindaco di Marina di Sopra, certo De Santis, la parte “furba” del paese schiera l'uomo della provvidenza: Cetto La Qualunque, di ritorno da un periodo di latitanza con una nuova moglie, che chiama Cosa, e la di lei bambina, che non chiama proprio. Volgare, disonesto, corrotto, ma soprattutto fiero di essere tutto questo e molto di peggio, Cetto prima ricorre alle intimidazioni mafiose, poi a dosi inimmaginabili di propaganda becera, quindi assolda uno specialista. Il fine, e cioè la vittoria alle elezioni, giustifica interamente i mezzi, che in questo caso vanno dal comizio in chiesa, all'offerta di ragazze seminude come fossero caramelle scartate, all'incarceramento del figlio Melo in sua vece. Fino alla più sporca delle truffe.
Il personaggio creato da Antonio Albanese e Piero Guerrera balza dal piccolo al grande schermo, vale a dire dalla misura spazio-temporale dello sketch al lungometraggio di narrazione, sotto la guida e la responsabilità di Giulio Manfredonia e della Fandango, e atterra in piedi. Non segnerà un risultato inatteso ma si posiziona bene rispetto alle aspettative: non annoia, non divaga, non infarcisce la sceneggiatura di corpi estranei, buoni per una gag in più ma in fondo accessori. Non fa nemmeno ridere, e questo può apparentemente rappresentare un problema, ma non per forza. Si mormora in giro che il film esca datato, svilito da uno sprint della realtà politica attuale, che si supera da sola, divenendo sur-realtà, al pari di quella immaginata in Qualunquemente. Eppure non è proprio o soltanto così. Se mai ad essere surreale, ma in quanto concentrato di caratteristiche e costumi assolutamente veritieri, è il personaggio di Cetto, la sua mancanza di un limite, non certo la realtà delle colate di cemento sulla spiaggia, delle fogne che scaricano in mare, dei buoni benzina in regalo o dei brogli elettorali e nemmeno della bigamia, delle allusioni ai pregiudicati e delle “assessore” scelte in base al fisico.
Il film di Albanese e Manfredonia non va scambiato per un film d'intrattenimento, anche se qualche buona battuta per fortuna non manca (“Presto io sarò sindaco per cui tu per legge vicesindaco” o “Si comincia con dare la precedenza ad un incrocio e finisce che si diventa ricchione”), e nemmeno per una tragicommedia alla Fantozzi, sebbene il regista lo citi tra le ispirazioni: piuttosto, è un film violento, che non fa sconti e regala al “cattivo” una vittoria su tutta la linea. Il qualunquismo di questo imprenditore prestato alla politica, sempre allegro e in movimento da un abuso di potere ad un altro, menefreghista in teoria e in pratica, dovrebbe essere qualcosa di cui ridere per esorcismo, per isteria dettata dalla paura, non per spasso o per il piacere di guardarci allo specchio. Se proprio occorre dargli un'etichetta, si dirà che è un film “di denuncia”, con i pregi e i limiti dei film “impegnati”, che ha scelto la via della satira anziché quella della tragedia.

 
 
 

Il mistero dei templari

Post n°98 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

 

Orfani di Indiana Jones, è arrivato il vostro momento.
Prendete Spielberg, Ford e Connery e sostituiteli con Turteltaub, Cage e Voight. Non è proprio la stessa cosa vero? Però a rimpolpare le fila dei protagonisti c'è anche la divina Diane "Elena" Kruger che, alla fine, si dimostra la migliore del gruppo. Il mistero dei templari è un film oggettivamente banale e scontato, la classica mega produzione Bruckheimer costosa e pacchiana, ma riesce comunque a giocarsi la proprie carte, data anche la penuria di film di puro intrattenimento in circolazione in questo periodo.Come per La maledizione della prima luna, il mix tra umorismo e azione funziona alla grande, ed il tempismo della pellicola è perfetto (in fondo tra mappe da decifrare, simboli da riconoscere ed un generale clima da caccia al tesoro, i richiami a successi editoriali recenti come Il codice Da Vinci, sono piuttosto evidenti). I personaggi sono tagliati con l'accetta, le performance di buona parte del cast sono sopra le righe e Cage ha una sola espressione, ma l'helzapoppin messo in piedi da Turteltaub regge e regala anche momenti appassionanti e divertenti. Chiaramente scevro da contaminazioni politico-sociali e privo di qualsiasi messaggio etico-morale (e per fortuna direi, oramai pare che ogni pellicola che esce al cinema debba avere dei significati sottintesi e delle lezioni da impartire al pubblico), il film è senza pretese, se non quelle di far passare al pubblico due ore di assoluto svago. Mai la definizione di pop corn movie (o film panettone, vedete voi) è stata più azzeccata, ma, anche questo (anzi, soprattutto questo) è cinema.

 
 
 

Benvenuti al nord

Post n°97 pubblicato il 13 Febbraio 2012 da marina1811

 

Alberto Colombo, brianzolo impiegato alle poste, ha finalmente ottenuto la promozione e il trasferimento a Milano. Il Sud, in cui è stato benvenuto e benvoluto, sembra adesso un ricordo lontano che Mattia, indolente compagno meridionale, risveglia col suo arrivo improvviso. Perché la relazione con la bella Maria sta naufragando a causa della sua immaturità e di un mutuo procrastinato. Deciso a dimostrare alla consorte di essere un uomo responsabile, Mattia si lascia contagiare dall'operosità milanese finendo per fare brunch e carriera sotto la Madunina. Alberto intanto, promosso direttore e occupato full time, trascura la moglie che finirà per lasciarlo. Sedotti e abbandonati si rimboccheranno le maniche e proveranno a riprendersi la famiglia e una vita migliore in un'Italia senza confini e campanilismi.
La nuova commedia italiana non è più interessante della vecchia, quella dei cinepanettoni per intenderci, ma mette in luce delle diversità rispetto a una scena comica affezionata a modelli tenaci e incrollabili. Archiviati i luoghi esotici, il Nord e il Sud del Belpaese diventano il territorio da occupare, rilanciando con forza e risate l'unità nazionale. Unità sponsorizzata dall'efficienza delle poste italiane, dalla velocità alta delle sue ferrovie e dalla praticabilità delle sue autostrade, che esprimono la dinamicità di personaggi sempre diversi da com'erano al principio o al ‘casello' di partenza. Tra una raccomandata e una Freccia rigorosamente rossa si fa l'Italia e si fanno gli italiani, incarnati da Claudio Bisio e Alessandro Siani, di nuovo alle prese coi cliché regionali, poi messi in discussione, superati e rimpiazzati con altri più abusati. Dopo il meridione di Castellabate, spetta al settentrione milanese essere declinato in stereotipo. In direzione ostinata ma contraria, Benvenuti al Nord serializza il format francese a firma Dany Boon (Giù al Nord) e intraprende un viaggio prevedibile verso il ‘freddo' capoluogo lombardo, che si rivelerà neanche a dirlo altrettanto accogliente e gioioso.
Congedato Massimo Gaudioso e arruolato Fabio Bonifacci, la commedia di Luca Miniero riprende il benvenuto scorso con pochissime novità, riconfermandone la perfetta calibratura, gli ingredienti e i protagonisti sempre radicati nei tempi e nei ritmi degli sketch televisivi. Se il personaggio di Bisio scopriva a Sud il sole e il mare, la bonarietà e l'ospitalità della sua gente, quello di Siani imparerà il fascino della nebbia, sparata artificialmente, e il senso civico del milanese, che lava le strade di notte, combatte le polveri sottili, mette il casco in moto, in bicicletta e sul lavoro. Un anno trascorrerà tra happy hour e happy night, prima che il Mattia, perché il milanese ammette l'articolo determinativo davanti al nome proprio, possa trovare la maturità e ritrovare la sua procace Maria.
Benvenuti al Nord, come il precedente capovolto, è soltanto una favola che promette di incrinare la tenuta degli stereotipi nell'immaginario collettivo mentre li conferma, che reitera modalità (ri)creative e produttive, che costruisce tutto sulla parola e niente sull'idea di visione. Se Bisio e Siani non fanno una stella, sprovvisto di profondità (e fisionomia) drammatica il primo, epigono sbiadito dello stupore malinconico di Troisi il secondo, Paolo Rossi produce un firmamento interpretando (ancora una volta dopo RCL) il ‘metodo Marchionne'. Corpo solista si incarica di riempire una scatola vuota con la deflagrazione della sua comicità mimica e verbale.

 
 
 

Carnage

Post n°96 pubblicato il 16 Ottobre 2011 da marina1811

In un misurato appartamento di Brooklyn due coppie provano a risolvere uno smisurato accidente. Zachary e Ethan, i loro figli adolescenti, si sono confrontati incivilmente nel parco. Due incisivi rotti dopo, i rispettivi genitori si incontrano per appianare i conflitti adolescenziali e riconciliarne gli animi. Ricevuti con le migliori intenzioni dai coniugi Longstreet, genitori della parte lesa, i Cowan, legale col vizio del BlackBerry lui, broker finanziario debole di stomaco lei, corrispondono proponimenti e gentilezza. Almeno fino a quando la nausea della signora Cowan non viene rigettata sui preziosi libri d'arte della signora Longstreet, scrittrice di un solo libro, attivista politica di troppe cause e consorte imbarazzata di un grossista di maniglie e sciacquoni. L'imprevisto ‘dare di stomaco' sbriglia le rispettive nature, sospendendo maschere e buone maniere, innescando un'esilarante carneficina dialettica.
Non è la prima volta che Roman Polanski ‘costringe' e isola i suoi protagonisti a bordo di una barca, dentro un castello, oltre il ghetto di Cracovia, sopra un'isola (in)accessibile. Da sempre nella filmografia del regista polacco la separazione è necessaria per mettere ordine e avviare un' ‘inchiesta'. Accomodati tre premi Oscar (Kate Winslet, Jodie Foster, Christoph Waltz) e un candidato eterno non protagonista (John C. Reilly) in un appartamento di Brooklyn, ambientazione dichiarata dalla prima inquadratura e trattenuta da due alberi che dietro le fronde rivelano lo skyline ‘alterato' di Manhattan, Polanski denuncia ancora una volta il riferimento al (suo) maestro inglese. In particolare un capolavoro di Hitchcock palpita sotto la superficie, un omaggio che dopo molte risate lascia un ‘nodo alla gola'. Trattenuto in un'unica location e svolto in tempo reale, Carnage è ‘scenograficamente' prossimo al Rope hitchcockiano che, girato a Los Angeles, apriva le finestre del suo appartamento su una Manhattan in scala, ricreata attraverso un ciclorama di quattrocento metri quadrati e illuminato da un'abbondanza di lampadine e insegne al neon. Il richiamo non si limita allo spazio esterno, ma ancora e di più a quella maniera unica di tradurre un'idea in un movimento, in movimenti invisibili quanto mirabili di macchina. Versione cinematografica della piéce teatrale di Yasmina Reza, co-sceneggiatrice con Polanski, Carnage coniuga il piacere della forma al valore della storia, una storia che ancora una volta suggerisce l'illusione della trasparenza. La maschera linda dei quattro protagonisti insinua presto un malessere sordo, un orrore che c'è e si vede. Così progressivamente le tempeste dialettiche restituiscono alla superficie i ‘corpi' nascosti nei bauli dalla stessa vanità e gratuità degli studenti hitchcockiani.
Polanski, naturalizzato francese ma apolide per vocazione, satura l'inquadratura di uomini e donne che si sentono ostinatamente migliori dell'ambiente che li circonda, che rimandano a se stessi come gli specchi dell'appartamento, ubicato fuori dalla finzione a Parigi e dimostrazione della condizione di “perseguitato” di Polanski. In cattività, congiuntamente ai suoi coniugi (in)stabili e (ir)ragionevoli, il regista ribadisce l'impraticabilità di introdurre un ordine nella realtà perché basta un conato di bile, un cellulare annegato, un libro imbrattato, una borsetta rovesciata a disperdere equilibrio e ‘democrazia'. Città immaginaria e ferocemente reale, New York apre e chiude il dramma da camera di Polanski, che spacca e fruga, ‘percorrendo' con lo sguardo personaggi già ipocriti e corrotti, strumenti di ferocia intrappolati in un cul de sac. In barba al politicamente corretto, l'irriducibile e non riconciliato Polanski ha cominciato a saldare i conti con l'American Dream. Un sogno che non c'è più e forse è solo la più grande menzogna mai tramandata.

 
 
 

Bastardi senza gloria

Post n°95 pubblicato il 16 Ottobre 2011 da marina1811

Primo anno dell'occupazione tedesca in Francia. Il Colonnello delle SS Hans Landa, dopo un lungo e mellifluo interrogatorio, decima l'ultima famiglia ebrea sopravvissuta in una località di campagna. La giovane Shosanna riesce però a fuggire. Diventerà proprietaria di una sala cinematografica in cui confluirà un doppio tentativo di eliminare tutte le alte sfere del nazismo, Hitler compreso. Infatti, al piano messo in atto artigianalmente dalla ragazza se ne somma uno più complesso. Ad organizzarlo è un gruppo di ebrei americani guidati dal tenente Aldo Raine i quali non si fermano dinanzi a niente pur di far pagare ai nazisti le loro colpe.
Quentin Tarantino colpisce ancora. La sua passione per il cinema di genere, unita al piacere di raccontare storie, lo porta a riscrivere la Storia ufficiale con un attentato a Hitler collocato nell'unico luogo in cui il regista americano può pensare si possa attuare una giustizia degna di questo nome: una sala cinematografica. È solo al cinema che i cattivi muiono quando devono e gli eroi si sacrificano o trionfano.
È cinema puro quello che Tarantino porta sullo schermo, come biglietto da visita di Bastardi senza gloria nella prima mezzora. I tempi, i dialoghi, la tensione, l'ironia giocata sul versante delle lingue differenti (elemento che sarà il fil rouge di tutto il film) ne fanno un piccolo/grande gioiello i cui riferimenti vanno ampiamente al di là dei referenti classici dichiarati quali Sergio Leone e lo spaghetti western.
Il film nel suo complesso non manca di qualche momento statico che fa sentire il peso della sua lunga durata. Grazie però alla straordinaria prestazione di tutto il cast ma in particolare a quella di Christoph Waltz (attore austriaco semisconosciuto da noi a riprova che, al di là dei proclami sulla circolazione delle idee, conosciamo pochissimo del cinema europeo) e grande rivelazione di questo film, Tarantino conduce le danze rendendo omaggio a Enzo Castellari senza per questo avere la minima intenzione di realizzare un remake.
Semmai resta, nello spettatore che ha amato il cinema di Ernst Lubitsch, il piacere di un soggetto che, in alcune sue parti, non può non far pensare a To Be Or Not To Be (tradotto in italiano in Vogliamo vivere ripreso poi da Mel Brooks). Là era il teatro a dominare, qui c'è un'attrice cinematografica a fare il doppio gioco e dei guerriglieri macho che si spacciano per poco credibili italiani in una sala cinematografica. Tarantino è forse l'unico regista contemporaneo capace di metabolizzare un universo cinematografico di cui si nutre costantemente (chi scrive lo ha visto applaudire calorosamente, confuso tra il pubblico della proiezione stampa, alla prima cannesiana di Looking for Eric di Ken Loach che fa un cinema distante anni luce dal suo). Lo metabolizza restituendocelo nuovo e assolutamente personale (si veda, tra i tanti e a titolo di esempio, il riferimento a Duello al sole). Perchè Tarantino ama il Cinema tout court (e non solamente, come tanti altri registi, il proprio cinema) ed è felice quando riesce a trasmettere questa sua passione. Anche in questa occasione la missione è compiuta

Locandina italiana Bastardi senza gloria

 

 
 
 

The quiet man

Post n°94 pubblicato il 29 Settembre 2011 da marina1811

Sean Thornton è un uomo tranquillo che torna nella natia Irlanda per trovare la quiete lontano dal caos americano e dalla carriera di pugile nella quale ha accidentalmente causato la morte di un avversario. Mentre si reca a Innisfree, il paese in cui è nato, incontra e si innamora di Mary Kate Danaher, una rossa dal carattere forte. Successivamente, ricomperando la casa natale si inimica Will Danaher, fratello della donna amata. Questi inizialmente osteggia il fidanzamento fra i due, ma poi ingannato dagli amici di Sean cede. Scoperto l'inganno, il giorno delle nozze, si rifiuta di consegnare la dote. Questo causa un forte dissidio fra i due sposi, in quanto lei lo crede un debole che non sa far rispettare i loro diritti. Dopo una tempestosa prima notte di nozze, lei per la vergogna cerca di scappare in treno, ma raggiunta da Sean alla stazione viene trascinata per 5 miglia fino alla fattoria del fratello. Qui riescono ad ottenere quel che spettava loro, ma inizia un combattimento a suon di pugni fra Will e Sean che si trascina con varie gag fino a che, ubriachi e ormai amici, tornano a casa da Mary Kate.

 
 
 
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