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Messaggi di Novembre 2014

La Bella Mano (016-020)

Post n°708 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XVI

Mentre ch'io son con gli occhi tutto intento
Negli altri ove accende il mio gran foco,
Il tempo et gli momenti a poco, a poco
Si mi sottragge Amor, che apena il sento;

Et per troppo alla vista esser contento,
Ritrar non posso in carta assai o poco
Dei miei pensieri, che gran parte in gioco
Sen vanno, et la maggior sen porta il vento.

L'opra è sì degna et nova, et sì divina,
Di quelle che nel ciel più elette sono,
Che spiegar non può stil, né lingua nostra.

L'aspetto a cui Natura e il Ciel s'inchina,
Quel poco et sì confuso mi dimostra,
Ch'io vo di lei scrivendo et ch'io ragiono.

XVII

Chi è possente a riguardar negli occhi
Di lei, che a torto mi distrugge il core,
Et mirar fiso le sue bionde chiome,
Saprà, perché sì forte innanzi al giorno
Finire io bramo la mia grave vita,
Et perché sempre lasso chiamo morte.

Amor, che si nudrica di mia morte,
Non so che move dentro a quei begli occhi
Che a poco a poco scema la mia vita,
Et perché più languisca il tristo core,
Il laccio, ov'io fui preso nel bel giorno,
Che nuova arte nascoso ha tra le chiome.

Se io avesse avolte in man le amate chiome
Di lei, che in fronte porta la mia morte,
Et me consuma più di giorno in giorno,
Farei crudel vendetta di quegli occhi,
Che fan rapina di me stesso al core,
E in un punto mi danno et morte et vita.

Lasso vedrò giamai quel giorno, in vita,
Che dal bel nodo di sue crespe chiome
Sia sciolto alquanto l'infelice core:
E, innanzi che di me trionfi Morte,
Faran mai segno di pietà quegli occhi
Che tran dei miei duo fonti notte et giorno?

Non vidi mai beltade in alcun giorno,
Che più invaghisse la mia debil vita
Quanto un dolce splendor di due begli occhi:
Tal che, mirando appresso lor le chiome,
A mia voglia arsi, et non soffersi morte,
Si mi rubaron dolcemente il core.

Ben devi esser contento, o debil core,
Che il ciel ti riservasse a questo giorno
Per darti di tal Man sì dolce morte,
Che non formò natura in questa vita
Sì dolce nodo in sì leggiadre chiome,
Né lume tanto altero uscì mai d'occhi.

Occhi soavi onde si pasce il core
Col rassembrar d'un giorno, et delle chiome,
Cagion sete di vita et di mia morte.

XVIII

O man ligiadra, ov'el mio bene alberga,
Et morte et vita insieme al cor m'annodi:
O man, che chiusamente l'alma frodi
Di quanto ben sperando la mente erga;

Et stringi il duro freno et l'aspra verga,
Che mi corregge et volve in mille modi;
Et leghi il core et l'alma in tanti nodi,
Che a forza converrà che omai disperga.

Selvagia et fera voglia, et rio pensiero,
Che hai rotto omai nel mezo ogni mia spene,
Crudel vagheza, d'ogni pietà nuda.

O bel costume, o peregrin mio bene,
O natural bontade, in ch'io sol spero,
Pensate alla mia pena quanto è cruda.

XIX

O bella et bianca mano, o man suave,
Che, armata, contra me sei volta a torto:
O Man gentil, che lusingando, scorto
A poco a poco in pena m'hai sì grave,

Dei miei pensieri et l'una et l'altra chiave
T'ha dato l'error mio; da te conforto
Aspetta il cor, che disiando è morto;
Per te convien che Amor sue piaghe lave.

Poiché ogni mia salute, ogni mia spene
Da voi sola ad ognor convien ch'io spere,
Et da voi attenda vita, et da voi morte,

Lasso, perché, perché, contra al dovere,
Perché di me pietà non vi ritene?
Perché sete ver me, crudel, sì forte?

XX

Chi vol vedere in terra un'alma sola
In tutto sciolta dal mondano errore.
Miri la Donna mia, miri il Valore.
Che quanto il mondo appreza varca et vola;

Ascolti quella angelica parola,
Ladove ogni sua pompa spande Amore;
Et guardi quei begli occhi, che il mio core
Visibilmente col mirar suo invola.

Il vago spirto, che la voce move
Fa di quei dolci rai leggiadro velo,
Pien tutto d'amorose et chiare stelle:

Et poi volando con vagheze nove,
Per l'aer nostro alteramente al cielo,
Ivi le parte elette fa più belle.

(continua)

 
 
 

La Bella Mano (011-015)

Post n°707 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

XI

Nella stagion che rimbellisce l'anno
Fuggendo, s'esser può, chi mi tien vivo,
Et quella man, di cui sì caldo scrivo,
Et gli atti, che da dir tanto mi danno,

Amore, armato con suo novo inganno,
Mi si fe incontra appresso un fresco rivo;
Et lusingando, così fugitivo
Mi tenne, et mi ridusse al primo affanno.

Io dicea meco: Or chi ti riconduce?
Ma questo non mi valse alla difesa,
Tanto ebber forza in me parole et cenni.

La debil vista, dall'obietto offesa,
Lo sforzo non sostenne d'una luce,
Quand'io mi volsi indietro dond'io venni.

XII

Spento ha degli occhi bei l'altero lume
La debile mia vista, sì ch'io vivo
Omai cieco nel mondo, et son già privo
Del senso, che mi spinse al mal costume.

Ma lasso, perché il duol più mi consume,
Tra il nubiloso ciglio e il guardo schivo,
Talor si muove un raggio fugitivo,
Che in parte par le mie tenebre allume.

Del cui splendor riprendo nova luce,
Tal che dubbioso scorgo la mia morte,
Dove allor corro, perché ancor divampi:

Et veggio ben che la mia dura sorte
Sì vacillando là mi riconduce,
Perché m'abbagli et non veggia ov'io scampi.

XIII

Luce dal ciel novellamente scesa
Per far con tua presenza sacra et pura
Più degna in noi Natura,
Et aggrandire il basso stato umano,
Apena che la lingua s'assicura
A dir del ben, donde ho la mente accesa
Pensando alla mia impresa
Dignissima di stile alto et sovrano:
Ma prego Amor, ch'ogni mia sorte ha in mano
Che l' opra virtuosa franchi et spire,
Facendo alle mie stanche rime scorta;
Et scusi il troppo ardire
Del gran piacer, che a scriver mi conforta.

Poi che compiutamente ogni belleza
Per vera elezione Amore et Dio
Poser nel volto, ch'io
Come idolo scolpito in terra adoro,
E il mio sperar che fu di tanta alteza,
Che già con tal vagheza
Mi mosse a contemplar l'alto lavoro;
Non so se per riposo o per ristoro
Di mie fortune et dei passati affanni,
Ciò provedesse il mio Signor fallace,
Per darmi al fin degli anni
Alcun breve conforto o qualche pace.

Se il piacer amoroso ond'io m'accendo,
Mentre che in te son tutto attento e fiso
Per iscolpire il viso
Che fa alla nostra età cotanto onore,
Non mi tenesse allor da me diviso
Finché la forma tua vera comprendo
Et gli secreti intendo,
L'anime spente accenderei d'amore,
Ma se lo innamorato acceso core
La gran dolceza in voce poi sciogliesse,
Come confusa in lui l'ascondo et celo,
Io temo non (ne) avesse,
Di sì supreme laudi invidia il Cielo.

Quel vago riso et l'atto signorile,
L'angeliche maniere elette et care,
E il bel dolce parlare,
Che per virtù materna in te succede,
L'aspetto che nel mondo non ha pare
Son le faville e il bel laccio gentile,
Che in angoscioso stile,
Mia vita ardendo strugge, et la mia fede
Misero me, serà sempre mercede
Nimica pur così di leggiadria,
Come bellezza di pietà rubella?
Che in costei non fia,
Triomfarà sopr'ogni donna bella.

Chi poria mai la dote et la virtute,
Et l'alte tue eccellenze al mondo sole
Con mortali parole
Cantare apieno, come io dentro 'l sento?
Quale intelletto è, che tanto alto vole,
Che spieghi cose mai più non vedute;
Ove son stanche et mute
Et penne et rime, et ciascun nostro accento?
L'andar celeste, e il divin portamento
Che fan del Paradiso prova in terra,
Qual lingua o quale stile è che el descriva?
Che, se 'l parer non erra
Tua forma è umana, ma l'esentia è diva.

Hor va Canzon leggiadra
Davanti a quella oriental Fenice
Che fa di sé la nostra età felice,
Cotanta gratia da' begli occhi piove:
Et narra, se fra noi valor fu mai,
Che in lei non si ritrove
Raccolto tutto et più compiuto assai.

XIV

O sasso aventuroso, o sacro loco
Donde si move onestamente et posa
Talor la donna mia sola e pensosa,
Col mio Signore, a cui vittoria invoco.

Quinci arder vidi quel soave Foco,
Che fa la vita mia tanto angosciosa:
Quivi sedeva altera e disdegnosa
Colei, che del mio mal cura sì poco.

Però devoto a voi convien ch'io torne,
Cercando co 'l disio ciascuna parte
Qualor la dolce vista al cor mi riede,

Per ritrovar delle faville, sparte
Da quelle luci sopra l'altre adorne,
O l'orme impresse dall'onesto piede.

XV

Quando dal nostro polo sparir sole
Il chiaro giorno, et sopra gli altri luce,
Allor che il carro d'oro al mar conduce,
Apollo che di Dafne ancor si dole;

Il cor d'ardenti rai d'un vivo Sole
Chi può m'ingombra, et di sì nova luce,
Che a l'orizonte mio sempre riluce
Sole, che m'arde omai come Amor vole.

Et veggio sempre di mia morte colme
Due stelle, ove il bel guardo costei gira,
Per tempo sfavillar, sì come al tardo:

Ma lasso pur talor di Febo duolme,
Et di qualunque per amor sospira,
Ma più di me, che più d'altrui sempr'ardo.

(continua)

 
 
 

La Bella Mano (006-010)

Post n°706 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella Mano di Giusto de' Conti

VI

Chi è costei, che nostra etade adorna
Di tante meraviglie et di valore;
E in forma umana, in compagnia d' Amore
Fra noi mortali come Dea soggiorna?

Di senno et di beltà dal Ciel s'adorna,
Qual spirto ignudo et sciolto d'ogni errore:
Et per destin la degna a tanto onore

Natura, che a mirarla pur ritorna.
In lei quel poco lume è tutto accolto,
Et quel poco splendor, che a i giorni nostri
Sopra noi cade da benigne stelle:

Tal che il Maestro dai stellati chiostri
Sen loda, rimirando nel bel volto,
Che fe già di sue man cose sì belle.

VII

Quel cerchio d'oro, che due trecce bionde
Alluma sì, che il Sol troppo sen dole;
E il viso, ove fra pallide viole
Amor sovente all'ombra si nasconde;

Perle risuona angeliche parole;
Et gli occhi, onde, al mattin riprende il Sole
La luce che perduta avea fra l'onde;
Et la vaghezza del soave riso,

Et l'armonia, che tra sì bianche et monde
Con l'atto altero de l'andar beato,
Che ogni vil cura dal cor m'allontana;

E il bel tacer da inamorar Narciso,
È quel che tanto ha sopra ogni altro stato
Nobilitata la natura umana.

VIII

Vidi fra mille fiamme in un bel viso
Amore armato d'una luce altera:
Indi mostrommi l'arma sua più fera,
Quella onde Marte et Ercole ha conquiso.

Vidi inchinarsi il Cielo, e il Paradiso
Tutto a costei, da l'ultima sua spera;
Et rivestirse il Mondo primavera
Agli atti, alle parole, al vago riso.

Et quei begli occhi, che fan doppio giorno
Ove che amor gli volga, e il dolce passo
Che germina viole ovunque move:

Io nol so dir, che nol comprendo lasso,
Di tante maraviglie è il fronte adorno,
Et tanta gratia dalle ciglia piove.

IX

Quando costei ver me li passi move,
Che mi tien stretto con sì fero artiglio,
Io vedo Amor, che dal suo altero ciglio
Cosa che m'arde ne' begli occhi piove.

Mille paure allor tutte più nove
Mi fan sì bianco il volto et sì vermiglio,
Che prendon di mia vita altro consiglio
gli spirti miei, nascosti io non so dove.

Et nel passar del mio soave Foco,
Gli stimoli d'amor, che notte et giorno
mi pungon sì, che dentro l'alma scoppia,

Lassan nel mio pensier quel sacro loco,
Ove io la vidi, et l'atto suo più adorno,
Che l'amoroso nodo in cor m'addoppia.

X

Da quel si amaro, et si bel fonte move
Le lacrime, ch'io spargo, et ho già sparte,
Amor, per consumarmi? et da qual parte
Le angoscie al petto mio tante et sì nove?

Donde il gran foco, in ch'io sempre ardo? et dove
Raduna quei sospir che il cor comparte?
Dove la forza accoglie, et dove l'arte
Degli occhi, onde conforto et pace piove?

Dove la chiara luce del bel viso?
Dove trovò le rose et le viole,
Per far la bocca angelica soave?

Donde l'oneste sue sante parole
Che move d'alto loco col bel viso
Questa, che di mia vita tien le chiave?

(continua)

 
 
 

La Bella Mano (001-005)

Post n°705 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

La Bella mano di Giusto de' Conti.

La prima edizione della raccolta di poesie di Giusto de' Conti (1390-1449, la data di nascita è incerta, come pure il luogo, che si pensa sia Valmontone) risale al 1472, ma tale Canzoniere fu scritto circa 30 anni prima.

I

Amor quando per farmi ben felice
L'alta amorosa spina nel cor mio

Piantò colla gran forza del disio,

Che fin nelle mie piante ha la radice,


Mi fe' pria singular più che finice,

Mentre a mia voglia a morte l'alma invio,

Et poi mi tinse nel tenace oblio,

sì che me ricordar di me non lice.


Da inde in qua mia voce mai non tacque

Ma sempre ovunque fosse lagrimando

D'amore et di madonna se ragiona.


Così di lei parlare ognor mi piacque,

Il suo bel nome nei mei detti alzando,

Ch'en tante parti per mia lingua sona.


II

A l'alta impresa, ove la mente stanca

Driza lo ingegno et le parole morte,

Soccorra chi m'ha posto in dura sorte

Che lo intelletto per se stesso manca.


Porgami speme quella bella et bianca

Man che el cor strugge et par che mi conforte

Et renda l'alma in sua ragion più forte,

Che spesso le mie guance inrossa e imbianca.


Per me non basta raccontar l'inganno

Ond'io fui preso el di chi innamorai,

Né di costei l'angelica beltade.


Né con qual forza in mezo il cor mi stanno

Gli occhi infiammati di celesti rai,

Che vita m'han spogliata et libertade.

III

G
iunse a Natura un bel pensier gentile
Per informar fra noi cosa novella,

Ma pria mill'anni imagino, ch'a quella

Faccia ligiadra man ponesse et stile.


Poi nel più mansueto et nel più umile

Lieto ascendente di benigna stella

Creò questa innocente fiera et bella

Alla stagion più tarda e alla più vile.


Ardea la terza spera nel suo celo

Unde sì caldamente amor s'intorna

El giorno, che el bel parto venne in terra.


Ed io mirava la più degna forma

Quando vestè d'un si mirabil velo

Quest'anima gentil che me fa guerra.

IV


O sola qui fra noi del ciel finice:

Ch'alzata a volo nostra età s'obscura

Et sopra a l'ale al ciel passi sicura

Sì che vederla apena ormai ne lice.


O sola agli occhi miei vera beatrice,

In cui si mostra quanto sa natura,

Bellezza immaculata et vista pura

Da far con picciol cenno ogni uom felice,


In voi si mostra quel che non comprende

Al mondo altro intelletto se no il mio

Ch'amor lieva tant'alto, quanto v'ama.


In voi si mostra quanto amor s'accende

L'anima gloriosa nel disio,

Che per ellectione a Dio la chiama.

V


Questa angeletta mia da l'ale d'oro,

Mandata qui da il regno degli Dei,

Non so che nell'aspetto aggia con lei,

Che come cosa santa sempre adoro.


Dei spirti eletti il più gentil di loro

Venendo a noi con gli altri semidei,

(Nel fronte porto scritti i pensier miei)

Dalla più degna spera et alto coro,


Dal volto, acceso d'un celeste raggio,

Sfavilla et dai begli occhi la vaghezza,

Che il cor m'ha pien d'ardente caldo et gelo;


Et dalla bocca colma di dolcezza,

Riversa il bel parlar sì dolce e saggio;

Come colei che lo imparò dal cielo.

(continua)

 
 
 

Il Dittamondo (1-11)

Post n°704 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Il Dittamondo
di Fazio degli Uberti

LIBRO PRIMO

CAPITOLO XI

"In breve assai t’ho chiaro discoperto 
del mondo l’abitato e come giace, 
benché ’l veder te ne fará piú sperto": 
cosí mi disse. E io: "Forte mi piace 
il tuo parlar; ma qui d’un punto bramo 5 
che l’intelletto mio riposi in pace. 
Dimmi: quel luogo, onde cacciato Adamo 
con Eva fu, dov’è, ché tu nol poni 
in su la terra né mostri alcun ramo?" 
Ed ello a me: "Diverse opinioni 10 
state ne son; ma suso in oriente 
per la piú parte par che si ragioni. 
È questo un monte ignoto a questa gente, 
alto, che giunge in fine al primo cielo, 
onde ’l puro aire il suo bel grembo sente. 15 
Quivi non è giá mai caldo né gelo. 
quivi non per fortuna onor si spera; 
quivi non pioggia né di nuvol velo, 
Quivi è l’arbor di vita e primavera 
sempre con gigli, con rose e con fiori; 20 
adorno e pien d’una e d’altra rivera. 
Quivi tanti piacer di vaghi odori 
vi sono e tanto dolce melodia, 
che par che ciò che v’è vi s’innamori. 
Vecchiezza e ’nfermità non sa che sia 25 
colui giá mai che dentro vi giunge: 
e questo pruova Enoc ed Elia. 
Ma muovi i passi omai, ch’altro mi punge". 
E io: "Va pur, ché dietro a le tue spalle 
non mi vedrai piú d’un passo di lunge". 30 
E cosí mi guidò di calle in calle 
tanto, che noi giungemmo sopra un fiume, 
che si spandea per una bella valle, 
sopra la quale, per lo chiaro lume 
del sol, ch’era alto, una donna scorsi 35 
vecchia in vista e trista per costume. 
Gli occhi da lei, andando, mai non torsi; 
ma poi che presso li fui giunto tanto 
ch’io l’avisava senza niun forsi, 
vidi il suo volto ch’era pien di pianto, 40 
vidi la vesta sua rotta e disfatta 
e raso e guasto il suo vedovo manto. 
E, con tutto che fosse cosí fatta, 
pur ne l’abito suo, onesto e degno, 
mostrava uscita di gentile schiatta. 45 
Tanto era grande e di nobil contegno, 
ch’i’ dicea fra me: "Ben fu costei 
e pare ancor da posseder bel regno". 
Maravigliando, piú mi trassi a lei 
e dissi: "O donna, per Dio non vi noi 50 
di soddisfare alquanto ai disir mei, 
ch’io riguardo da l’una parte voi, 
che ne gli atti mostrate sí gentile, 
ch’io dico: - il ciel qui porse i radii suoi -; 
e poi da l’altra parete sí vile, 55 
sí dispregiata e con pover vestire, 
ch’io rivolgo il pensiero ad altro stile". 
Qual piange sí che vuole e non può dire, 
cosí costei al pianto si disciolse, 
bagnandosi con l’acqua del martire. 60 
Ma poi che il cuore alquanto lena colse 
e che sfogata fu la molta voglia, 
sí rispondendo in verso me si volse: 
"Non ti maravigliar, se io ho doglia; 
non ti maravigliar, se trista piango, 65 
né se mi vedi in sí misera spoglia. 
Ma fatti maraviglia ch’io rimango 
e non divento qual divenne Ecuba, 
quando gittava altrui le pietre e ’l fango: 
ché minor suon non fe’ giá la mia tuba, 
né minor fui di sposo e di figliuoli, 
né meno ho sostenuto danno e ruba. 
Onde, quando mi truovo in tanti duolie ricordo lo 
stato in che giá fui, 
che governava il mondo co’ miei stuoli, 75 
piango fra me, ché qui non è con cui. 
Or t’ho risposto a quel che mi chiedesti, 
forse con versi troppo chiusi e bui". 
"Se Quel che tutto regge ancor vi presti 
tanto di grazia, per la sua pietate, 80 
che de gli onori antichi vi rivesti, 
fatemi ancora tanto di bontate, 
ch’io oda come in vostra giovinezza 
foste accresciuta in tanta dignitate, 
e ’n fino a cui salio vostra grandezza, 85 
e la cagion perché da tanto onore 
caduta siete in cotanta bassezza". 
Questo prego li fei con tanto amore, 
ch’ella rispuose: "Al tuo piacer son presta; 
ma non fia il ricordar senza dolore". 90 
Poi cominciò e la forma fu questa.

 
 
 

Fazio degli Uberti

Post n°703 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Fazio degli Uberti

Fazio, ossia Bonifazio, figliuolo di Lapo, e nipote del celebre Farinata degli Uberti, esiliato venne da Firenze sua patria, e costretto quindi ad errare per l'Italia, sostenendo anche i disagi della povertà, come si rileva da una sua canzone qui da noi inserita. Di profondo e chiaro ingegno dotato, rivolse ogni suo studio alla poesia, ed oltre alle varie e buone sue liriche composizioni, si avvisò ad imitazione di Dante di comporre il suo gran poema del Dittamondo, in cui si propose di dare una idea storico-cosmografica di tutto il globo. Sorpreso però dalla morte non ha potuto condurre a termine il suo lavoro, del quale ci ha lasciato sei soli libri. Ben lontano dal poter gareggiare col suo modello, non poche si scorgono nondimeno nel Dittamondo delle prerogative della Divina Commedia, distinguendosi specialmente quest'opera per la felicità di dir molto in poche parole, e di dirlo con grande robustezza di stile, come lo faremo piò diffusamente osservare altrove. Noi non sappiamo quale fosse precisamente l'epoca della sua morte, ma sappiamo solo dal Villani, che in età avanzata, ed in poco comodo stato cessò di vivere in Verona.

Note redatte da Andrea Rubbi, sul Parnaso Italiano, Volume 8, G. Andreola, 1820, pag. 264 e seguenti.

 
 
 

Li libbri

Post n°702 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Li libbri

Li libbri so' 'na cosa assai gajarda.
Quanno li sfoji, pare che capischi
tutte le cose, ... e poi ... nun ce so' rischi
che se potrà svejà 'na mente tarda!

Guardeli, tutti lì su lo scaffale,
oppuro, mejo, su 'na libbreria:
vedelli è ppropio 'na gran sciccheria
che ddà 'na ggioia quasi alluvionale.

De solito, me piace 'n po' tocalli,
prima de legge quelo che c'è scritto;
li tocco tanto che me vié li calli!

'Na vorta che tu hai tutto sistemato
e ciài li libbri e ppuro alloggio e vvitto,
...beh ... tte poi séde e vvive più bbeato!

Valerio Sampieri
30 novembre 2014

 
 
 

Er ventinove

Post n°701 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

Er Ventinove

Chissà che ppô succede 'r ventinove,
quanno quest'anno se ne andrà a ffiniì?
'Na sola cosa vojo da capì:
ce sarà 'r sole o se ne véra a piove?

Vabbè che già c'è stata inondazzione,
ma piovi oggi e piovi anche dimane,
ce resteno ben poche cose sane
e tutto pare 'na gran distruzzione.

Ce mancheno sortanto trenta ggiorni
e poi va a principà 'sto nôvo anno
che m'arigalerà dei nôvi scorni.

La vita, 'n fonno, è come 'na partita,
un gioco, nun te devi pijà affanno,
basta pensà che prima o poi è finita.

Valerio Sampieri
29 novembre 2014

 
 
 

Ortografia del Romanesco nel 1800

L'introduzione a "Tutti i sonetti romaneschi" di Giuseppe Gioachino Belli contiene un interessante "saggio" sull'ortografia del dialetto romanesco, preceduto da alcune considerazioni di carattere generale, di cui presento un estratto.

"Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di questi meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali. Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. Questi idioti o nulla sanno o quasi nulla: e quel pochissimo che imparano per tradizione serve appunto a rilevare la ignoranza loro: in tanto buio di fallacie si ravvolge. Sterili pertanto d’idee, limitate ne sono le forme del dire e scarsi i vocaboli. Alcuni termini di senso generale e di frequente ricorso vi suppliscono a molto.

Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in iscena questo piuttosto che quel rione, ed anzi una che un’altra special condizione d’uomini della nostra città. Ogni quartiere di Roma, ogni individuo fra’ suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi ha somministrato episodii pel mio dramma: dove comparirà sì il bottegaio che il servo, e il nudo pitocco farà di sé mostra fra la credula femminetta e il fiero guidatore di carra. Così, accozzando insieme le vari classi dell’intiero popolo, e facendo dire a ciascun popolano quanto sa, quanto pensa e quanto opera, ho io compendiato il cumulo del costume e delle opinioni di questo volgo, presso il quale spiccano le più strane contraddizioni. Dati i popolani nostri per indole al sarcasmo, all’epigramma, al dir proverbiale e conciso, ai risoluti modi di un genio manesco, non parlano a lungo in discorso regolare ed espositivo. Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed efficace: una frequenza di equivoci ed anfibologie, risponde ai loro bisogni e alle loro abitudini, siccome conviene alla loro inclinazione e capacità.

Di qui la inopportunità nel mio libro di filastrocche poetiche. Distinti quadretti, e non fra loro congiunti fuorché dal filo occulto della macchina, aggiungeranno assai meglio al fine principale, salvando insieme i lettori dal tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi, senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee. Ogni pagina è il principio del libro, ogni pagina la fine."

Quella che segue è invece la parte più propriamente dedicata all'ortografia.

"Parliamo intanto delle consonanti.

La b tra due vocali si raddoppia, come abbito (abito), la bbella (la bella), debbitore (debitore) ecc. La b dopo la m si cambia in questa: cammio (cambio), cimmalo o cèmmalo (cembalo), immasciata (ambasciata), limmo (limbo), palommo (palombo), gamma (gamba), ecc. Ciò peraltro accade quando appresso la b venga una vocale. Se la b sia seguit da r, alcuni la mutano in m e alcuni no: per esempio le voci imbriaco, settembre, ambra, da molti si pronunceranno senza alterazione e da taluni si diranno immriaco, settemmre, ammra.

La c si ascolta quasi sempre alterata. Se è doppia avanti ad e o ad i, oppure ve la precede una consonante, contrae il suono che hanno nella regolar pronuncia le sillabe cia e cio in caccia e braccio, e lo prende ancora più turgido, che in questi due esempi non si ascolta. Preceduta poi da una vocale, anche di separata parola, prolungasi strisciando, similare alla sc, di scémo, oscèno, scimia: per esempio, piascére, duscènto, rèscita, la scéna, da li scento, otto scivici (piacere, duecento, recita, la cena, dai cento, otto civici) e simili. E qui giova il ripetere aver noi prodotto in esempio un suono soltanto similare, imperocché di simile, in questo caso la retta pronunzia non ne somministra. Pasce, pesce, voci della buona favella, si proferiscono dal volgo come le voci viziate pasce, pesce (pace, pece) colla differenza però che in questi ultimi vocaboli il valore della s è semplice e strisciante, laddove in que’ primi odesi doppio e contratto: di modo che, chi volesse rappresentare con la penna la differenza di questi due suoni, dovrebbe scrivere passce, pessce (pasce, pesce) pasce, pesce (pace, pece): quattro vocaboli che il dir romanesco possiede.

 Nella lingua francese si può trovare questo secondo suono strisciante della sc romanesca, il quale nella retta pronunzia dell’idioma italiano sarebbe vano di ricercare. Per esempio acharnement, colifichet, la chimie, s’échapper. Per ben leggere i versi di questo libro bisogna porre in ciò molta attenzione. I fiorentini hanno anch’essi questo suono, che coincide là appunto dove i romaneschi lo impiegano; ma dovendosi considerare ancora in quelli come un difetto municipale ed una alterazione del vero valor dell’alfabeto italiano, non si è da me voluto dare per esempio che potesse servire alla intelligenza degli stranieri.

Appresso però alle isolate vocali a, e, o, e a tutti i monosillabi che non sieno articoli o segnacasi, la c conserva bensì il suono grasso ai luoghi già detti, ma abbandona lo strascico; per esempio a cena, è civico, o cento. Si osserva in ciò la legge stessa che impera sulla c aspirata de’ fiorentini, i quali dicono la hasa, di hane, sette havalli, belle hamere, ecc., ed al contrario pronunziano bene e rotondamente a casa, è cane, o cose, che cavalli, più camere. Come dunque i fiorentini diranno la hasa, di hane, le hose (la casa, di cane, le cose) così i romaneschi diranno la scena, de scivico, li scento (la cena, di civico, i cento); e all’opposto per lo stesso motivo che farà pronunziare da’ fiorentini a casa, è cane, o cose, si udrà proferire a’ romaneschi a ccena, è ccivico, o ccento: imperocché in quelle isolate vocali a, e, o e ne’ monosillabi tutti (meno gli articoli, i segnacasi, di e da, e le particelle pronominali) sta latente una potenza accentuale che obbligando ad appoggiare con vigore sulla c iniziale de’ seguenti vocaboli, la esalta, la raddoppia, e per conseguenza n’esclude ogni possibilità di aspirazione come se fosse preceduta da consonante. La quale identità di casi offre uno benché lieve esempio di ciò che talora anche le lingue più diverse ritengono fra loro comune e inconvenzionale: la ragione di che deve cercarsi nella natura e necessità delle cose.

 Bisogna qui avvertire un altro ufficio della lettera c. Presso il volgo di Roma le voci del verbo avere sono proferite in due modi. Quando serve esso verbo di ausiliare ad altri verbi, tutte le di lui modificazioni necessarie ai tempi composti di questi si aprono col naturale lor suono, meno i vizi delle costruzioni coniugate: per esempio hai fatto, avevo detto, averanno camminato, ecc. Allorché però lo stesso verbo avere, preso in senso assoluto, indichi un reale possesso, i romaneschi fanno precedere ogni sua voce dalla particella ci. Non diranno quindi hai una casa, avevo due scudi, averanno un debito, ecc., ma bensì ci hai una casa, ci avevo du’ scudi, ci averanno un debbito, ecc. Poiché però il ci non è da essi pronunciato isolato e distinto, ma connesso e quasi incorporato col verbo seguente, così queste parole e altre verranno da me scritte colla particella indivisa: ciai, ciavevo, ciaveranno. E siccome esse consteranno pur sempre dall’accoppiamento di due voci diverse, io vi porrò un apostrofo al luogo dove cade l’unione fonica (ci’ai, ci’avevo, ci’averanno) affinché da niuno sien per avventura credute vocaboli speciali e di particolare significazione. Se poi la combinazione della altre parole del discorso, che vadano innanzi alle dette voci a quel modo artificiale, produrrà lo strisciamento oppure il raddoppiamento della c già da me più sopra indicato. Ecco in qual maniera si noteranno queste altre due differenze: Io sc’iavevo du’ scudi, Tu cc’iai una casa, ecc. Se al contrario il verbo avere non indichi un reale possesso allora le sue voci andran prive del ci: per esempio: avevo vent’anni, hai raggione, averanno la disgrazzia, ecc.

La d appresso alla n mutasi in questa seconda lettera. Vendetta si pronuncerà vennetta; andare, annà, indaco, innico, mondo, monno. Allorché però le parole principiate da in non saranno semplici ma composte, come indemoniato, indietro, indorare e simili, la d conserverà il proprio valore.

La g fra due vocali non si addolcisce mai nel modo che sogliono i buoni favellatori italiani, come in agio, pregio, bigio, ecc., ma si aspreggia invece e si duplica. Doppia poi, o preceduta da consonante avanti alla e ed alla i, si pronuncia turgida come la c ne’ medesimi casi. Nel resto questa lettera ritiene la sua natura. La sillaba gli nelle parole si cambia in due jj: mojje (moglie), ajjo (aglio), mejjo, fijjo, ecc. Ma l’articolo gli si muta in je: je disse, fajje (gli disse, fagli), ecc.

La l fra le vocali e le consonanti mute si muta in r, come Rinardo, Griserda, Mitirda, manigordo, assarto, sverto, morto, inzurto, ferpa, corpa, quarcheduno, arbero, Argèri, arcuanto, marva, scarzo, mea-curpa, per Rinaldo, Griselda, Matilde, manigoldo, assalto, svelto, molto, insulto, felpa, malva, scalzo, mea-culpa. Nulladimeno il vocabolo caldo e i suoi composti diconsi assai più spesso e generalmente callo, riscallo, e non cardo e riscardo. Ancora nel nome Bertoldo la d fa l e si dice Bertollo. Olio pronunciasi ojjo, rosolio fa rosojjo, risojjo o risorio. La medesima lettera l preceduta da un’altra consonante in una stessa sillaba, prende parimenti il suono di r. Pertanto le voci clima, plico, applauso, flauto, afflitto, emblema, blocco, Plutone, diverranno crima, prico, apprauso, frauto, affritto, embrema, brocco, Prutone.

Alcuni non della infima plebe volgono l’articolo il in el, laddove la vera plebaglia dice sempre er.

La s non suona mai dolce come nella retta pronunzia di sposo, casa, rosa. Odesi sempre sibilante, e, allorché non sibila, assume le parti di una z aspra: lo che accade ogni qual volta succeda nel discorso ad una consonate come sarza (salsa), er zegno (il segno), penziere (pensiere), inzino (insino) ecc.

La z nel mezzo delle parole costantemente raddopiasi. Così grazia, offizio, protezione, si proferiranno grazzia, offizzio, protezzione. Bensì questo s’intende allorché la z rimanga fra due vocali.

Generalmente, al principio delle parole, alcune consonanti restano semplici e molte al contrario si raddoppiano, purché la parola precedente non termini in un'altra consonante. Ma poiché pure questa teoria, comune in gran parte alle classi più polite del popolo, va soggetta a capricciose eccezioni, se ne mostrerà la pratica ai debiti incontri. Dopo però le finali colpite d’accento, sia manifesto, sia potenziale (come si disse più sopra, parlando de’ monosillabi) da noi si dovrebbe nella scrittura delle consolanti iniziali conservare il sistema della regolare ortografia. Un segno di più è forse qui oziosa ridondanza, dacché fu avvertito come la potenza accentuale raddoppi per sé stessa nella pronunzia le articolazioni seguenti: e il miglior proposito parrebbe quello di notar solamente ciò che si diparte dal resto. Purtuttavia, per non indurre in equivoco i meno pratici, ai quali potesse per avventura giungere questo scritto, seguiremo coi segni la guida del suono da essi rappresentato.

Per le lettere vocali non dovremo fare osservazioni se non se intorno alla a alla e e alla o. La prima esce sempre dalla bocca de’ romaneschi con un suono assai pieno e gutturale: l’acuto o il grave della seconda e della terza seguono le regole del dir polito, meno qualche incontro che all’occasione sarà da noi distinto con analoghi accenti. Basterà qui l’avvertire che niuna differenza si fa da e congiunzione ed è verbo, siccome neppure tra la o congiuntivo e la ho verbale: udendosi tutte pronunciare ugualmente con suono ben largo ed aperto.

Aggiungeremo a questo luogo che la i nei monosillabi mi, ti, ci, si, vi, trasformasi in e, pronunciandosi me, te, ce, se, ve. Al contrario poi la e in se, particella condizionale, volgesi in i. Questo rilievo per altro apparterrebbe più alla grammatica che all’ortografia: e noi di grammatica non parleremo, potendone i vizii apparir chiaramente dagli esempii, i quali verranno all’uopo corredati da apposite note dichiarative".

 
 
 

I scacchi

Post n°699 pubblicato il 30 Novembre 2014 da valerio.sampieri
 

I scacchi

Sessantaquattro, come co' gli scacchi,
ogni anno è tale e cquale a 'na casella
co' cquarche cosa brutta e quarche bbella,
co' 'n po' de ggioie e ppuro 'n po' d'acciacchi.

Ce stanno le caselle più importanti,
cavallo, arfiere, tore, re e reggina,
e quele cor pedone, 'na pedina
che vale poco: e 'st'anni só' i ppiù ttanti.

Però, tocca pensà ch'anche 'r pedone
ne la partita cià quarch'importanza
e che, se esiste, ce stà 'na raggione.

Bbisogna mai fermasse. Come 'n mulo
la vita -come i scacchi- sempre avanza:
si nun ciabbadi, te l'appizza ar culo.

Valerio Sampieri
29 novembre 2014

 
 
 
 
 

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