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Le intermittenze del cuore

Post n°87 pubblicato il 15 Gennaio 2016 da IlContaFiabe

Giorgio guardò il viso di Elena mentre lei immobile posava quel suo sguardo fra gli occhi di lui. Era quello il suo modo di donarsi di quei giorni, lasciarsi trasportare fra uno sbatter di ciglia in quell’intenso intreccio di emozioni che il cambiar di dimensione d’una pupilla lascia scorgere.

 

Ma bisognava farci attenzione, e per bene, che un regalo d’occhi, ed il loro parlare non sono cose che la folla riesce a cogliere e sono attimi che tra la 


 

guardare il cielo ma non ti avvolge. Ti offre paesaggi spettacolari e dipinge di nubi dalle mille forme il suo sipario. Ma è una presenza lofolla appunto, svaniscono e  si perdono senza possibilità di ritorno.

 

 

 

Era passato un brevissimo istante, di quelli che gli strumenti adoperati per misurare il tempo leggono al più come frazioni di secondo, o meglio attimi infinitesimi lungo il continuo che l’eternità segna in tutto il suo percorso, e quella domanda che spargeva infinito dai tutti i bordi era lì, sospesa fra lo sguardo di lei e il cuore di lui.

 

 

 

Perché davvero non sai da dove vengano certe domande e nemmeno sai dove vanno a finire.

 

 

 

Certe, diresti che vengono dal fondo di una gola dove vibrano le corde che animano l’aria ed allora immagineresti che se concava è l’origine convessa dev’essere la forma sopra cui vanno poi a poggiarsi. Convessa dev’esser la parte dell’orecchio che le riceve. Eppure andando oltre con l’immaginazione a volte credi che alcune frasi, talune domande, non siano un semplice risuonar dell’aria che ne propaga la presenza e le rende consistenti. No diresti che con quel loro pungente manifestarsi si conficchino in una parte dentro ed allora credi che siano perlopiù frecce che delle invisibili corde tese dietro ad altrettanto invisibile impugnatura scaglino di tanto in tanto, con precisione micrometrica così che le ferite aperte da quel infilzar di carni restino lì a sanguinare e le parole date e ricevute, ed i mille pensieri che si portano appresso, attendano impazienti, in proferir d’una risposta, la cicatrice ad un dubbio risuonante, la pezza, il punto a riparare una ferita.

 

 

 

Certe domande arrivano in un punto molle del tuo corpo. E non sai se dire se sia il ventre o altre volte il cuore.

 

 

 

Tratteneva il respiro Giorgio quasi aspettando che in quell’aria ferma, la domanda di Elena si dissolvesse fino a sparire. Assaporava il momento, lo immaginava, in cui tutto sarebbe tornato come prima. Fantasticava.

 

 

 

Per quanto evitasse pure di respirare e si sforzasse di chiudere gli occhi, tutto rimaneva nello stesso modo. Con le parole di lei ben attaccate alla superficie del suo corpo che le aveva ricevute. E tutto ciò senza badare se era una parte convessa oppure un punto molle lasciato a sanguinar liberamente all’aria.

 

 

 

Giorgio soffriva il dolore di quelle parole.

 

 

 

-“io non so più amare, puoi insegnarmelo ancora?”- così gli aveva detto quella voce di lei come un soffio, anzi un grido soffocato., con una ricerca di comprensione, di aiuto, che lui, adesso, si sentiva addosso come una pietra sepolcrale in attesa d’esse spalancata il giorno di Resurrezione

 

 

 

Come poteva reinsegnarle ad amare?

 

 

 

Che poi a pensarci bene, a dirla tutta, non si reinsegna nulla, che ad amare non si impara mai nemmeno la prima volta e poi neppure si scorda, semmai si rinuncia.

 

Vedeva gli occhi di lei, velati d’un misto di malinconia che riaffiorava da un chissà quale ricordo, mescolata ad una crosta di timor d’essere, di vivere, di respirare, che s’impastava con il tutto passato quasi luminoso, e il niente o quasi niente di un uggioso presente. E lì questi opposti formavano un bizzarro miscuglio di grumi e superfici lisce. Forme concave e convesse avresti potuto dire, ma forme non complementari. Dissonanti. Come un susseguirsi di note senza armonia scandite, tracciate su un pentagramma inesplicabile fatto di punti sospesi. Attese. Musiche. Rimpianti e numerosi ed affannati silenzi.

 

 

 

Giorgio guardò nel fondo dell’occhio laddove s’aspettava di trovarci il muro bianco e sopra, appesi, i sogni dell’anima di lei e lo trovò ma senza i sogni. Bianco era rimasto tale ma nudo senza lo svolazzare allegro incostante dei colori del bisogno di domani. Era tutto immobile, come se la vita avesse cessato di soffiare. Giorgio sentì un brivido pervaderlo. Senza sogni, senza il disegno d’un domani non ci poteva essere voglia di condividerlo, né desiderio che nasca un nuovo mattino ed  il caldo di un abbraccio a tener sospesa l’ultima stella accesa, ed il sorriso che s’invaghisce nello specchio d’una altro sorriso, quasi uguale, d’una anima diversa.

 

 

 

Giorgio sentì montargli dentro il silenzio, l’empatia che lo stava prendendo lo portava in luoghi dove nulla pareva avere suono. Così sembrava l’anima di Elena in quella parentesi del tempo. Muta. Dormiente. Stanca del già vissuto. Spossata come chi ha troppo a lungo faticato ed ora, stremato, ricerca nel sonno profondo, il ristoro a lungo negato.

 

 

 

Taceva l’anima di Elena e lui allungò le dita per attraversarla un attimo e sfiorarla mentre la sentiva respirare regolare.

 

 

 

E pensò che il tutto fosse allora racchiuso in quell’attimo fatto di poche cose, infondo, e pensò che più che il cielo avrebbe voluto il mare racchiuso in quella stanza. Che il cielo uno lo vede dipinto in alto e allunga il dito a volte per toccarlo ma è un orizzonte bugiardo che sposta sempre un poco oltre la sua essenza e resta sempre l’illusione che un domani un dito appena un po’ più lungo o per un attimo di sua distrazione, del cielo appunto, uno lo possa toccare. Si fantana, distante appunto. Che con la sua distanza nega il tuo potere d’imitarlo. Ora tu prova a lanciare un sasso in cielo per mutar corso o forma alle nuvole e dimmi poi al suo ricadere, raccontami il tono disilluso e amaro dell’impotenza del gesto. Mentre il mare no. Possente, amico ma fino ad un certo punto, lui si mette in gioco, e si lascia toccare, attraversare, ti lascia immergerti nella sua forza ti induce persino a tentar di cambiarne aspetto schizzando con la mano la superficie che da piatta allora s’increspa un attimo.


 


Altra forza. Altro spessore quello del mare. Che con un gesto, un solo gesto può rigettarti a riva dopo una tempesta o schiacciarti contro gli scogli. Ed un gesto solo del mare sembra sovrastare tutti i venti del cielo. Strane forse dominano mare e cielo. Mentre il secondo racconta con gli zefiri e lo scirocco o il maestrale quando appaiono, il primo modella forme attimo dopo attimo, e ti risponde inesorabile, ogni minuto della tua vita, con lo sciabordio dell’onda che s’infrange contro un masso o su  un bagnasciuga sabbioso.

 

Avrebbe voluto essere mare, in quel momento, Giorgio, ed abbracciare con la sua forza immensa Elena, ed i suoi occhi ed il suo cuore, muto, o forse solamente sordo, che invece il cuore di lei parlava anche se piano, quasi con un sussurro, e a quel sussurro avrebbe risposto con l’onda mite della risacca d’agosto, ed avrebbe accordato il tempo dell’onda a quel suo battere timido, ed avrebbe giocato a ricorrere il tempo scandito dal contrarsi d’un ventricolo,seguendone il tempo con lo sciabordio, o intonando il controcanto.

 

Entrò negli occhi di lei coi suoi, per un istante, e sospese anche il respiro, poi con volo leggero sparse un poco della sua anima su quel muro candido e vuoto. Sentì il respiro di lei farsi un poco più acceso, e vide germogliar sul limite d’un ciglio l’addensarsi umido d’una lacrima.

 

Era quello il segno, il segnale, che quel dialogo di Elena fra sè non s’era mai interrotto ma forse solo sospeso e forse con quella lacrima che avrebbe di lì a poco rigato il volto consumandosi in un viaggio fra un inizio di passione e l’infinito si segnava il limite d’inizio di una nuova storia, di una nuova vita.

 

Sorrise fra se, mentre Elena ormai piangeva liberamente. Baciò il solco di ogni sua lacrima senza però mutarne il cammino, lasciando che libere e liberate bagnassero la sua spalla e il suo vestito, e alcune poggiassero a terra, lì di sicuro ovunque avessero cambiato di stato, sarebbero sbocciati nuovi fiori e nuove piante che avrebbero profumato e poi adombrato con le loro frasche le storie che il cuore di lei ancora avrebbe raccontato.

 

 
 
 
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