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Messaggi di Agosto 2015

Bartolomeo Carlo Piccolomini 2

XVII

Di M. Bartolomeo Carlo Piccolomini

2

Voi, che in questi vicini ombrosi monti,
Ninfe, l’ameno e antico seggio avete
E con gli arbor di Giove alte crescete,
L’ombre tessendo all’onorate fronti,

Voi, rugiadose dee, ch’a i freschi fonti
Sotto il più ardente sol l’onde mescete,
Voi, che intorno a i bei colli dipingete
Co i fiori l’erbe e i crini aurati e conti,

Quella, che col bel volto a ogn’altra sopra
E co l’alto pensier trappassa, i vostri
Nomi ora chiama e ’l vostro aiuto attende.

Venite dunque, e dagli usati chiostri
Liete volgete ogni vostr’arte ed opra
Là dove il ciel co i lumi suoi più splende.


3

È dunque vero, ahimè, che l’empio affanno
Con aspri oltraggi di rio caldo e gielo
Le belle membra di madonna stempre
In guisa tal che, se dal largo cielo
Grazie piovendo in lei tosto non danno
Al grand’uopo conforme aita, sempre
Il mondo impresso di dogliose tempre
Avrà da lacrimare, il gran tesoro
Con lei perdendo ond’ei suol gir superbo ?
Iniquo fato acerbo,
Che di natura il più ricco lavoro
Osi turbar con cui l’arte sua vinse:
Qual nel dubbioso mio fosco pensiero
Post’hai doglia, qual tema e qual pietade ?
E qual desio d’empir queste contrade
Del suon d’aspri lamenti oscuro e fero,
Poi che i perigli a l’alta beltà cinse
D’orrida morte e del color suo tinse
Le chiare membra il tristo e duro caso
Che ’l sol minaccia di perpetuo occaso ?

Com’esser può che ’l volto almo e sereno,
Che pur dianzi splendea più ch’altro, e i lumi
Onde si volge a vera gloria il mondo
Di santo amor, d’angelici costumi,
Or sia di nebbia indegna e d’orror pieno,
Giacendo afflitto ? Ahi lasso, o mio giocondo,
O sacro raggio, che nel cor profondo
Con ardor sì possente e sì gentile
M’entrasti sì che da null’aura offesa
L’alma fia sempre accesa,
Chi mi ti invidia ? Questa vita a vile
Forse ha madonna ? E a morte è già vicina,
Ch’a morte involar noi suole e dar vita
Che fa beato altrui ? Chi fia che ’l creda ?
De l’immortali il fato anco far preda
Puote ? O miseria nuova, aspra infinita
Doglia, che la celeste mia divina
Donna turbando vieni, e pellegrina
Far l’alma agogni dal suo santo albergo,
Ond’io le guance ognor di pianto vergo.

Quel ch’al bel viso, a la stagion novella,
Che per lo nostro ciel lieta montava,
Similmente adivenne: i suoi colori
Com’egli d’or in or perdendo andava,
E i bei sembianti sotto iniqua stella;
Primavera così de i cari onori
Spogliar si vide, e da i nimici orrori
Ferir del vento che da l’alpe torna.
Caggion le sue ghirlande a terra sparse
Poi che l’aere apparse
Strania tempesta, e le inchinate corna
Il Tauro offeso adietro volse, e ’l Sole
Si turbò in vista, e l’amoroso lume
Che inalba il terzo ciel si ricoperse,
Tosto che i raggi suoi mesta coperse
Madonna oltre a l’usato suo costume
Coi qual la terra e ’l cielo allumar suole,
E la dolce armonia de le parole
Negar l’afflitte labbia, e le sue chiome
Auree non sparse, ond’ella prende il nome.

Amor, che in guardia qui lasciando il regno
A i suoi begli occhi ed a l’imperio saggio
Di quel divino e nobile intelletto,
Come securo al tuo materno raggio
L’ale spiegasti, e forse a questo segno
De gli dei volger l’amoroso affetto
Pensasti lieto, il nuovo e duro effetto
Mira dal cielo, alto e possente divo,
Mira colei che quasi adori meco,
Che il mondo lassar cieco
Par s’apparecchi, e già ’l bel corpo privo
De le virtù che gli comparte l’alma
Prende il camin verso il perpetuo sonno.
Pensa al futuro danno, al grave incarco
Che Fortuna spingendo al fosco varco
La donna nostra ti procaccia. Or ponno
Contro a te i fati sì che dura salma
A la tua maestate altera ed alma
Osin por di disnori e iniqui oltraggi,
Perch’al mondo mai più gloria non aggi ?

Apri i purpurei tuoi veloci vanni,
E dove ora vedrai che intorno imbruna
L’aria il suo tristo seno, e ov’io sospiro,
Vieni tosto, ti prego, e insieme aduna
Tutti i tuoi ingegni, e agli angosciosi affanni,
Al nequitoso, acerbo, agro martiro
Ch’a l’estremo di morte aspro sospiro
Omai la sprona, gli occhi drizza, e insieme
A te stesso ed a lei soccorri, Amore.
Vinci questo empio errore
Di Fortuna e di Morte ond’ella or geme,
Mostra la maggior tua possanza vera
Al gran periglio, ov’è sì chiaro il merto,
Contr’a quelle trae fuor la tua virtute
Con l’armi altere che la sua salute
Procurar ponno, e del suo stato incerto
Far securo lo spirto, e l’atra schiera
Scacciar di tante noie anzi che pera.
Dove se’ Amor ? Ché più dimori ? Affretta,
Signor, il volo a far di noi vendetta.

Co l’aura mossa da le sacre penne
Al tuo venir togli la nebbia oscura
De l’aere tristo che sospira e piagne;
Passa ov’ella languisce, e l’aspra arsura
Tempra al bel corpo che in onor tuo venne;
Le rose ch’a la neve eran compagne
Rendi al candido volto e s’accompagne
Con ogni parte il vigor primo e l’opra;
Rendi il lume al suo albergo antico e fido,
Torna, Amor, al tuo nido
De gli occhi vaghi, e qui gli strali adopra;
Rendi a lo spirto le celesti note
Ch’addolcivano i cori, e de la gioia
Usata seco e del suo dolce riso
Co le grazie primiere le orna il viso
Che ne temprava ogni amorosa noia.
Al mio cor, che v’adora insieme e puote
Viver solo per lei, quanto il percote
Ora acerbo dolor, tanta allegrezza
Tornerà co l’amata alta bellezza.

Sacro Apollo, deh mira il crudo scempio
Di sì leggiadra e bella donna, a cui
Volgendo gli occhi il mondo apprezza ed ama
Gli studi tuoi, che fan le tempie altrui
Cinger di lauro con sì chiaro esempio.
De le tue Muse sol per lei si brama
La selva, il monte e l’acque, e si disama
Ogni vil opra, e sol ella simiglia
Co le chiome i tuoi crin, co gli occhi i rai.
Ascolta i mesti lai
De le misere labbia, e in un ripiglia
L’arti tue antiche, e mischia insieme l’erbe
Che dan salute. Ecco, turbate il volto,
Le pie sorelle sue ti porgon voti;
Già fien per loro al nome tuo devoti
Più che mai i cori, ove il gran dubbio sciolto
Sarà de le lor menti, ove l’acerbe
Pene avrai tolte. Già vedrai superbe
Le piramidi, a i raggi tuoi sembianti,
Surgere a un nuovo e bel tempio davanti.

Tu, che a la Notte ed Erebo seconda
Nascesti, e de la vita il fil ne tessi,
Guarda lo stame che troncar vuol l’empia
Terza sorella, come il fuso avessi
De gli anni di costei pien tutto, e l’onda
Stigia passar devesse anzi ch’adempia
La sua fiorita etade e pria che l’empia
Del suo nome ogni clima. Ahi duro e ingrato
Dente, che incontro al natural suo corso
Cerchi al fil dar di morso,
Che fornito devria vincere il fato !
Tosto l’ingiusto e orribil colpo affrena
E l’opra più che mai segui felice,
Tu che l’ordisti come fusse eterna.
Difendi or la tua gloria e si discerna
Ch’a voi giusta pietà non si disdice.
Mirate ove madonna i giorni mena
In sì forte martir, sì ardente pena,
Ove par che con mesti ed umil segni
Ad essa crudeltà pietade insegni.

A te lo stil rivolgo, invida Morte,
Che cieca giri la terribil arme;
Tu sola, ahi lasso, a impoverirmi attendi,
Crudel, tu sola ad ogni ben privarme
Cerchi in un punto, e le speranze morte,
Ahimè, far tutte, e mentre l’ira accendi
Contra sol una, mille vite offendi.
Tu l’amata mia luce ingorda furi
Nel più bel lampeggiar de’ raggi suoi ?
Omai sareste voi
Commossi, o tronchi alpestri, o scogli duri.
Restar debbo io senza il mio bel pianeta ?
E senza vita in vita ? O rea nemica,
Sfoga l’ira tu in me più tosto, e il male
Volgi a me tutto ed al mio spirto frale,
Che sempre è in compagnia de l’alma amica:
Quel prendi e le tue voglie in parte acqueta.
Gradite anco il mio fin voi, donna, e lieta
L’anima in vece vostra a morte andranne,
O partendo pur voi, con voi verranne.

Taci, canzon, che già d’Amor la face
Veggio apparir, che la sua ardente chioma
Per l’aere vibra con allegri lampi;
Già par che il mesto albergo in cima avampi,
Già le noiose e oscure nubi doma
Aura felice, e ’l vento irato tace
Che tempesta adducea; coi dolor pace
Forse avrèn tosto, e tosto alta pietade
Al mondo renderà la sua beltade.

Bartolomeo Carlo Piccolomini
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Viggija de Natale

Viggija de Natale

Come un fagotto, la su li scalini
de 'na chiesetta, sta tutta accucciata
'na pòra donna co du' regazzini
ner mentre l'aria è umida, gelata.

Du vecchi, vennitori de cerini
ch'anno abbuscato appena la giornata,
stanno a discute de li pasti fini
che vengheno magnatli i' sta nottata.

Un'operajo more a l'ospedaLe
lontano da li cari genitori!....
lui che sperava de sortì a Natale!

Ner mentre invece, in d'una bella stanza
fanno bardoria un frego de signori
tra polli, dorci e vini in abbondanza!

Antonio Camilli
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 17

 
 
 

Bartolomeo Carlo Piccolomini

XVII

Di M. Bartolomeo Carlo Piccolomini

1

Poscia ch’a sì leggiadro e chiaro obbietto,
Che sembianza non ha di cosa umana,
Gli occhi m’hai volti, Amor, che gìano errando
Chinati a terra dietro a l’ombra vana
De la bellezza, e a vil raggio imperfetto,
Quante grazie debbo io render cantando
A così larga tua mercede, quando
Mi dipinge il pensier quel sacro volto
Ch’alzar solo mi puote infino al cielo,
Il tenebroso velo
Squarciando, che ’l sentier dritto avea tolto ?
Porgine aita, alto signore, e insegna
Al rozzo stil, che vorria dire in rime
Quell’immenso piacer che l’alma sente
Per tua cagione, e qual sia il lume ardente
De la santa beltà, ch’entro s’imprime
Nel cor, mosso da te, perch’a sì degna
Scala di gire al primo bello or vegna.
Gloria molta ti fia ch’io ’l dica e onori
Quella ond’avvien che ’l nome tuo s’adori.

Benedetto sia ’l dì che i primi passi
Torsi dal rio viaggio e ruppi il nodo
Che prigion mi tenea d’empio signore,
Quando svelsi del sen l’amaro chiodo
Che ’l tenea fisso in pensier duri e bassi:
Da la parte del ciel destra l’ardore
Del divin foco allor piovve nel core,
Ch’io mi svegliai dal sonno egro e mortale
Che di notte m’empia le luci e ’l petto.

O felice disdetto,
Poscia che m’involasti al crudo strale,
E mi facesti uscir de l’aspro bosco
Che i piedi e ’l collo a i peregrini intrica,
E traestimi poi del tristo fiume
Che de l’oscura Lete have il costume!
O benigno splendore, o stella amica,
Che l’aere gravato umido e fosco
Da tutto il mio natio bel colle tosco
Con aura lieta disgombrasti intorno
Nel sopr’ogni altro avventuroso giorno!

Questi so’ i raggi del divino Sole
In cui mirando la bellezza eterna
Stimar si può di quello, e questo il viso
Che di quel ben, che in sé la più superna
Rota nasconde, a noi dimostrar suole
Sì chiari segni ch’io da me diviso
Corro a vederli, e provo il paradiso.
Queste le chiome son che vincon l’oro
Col qual dal terzo ciel Venere splende,
Di queste i nodi tende
Amor che trae su nel celeste coro
I degni spirti. O dolce e caro laccio,
Che ’l cor quanto più stringe più discioglie,
Quanto da te mi glorio esser avvinto !
Questa è la voce angelica onde vinto
Resta ogni altro concento, onde le voglie
S’infiamman sì che del mortale impaccio
Vorrian spogliarsi. Io per te sola scaccio
Ogn’altro suon da le mie orecchie interne,
E odir mi fai quaggiù le voci eterne.

Pigra giacea nel mondo la virtute
Che dal cor nasce e quella che la cima

Di noi ritiene, e già l’arbitrio umano
In basso volto l’alta strada prima
Avea lasciata della sua salute,
Ed a fiero costume ed inumano
Scendea, di sé facendo il miglior vano,
Quando pietà di noi celeste feo
Volar in terra l’unica bellezza
Che co la sua vaghezza
Volgesse altrui dal camin torto e reo,
E chiamassene al cielo, al ciel, ch’allora
Ch’ella qui nacque le benigne stelle
Tutte avea accese con felici aspetti;
Ed Eolo intanto i venti avea ristretti
Nel cavo speco, e ’l mar le sue procelle
Tutte acquetava. Sormontò l’Aurora
Più lieta in vista, e l’odorata Flora
Sparse il mondo di rose, e Amor la face
Santa raccese, ond’or tutto mi sface.

Qual pensier sento al suo apparir che l’ombre
Discaccia intorno e l’alto lume porge,
Mentre accrescermi sento il dolce foco
Ch’a l’incendio degli angeli mi scorge
E fa che l’alma ogn’altro ardor disgombre !
Quando i passi poi muove ed ogni loco
Empie di meraviglia, Amor, qual gioco
Nel cor mi versi e qual gloria, se arriva
Tra l’altre come sol lucente e vago !
Quanto talor m’appago
Vedendo lei per qualche verde riva
Che de i fiori più degni allor si copre,
Al cantar degli augelli, al suon dell’onde
Ch’accompagnan la voce alta e gentile !
Qual più leggiadro ed animoso stile
Agguagliar porria il dolce che s’infonde
In mezzo a l’alma, e narrar tutte l’opre
Ch’ella in me face, e di qual tempre adopre
Gli strali Amor, di cui le piaghe sento
Al cor profonde gir senza il tormento !

Per voi le dotte Muse e ’l sacro Apollo
Sovr’a Pindo e Parnaso ed Elicona
M’accolgon lieti a la lor selva e a l’acque,
E degni fanno i crin de la corona
A cui non dà l’ira di Giove crollo,
Da poi ch’agli occhi miei felici piacque
L’angelico sembiante, onde al cor nacque
Quel gran desio ch’a dir di voi mi mena,
Celeste donna, e a far sentire il nome
E ’l bel volto e le chiome
Scolpite in carte, e l’aurea mia catena
Mostrar dove il sol nasce, ove s’inchina,
Ne l’Oceano e a l’Orse e a mezzo l’arco
Che ne saetta il giorno, e in ogni etade
Si senta che la vostra alma beltade
Del cielo al secol nostro aperse il varco,
Pur che la vista chiara e pellegrina
Mi si mostri benigna, e la divina
Luce veggia dappresso in dolce stato,
Che in un può in terra e in ciel farmi beato.

Mentre come per limpido cristallo
Si mira in lei dentro al bel corpo l’alma
E s’ode il parlar dolce ch’a noi fede
Fa del saggio intelletto, ogni aspra salma
Lungi disgombra il cor d’ogni rio fallo;
E sì col suo valor lo spirto il fiede
Che da i rozzi pensier dilunga il piede;
E s’amica fortuna ancor lo sguardo
Mi fa incontrar di quegli occhi sereni,
Del ben ch’è dentro pieni
Spirano il santo zelo ond’io tutto ardo,
E lasciar fanno le mortali imprese.
Vola aura fuor delle sue labbia a noi
Che del sepolto foco a mille a mille
Visibilmente fuor trae le faville.
Ogni vano desir co gli atti suoi,
Co l’alte voglie di virtute accese
Sparir fa quindi, ove il suo lume accese:
Quanto gradir più fate il sommo bene,
Poi che per voi, madonna, a lui si viene
Onde vostra mercede, o fida scorta
Per la strada ch’a Dio mena secura,
Per tutti i gradi avvien che lieto poggi,
Ch’io miri pria la vostra alma figura
Mentre l’anima va da i sensi scorta,
Poi l’imagin più bella in seno alloggi,
Quindi volando per campagne e poggi
In un raccolga le bellezze sparte;
E quella poscia a contemplar se stessa
E la bellezza espressa
Nel puro specchio suo con miglior arte
Vegna, ed indi s’innalzi al quinto seggio
Ne l’intelletto suo, dove la guardi
Non con l’imagin più ma in propria forma;
E al fin muovi l’estrema e felice orma
Al vero lume eterno ove tutta ardi.
Così mi fermo, e quivi assiso veggio
La prima mente, e in lei tutte vagheggio
Le belle idee ne l’esser più gradito,
Solo per voi nel ciel, donna, salito.

Canzon, dal nuovo ardor subito nata
Che m’ha nel petto miso, e sarà eterno,
La bella donna ch’a ben far ne chiama,
Vedi che ’l cor non può dir quanto ei brama,
E converria, del gran diletto interno
E di sì rari effetti, e de l’amata
Sopra ogn’altra gentil beltà pregiata:
Scusami, che non pur l’uman pensiero,
Non che la lingua, tutto aggiugne al vero.

Bartolomeo Carlo Piccolomini
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

Lodovico Domenichi, Bartolomeo Carlo Piccolomini, Poeti italiani, Rime diverse di molti..., Secolo XVI, Canzoni

 
 
 

Cenni biografici

Andrea Rubbi, Parnaso Italiano Volume 1, 1819

I. Ciullo d'Alcamo
Per corruzione fu dato il nome di Ciullo a questo poeta, che chiamavasi Vincenzo nato in un castello della Sicilia vicino a Palermo, nominato Alcamo, e perciò è conosciuto per Ciullo, quasi Vincenciullo da Vincenzo d' Alcamo. Non bene convengono i nostri scrittori sull'età, nella quale precisamente ei fiorisse, e non tutti quindi accordare gli vogliono la gloria di nostro primo poeta. Alcuni anzi l' attribuiscono a certo Lucio Drusi pisano, fondati sull'interpretazione d' un certo sonetto, agitando una quistione, che lungo ed inutile sarebbe il qui replicare; alcuni altri all' opposto assegnare vorrebbero al nostro Ciullo un'epoca più remota ancora sopr' altre conghietture di poco valore. In ogni modo, combinando tutti i pareri, e riflettendo sullo stile e dicitura di quella sua sola canzone, che pubblicata ci fu dall' Allacci, noi concordiamo di buon grado col Tiraboschi a riguardarlo come il primo poeta italiano, i di cui versi sieno fino a noi pervenuti, senza badare al Crescimbeni, che riserbare yorrebbe un tal vanto ai Toscani, e senza considerare col Quadrio per il nostro più antico lirico Ubaldino Ubaldini, per avere con quella poca prosa rimata semi-latina, che qui si legge, celebrato il privilegio ottenuto da Federico Barbarossa di poter aggiungere allo stemma della sua famiglia le corna d'un cervo da lui domato alla caccia. Da questo incomipciamento dunque, cioè dall'anno 1 197, in cui si può ragionevolmente supporre, che Ciullo fiorisse, amiamo noi di fissare i primi vagiti della nostra poesia, e prendendoli quindi appunto come vagiti, ad altro servir non possono che a piantare la base della poetica storia d'Italia, e rispettati esser devono da ogni censura.


II. Folcacchiero de' Folcacchieri
Nativo di Siena e cavaliere fu questo lirico, la di cui meno rozza maniera di scrivere posteriore lo manifesta all'antecedente, ma non di molto. Tutti gli scrittori convengono nel collocarlo al posto, che dato gli viene anche in questa nostra Raccolta; ma della sua vita non ci restano memorie, e del poetico suo talento giudicar possiamo alla sola lettura d'una sua canzone, prima dall' Allacci, e poi pubblicata dal Crescimbeni.


III. Piero delle Vigne
Nobile Capuano, d'una famiglia originaria di Padova, il di cui sapere gli meritò dai suoi coetanei il titolo di Maestro . Visse alla corte dell' Imperatore Federico II, e molto fu stimato ed amato da quel monarca, di che invidiosi gli altri cortigiani, tanto lo perseguitarono e calunniarono, che per supposta fellonia fu condannato a perpetuo carcere, ove morì di dolore. Uomo dotto in ogni genere di scienze, e specialmente nella giurisprudenza, seppe anche distinguersi nella poesia, come si rileva dai saggj qui impressi, ed i molti accreditati autori, che parlano di esso, tutti lo ricordano con molta lode.


IV. Guido Guinicelli
Cavaliere bolognese, e molto accreditato per la sua dottrina. La massima sua riputazione però gli viene dai suoi versi, per i quali fu nominato principe dei poeti del suo tempo, e tutti si accordano nell' altamente encomiarlo. Di fatto, la differenza tra le sue e le composizioni dei suoi contemporanei a prima vista si rende sensibilissima, quantunque gliscrittori non tutti gli diano l'epoca da noi qui ad esso assegnata. Il Crescimbeni lo mette all'anno 1220, il Quadrio al contrario lo porta fino al 1250, ed anche dopo, ed alla sua opinione inclina anche il Tiraboschi. Più delle riferite prove però, fondate sopra certi sonetti, che non si sa bene, se fossero effettivamente a lui diretti, mi persuadono i versi di Dante nel Purgatorio, ove con lui ragionando, parla di persona da lui conosciuta soltanto per alta fama, ed esistente quindi in una età non vicina alla sua. Che che ne sia, oscurissime e vaghe sono le notizie di questo poeta; ma oscuro non è il suo nobile e franco modo di poetare, che lo fa emergere luminosamente, e che ci fa scorgere qualche suo imitatore in un tempo anteriore a quello, che il Quadrio inclinato si mostra di volergli assegnare.


V. San Francesco d'Assisi
Nacque quest'ottimo servo di Dio nel 1182 da padre negoziante, e sì chiamò Giovanni Moriconi. Prese quindi il nome di Francesco, e rinunziando alla vita secolare ed alle paterne fortune nell'anno vigesimosesto dell'età sua, fondò quella religione, sotto il pontificato d'Innocenzo III, che dal suo nome fu detta dei Francescani, e ricco di virtù e di meriti morì d'anni 42 nel 1226, ottenendo due anni dopo morto dal papa Gregorio IX la sua canonizzazione. L'entusiasmo del divino amore rese questo Santo poeta, e quantunque il P. Ireneo Affò si affatichi di provare, che i suoi cantici sono pura prosa, da altri poi ridotta in una specie di poetico metro, certo si è nondimeno, che la famosa sua canzone detta del Sole, fu posta in musica ad uso del coro dal celebre suo compagno Fra Pacifico. D'altronde, qualora non si voglia ammettere una rifusione totale di quelle sue divine inspirazioni, ciò che non consta da alcun documento, io non saprei trovare un motivo legittimo per togliere a questo grand' uomo la fama di buon poeta; giacchè il trovare i suoi versi scritti nei codici antichi tutti di seguito come la prosa, può tutto al piò provare l'ignoranza o negligenza dei copisti.


VI. Federico II Imperatore
Nacque Federico in Palermo, altri vogliono in Jesi, da Enrico VI Imperatore, e da Costanza figlia di Ruggero re di Sicilia al 26 dicembre 1194. Fu coronato Imperatore in Roma al 15 dicembre 1220, e sostenuto dalla Santa Sede contro Marcovaldo nel possesso del regno dì Sicilia; ma dichiaratosi in seguito nemico della Chiesa, fu da varj Papi scomunicato, e finalmente da Innocenzo IV privato dell'Impero nel concilio di Lione al 21 giugno 1245. Morì quindi in Ferentino di Puglia al 13 dicembre del 1250 avvelenato, o come si pretende affogato in letto da Manfredo suo figlio bastardo.
Uomo d'alto ingegno coltivò e protesse molto le scienze e1e lettere, fondando Università, premiando largamente i dotti, e scrivendo egli stesso varie opere, ma distinguendosi specialmente con le sue poesie. Il Crescimbeni lo fa fiorire alquanto più tardi ; ma chi conosce le traversie ed inquietudini del suo procelloso regnare, troverà più probabile, che gli amorosi suoi versi siano figlj del la prima sua gioventù.


VII. Fra Guittone d' Arezzo
Guittone del Viva, cavaliere Gaudente, di patria aretino, detto comunemente Fra Guittone d'Arezzo, merita fra i poeti di questa età una menzione particolare, specialmente per avere perfezionato il sonetto, che per esso e dopo di esso acquistò un aspetto più nobile e più leggiadro. Non minori progressi fece con lui tutto il genere lirico in generale, come si rileva dalle molte rime, che in varie Raccolte di lui ci rimangono. Stimato egli fu quindi assai da' suoi coetanei, e preso per modello dai poeti a lui posteriori. Rivolse pure il suo studio a migliorare il decoro dell' italiana prosa, e di questo suo studio ci fanno fede alcune sue lettere volgari, pubblicate in Roma ed illustrate da monsignor Bottari nell'anno 1745.


VIII. Guido Delle Colonne
Giudice messinese, accreditato legale, e buon poeta. Le sue canzoni sono molto lodate da Dante, e chiamate tragiche, cioè sublimi. Viene ad esso attribuito il volgarizzamento dal Greco della Guerra trojana; ma la purgatezza soverchia dello stile fece mettere in dubbio questo suo merito, per cui anche l'Accademia della Crusca cita questo volga rizzamento come anonimo.


IX. Odo Delle Colonne
Ebbe comune col precedente e patria e famiglia, ma di qualche anno gli fu posteriore. Poche sono le notizie che abbiamo della sua vita, e pochi i versi che ci ha lasciato. Conosciuta è soltanto l'epoca sua, la riputazione da lui goduta per la sua dottrina, onde occupa un distinto posto nella Biblioteca degli scrittori siciliani.


X. Noffo d'Oltrarno
Noffo, cioè Arnolfo, della famiglia come si crede dei Bonaguida, fu notajo fiorentino, e prese il cognome da quella parte della città, che per essere di là dall'Arno dagli antichi fu detta Oltrarno, ove si era domiciliato. Oltre alle occupazioni della sua professione, dedicossi egli anche allo studio della volgar poesia, studio comune a tutti i begli ingegni del suo tempo, nel quale seppe procacciarsi non poca lode.


XI. Inghilfredi Siciliano
Di questo poeta sappiamo soltanto, che ebbe per patria Palermo, che visse ne' tempi dell'Imperatore Federico II, e che fu stimato dai suoi contemporanei per i suoi versi. Molti autori lo ricordano vantaggiosamente, ed il Trissmo si prevale della di lui autorità nella sua Poetica.


XII. Enzo Re di Sardegna
Enzo, cioè Enrico, figlio naturale di Federico II. Imperatore, e di Bianca Lanza di Monferrato, nacque in Palermo nell'anno 1225. Dedicatosi intieramente alla guerra, riusci nel 1239 di soggiogare la Sardegna, per cui il padre lo dichiarò re di quell'isola. Ora siccome la Santa Sede sosteneva sopra quel dominio delle pretensioni, così non volendo Enzo riconoscersi suo dipendente, fu da Papa Gregorio IX scomunicato; per cui invasi essendo da esso gli Stati ecclesiastici, fu sconfitto nel 1249 presso Modena, e condotto prigioniero a Bologna, ove morì nel 1271. In mezzo alle continue agitazioni delle sue bellicose vicende seppe egli trovare il tempo d'applicarsi anche agli ameni studj, onde annoverato viene tra i primi padri della nostra poesìa, forma testo di lingua, ed è ricordato con vantaggio dal Bembo, dal Trissino, e da varj altri autori.


XIII. Saladino di Pavia
Sappiamo di questo scrittore, che fu pavese, che si distinse nella poesia volgare, che fiorì in quest'età, e non altro. La sua lingua fa testo, ed i suoi versi fino a noi pervenuti meritare gli fanno la nostra stima.


XIV. Gallo Pisano
Di questo poeta nulla si può dire di preciso, riportatici essendo i suoi versi sotto i nomi anche di Galletto, di Galasso, ec., che da alcuni attribuiti vengono a lui solo, da altri a diversi rimatori pisani. In ogni modo le poesie da noi qui date sotto questo nome appartengono sicuramente a quest'epoca, e meritano d' esser lette.


XV. Rinaldo d'Aquino
Nativo del paese, di cui si noma, e forse della nobilissima famiglia napolitana, che porta questo cognome. Fiori egli alla metà di questo secolo, e Dante ed il Trissino lo considerano egualmente come uno dei primi e più illustri padri della nostra poesia.


XVI. Meo Abbracciavacca
Di patria pistojese, nominato viene nell'indice dell'Allacci Braccio Vacca; non bisogna però fidarsi delle sue denominazioni, perchè questo greco raccoglitore le ha spesso sbagliate. Gli si deve però la gloria di buon poeta toscano, e contribuì non poco ad arricchire e migliorare la nostra favella. Manoscritte si trovano molte delle sue rime, ma poche pubblicate fin' ora ne furono con la stampa.


XVII. Lapo Gianni
Anche questo chiamato viene dagli autori ora Lapo Giannini, ora Giovanni Lapo, ora Lapo Zanni. Un fatto si è, ch'egli fu notajo fiorentino, che visse con fama di buon poeta dopo la metà di questo secolo, e che fu uno dei primi a rendere sulle tracce di fra Guittone alquanto più elegante il nostro sonetto. Non intendo però come il Muratori abbia potuto indursi a crederlo posteriore d'un secolo, giacchè pochissimo intendimento basta per riconoscere in esso quel carattere d'antichità, che tanto sensibilmente distingue i poeti della prima epoca.


XVIII. Pucciandone Martelli
Seguì anche questo poeta le tracce di fra Guittone nell' elaborare isonetti, servendosi però molto del suo dialetto pisano, specialmente coll' adoperare alternativamente ed indifferentemente la s per la z, e viceversa. Comprendere nondimeno si deve anch'esso nella classe dei fondatori della nostra poesìa.

 
 
 

Paolina Secco Suardo

Le Alpi

Sembran da lungi questi monti un folle
stuol di Giganti al ciel pronti a far guerra,
e tanto il capo loro alto si estolle
quanto il regno di Stige entra sotterra;

Qui Febo indarno appar, che render molle
mai non può il ghiaccio, che circonda, e serra
le alpestri roccie, onde le nubi attolle
Eolo, e i suoi venti, e i turbini disserra;

Qui il misero Alpigian le sue fatiche
piange deluse, nè mai giugne raggio
di Sole estivo a maturar le spighe;

Un muto orror qui regna, e sol pel cieco
sen delle valli s’ aprono il viaggio
gonfi torrenti, che mugghiar fan l' Eco.

Contessa Paolina Secco Suardo Grismondi
Parnaso Italiano dell'anno 1784, o sia Raccolta di poesie scelte di autori viventi. A spese della Società Enciclopedica di Bologna, pag. 78



Mentre questa a me cara eletta sede

Mentre questa a me cara eletta sede
i guardi miei per ogni parte invita
a vagheggiar superbe opre, cui diede
pennello creatore e moto e vita;

E or miro Europa, che per l' onde vede
fuggir la patria Terra, e che smarrita
del Toro mentitor sul dorso chiede
con alte strida a' sordi flutti aita;

Or ravvisa colei, che d‘ aspro duolo
cagion fu a Troia, e or d’ Ettore infelice
le membra veggo insanguinre il suolo;

Emula anch' io vorrei ..., ma indarno tento
La ricusante cetra, a cui sol lice
di mie pene in amor farsi argomento.

Contessa Paolina Secco Suardo Grismondi
Parnaso Italiano dell'anno 1784, o sia Raccolta di poesie scelte di autori viventi. A spese della Società Enciclopedica di Bologna, pag. 78

 
 
 

Francesco Maria Molza 3

XVI

Di M. Francesco Maria Molza

21

È pur caduta la tua gloria, ahi lasso,
Per quel ch’io odo, Amore, e ’l tuo bel regno
Freddo rimaso e del maggior suo pegno,
Quel che mai non credei, spogliato e casso.

Mentre ella qui fra noi con saldo passo
Il mondo, che d’averla non fu degno,
Rallegrò di sua vista, chiaro segno
Ebbe il mio stile, or sì dimesso e basso.

Però s’io parlo in rime fosche e scure
La colpa è pur di lei, poiché morendo
Portato s’ha di me la miglior parte.

Dura legge e crudel ch’altri ne fure
Sempre il migliore; io per me, Febo, appendo
A questo sasso con la cetra l’arte.


22

Torna, Amore, a l’aratro, e i sette colli,
Ov’era dianzi il seggio tuo maggiore,
Spogliato e nudo del sovran suo onore,
Fuggi con gli occhi di duol gravi e molli.

O speranze fallaci, o pensier folli !
Morta è colei sul bel giovenil fiore
Che ad alta speme apriva ogni umil core;
Taccio di me che sole altro non volli.

Dunque, miser, la stiva in vece d’arco
Usar potrai, e in panni vili avolto
Fender co’ bovi le campagne intorno;

Ch’ella giungendo a l’ultimo suo varco
Ogni atto vago estinse, e a te fu tolto
L’usato ardire: o benedetto giorno!


23

Qual vaghezza o furor ti prese, o Morte,
Quando la man stendesti nel bel crine,
Forse per por tante bellezze al fine
E far le glorie invidiando corte?

Prima averrà che ’l sole il giorno apporte
A noi dal fosco occidental confine,
E sfaccia il fango e ’nduri le pruine,
Ch’elle sian mai per nessun tempo morte.

Il suo sembiante non ch’a i giorni nostri
Ne i petti viva, in or sì bella e ’n marmi
Vedrà Faustina ancor più d’una etade,

E i miglior fabbri di lodati inchiostri
L’han fatto statua d’altre carte, e ’n marmi
È sacra al tempio dell’eternitade.


24

Qual si vede cader dal ciel repente
Lucida stella ne l’estivo ardore,
Tal cadendo ha ciascun colmo d’orrore
Quel sol ch’ogni fredd’alma fece ardente.

Oggi la beltà è morta, oggi son spente
Le faci ove le sue già accese Amore,
Oggi, reciso d’ogni grazia il fiore,
Pari il mondo al suo fin ruina sente.

Ne i diversi anni il duol non vario appare,
L’un sesso e l’altro un danno istesso preme,
E risuona MANCINA in ogni canto.

I giovan saggi e le donzelle rare,
Lei sospirando sol, le danno insieme
Queste d’onesta e quei di bella il vanto.


25

Alma, che già ne la tua verde etade
Meco di dolce e chiaro foco ardesti,
E me seguendo i spirti e i sensi desti
A chi n’afflige or sol in libertade,

Pon mente da le belle alme contrade
Come son volti in rei i modi onesti,
Fatti al ben pigri ed al contrario presti,
E vincati di me qua giù pietade.

Salutami ’l buon MARCO e ’l MOZZARELLO,
Il COTTA e tutto quel ben nato coro
Che teco alberga a l’amoroso giro;

Digli ch’al viver mio turbato e fello
Pace li cheggio, e costà su fra loro
Breve udienza a qualche mio sospiro.


26

Signor, se a gli onorati e bei desiri,
Cui dietro siete altieramente volto,
Fortuna mai non cangi o turbi il volto,
E ’l ciel cortese ogni suo lume giri,

E se chi tanto de gli altrui martiri
Si pasce, e de’ miei più, che brama or molto,
Al dir vostro d’amor leggiadro e colto
Grazia e dolcezza eternamente spiri,

De l’essilio infelice e de’ miei fieri
Sospir v’incresca, ond’ho quest’aer pieno,
Che lieto dianzi le mie rime udiva,

E fra suoi lauri vincitori altieri
Serpa di mirto un ramoscello almeno,
D’aver servato chi d’amor periva.


27

Se ’l sol tra quanto ’l suo bel carro gira
Non vide ancor in questo secol vile
Sembianza al suo Fattor tanto simile
Quanto la vostra, ond’a ben far s’aspira,

Frenate, io prego, omai gli sdegni e l’ira,
Di lui seguendo ’l ben lodato stile,
Che mai non sprezza chi si pente umile
E in brieve adietro ogni furor suo tira,

E sì come è di cuor tenero e piano
Per essempio di noi, ch’acciò n’invita,
Sempre ha la mente al perdonar rivolta:

Dunque porgete al gran disio la mano,
Che sol di voi ragiona, e date aita
A l’alma che peccò sol una volta.


28

Poi ch’al voler di chi nel sommo Regno
Siede Monarca e tempra gli elementi
Troncar le fila a me par che ritenti
L’invida Parca, e già di ciò fa segno,

Tu che vedi il mio male aspro ed indegno,
TRIFON mio caro, e grave duol ne senti,
Tosto che i giorni miei saranno spenti
E fuor di questo mar sorto ’l mio legno,

Di queste note per l’amore antico
Farai scrivendo a le fredd’ossa onore,
Col favor ch’a te sempre Apollo aspira:

Qui giace il MOLZA delle Muse amico;
Del mortal parlo, perch’il suo migliore
Col gran MEDICO suo or vive e spira.



29

Signor, se miri a le passate offese,
A dir il vero ogni martire è poco,
S’al merto di chi ognor piangendo invoco,
Troppo ardenti saette hai in me distese.

Ei pur per noi umana carne prese,
Con la qual poi morendo estinse il foco
De’ tuoi disdegni, e riaperse il loco
Che ’l nostro adorno mal già ne contese.

Con questa fida ed onorata scorta
Dinanzi al seggio tuo mi rappresento
Carco d’orrore e di me stesso in ira.

Tu pace al cor, ch’egli è ben tempo, apporta,
E le gravi mie colpe, ond’io pavento,
Nel sangue tinte del figliuol tuo mira.


30

DOLCE, quel benedetto foco ardente,
Di cui voi prima Amor arse molt’anni,
M’incende l’alma or sì che, de’ suoi inganni
Fatta sol vaga, in quel morir consente;

E benché ognor più calda e più cocente
Senta la fiamma sì che de’ suoi danni
Sazia divien, ne gli amorosi affanni
De l’arder suo doppia dolcezza sente:

Che dal splendor del bel viso sereno,
Che neve e rose avanza, e da le care
Dolci parole piovve il santo ardore;

Onde d’alto desir acceso e pieno
Pago rimane, e ben potria infiammare
Qual più freddo crudel barbaro core.

Francesco Maria Molza
Da: Rime diverse di molti Eccellentissimi Autori (a cura di Lodovico Domenichi - Giolito 1545)

 
 
 

Francesca Roberti Franco

Il Bivio

L' ampia sparsa di fior strada io battèa
coronata di rose in vago ammanto,
e il mondo in atto lusinghier porgea
alle mie luci ogni più vago incanto.

Glorie, pompe, piacer lieto spargea
con larga mano a me d’ intorno, e intanto
mesto il mio cor dentro di me gemea,
e dagli occhi m’ uscia furtivo il pianto.

Dunque io dissi tra me: son gioje false
queste, che il mondo ingannator mi dona,
se la pace tra lor ricerco invano,

Quinci un forte divino estro m’ assalse,
e la fresca stracciai rosea corona,
e ratta uscii dal bel fiorito piano.

Contessa Francesca Roberti Franco
Parnaso Italiano dell'anno 1784, o sia Raccolta di poesie scelte di autori viventi. A spese della Società Enciclopedica di Bologna, pag. 176



Io ratta uscii dal bel fiorito piano,

Io ratta uscii dal bel fiorito piano,
e stanca in chiusa valle mi posai
chiamando il tempo già perduto invano,
e traendo dal cor sospiri, e lai.

Gli occhi poi volsi, e vidi un erto e strano
calle folto di spine, e gineprài,
e udii voce suonar: or quel dovrai
franca salir, che abborre il mondo insana.

Sorgo, e incomincio con incerti passi
l’ intralciato sentier tra dumi e bronchi,
e lieto respirar sento il cor mio.

Agra soave riconforta i lassi
miei spirti, e inciso in su gli alpestri tronchi
veggo: questo è il cammin, che guida a Dio.

Contessa Francesca Roberti Franco
Parnaso Italiano dell'anno 1784, o sia Raccolta di poesie scelte di autori viventi. A spese della Società Enciclopedica di Bologna, pag. 177



Il Giudizio universale

Oh! qual mi scorre tetro orror per l' ossa,
qual gelido spavento il cor m’ ingombra,
qualor ripenso quell’ orrida fossa,
che in se mi chiuderà fatta nud’ ombra.

E più mi sento allor l’ anima scossa,
che il dì tremendo il mio pensiero adombra,
giorno , in cui mostrerà l’alta sua possa
Giustizia irata di ritegni sgombra.

Ah già mi suona al cor l’ orribil tromba
e di me che sarà, se il passo io varco,
e se adesso il tuo mal mi punge, o Morte?

O salutar terror, fido alla tomba
mi segui, e passerà di tema scarco
dal suo seno il mio spino a lieta sorte.

Contessa Francesca Roberti Franco
Parnaso Italiano dell'anno 1784, o sia Raccolta di poesie scelte di autori viventi. A spese della Società Enciclopedica di Bologna, pag. 178

 
 
 

Orsatto Giustiniano

Quando per darmi Amor qualche ristoro

Quando per darmi Amor qualche ristoro
Sforza pietà de le mie lunghe pene,
Quell’empia e cruda e lieta a por si viene
Or ne' begli occhj, or ne le chiome d‘ oro.

Io che la sua beltade in terra adoro,
Sento a sì dolce fin giunger mia spene,
Che forse ugual piacer prese non tiene
L’ alme beate nel Celeste coro:

E dal diletto allor vinto io morrei,
Se non ch'ei tosto a mia salute intende,
Celando quel bel volto a gli occhj miei.

Così mentre or mel mostra, or mel contende,
Dove corto piacer morendo avrei,_
La gioja in lungo e la mia Vita stende.



O forse per dolor tacita e mesta


O forse per dolor tacita e mesta
Cetra, che già d’ Irene al dolce canto
Temprata fosti, or qual più lode e vanto
Misera, morta lei, sperar ti resta?

O stil, con cui sua mano a gloria desta
Sì ben pingendo a l’arte aggiunge tanto,
Qual fia che pregio a te renda altrettanto,
S’al mondo un nuovo Apelle il ciel non presta?

O liti d’Adria, o Amor, o muse, e voi
In qual duol rimanete, il lume spento
Del chiaro ingegno e de' begli occhj suoi?

O ciel, tu ch’ or di lei godi contento,
Qual alma diè, salendo, a' premj tuoi,
A te più gioja, a noi maggior tormento?



Occhj, perché si lieti oltre l'usato

Occhj, perché si lieti oltre l'usato
Siete, se pianto sol piacer vi suole?
Perchè tosto vedremo il nostro sole
Da noi si lungamente in van bramato.

Orecchie, a che delir tanto v’ è, nato
Di vostre parti usar? Perché Amor vuole
De le soavi angeliche parole
Facei tosto messagge al cor beato.

Piedi, ond'è che si pronto avete il passo?
Perché n' andremo a quelle luci sante,
Ch'avrian virtù di far movere un sasso.

Ma tu, cor, perchè vai così tremante
A‘ tanta gioja? Perch’io temo, lasso,
Di perir per dolcezza a lei davante.

Orsatto Giustiniano
Parnaso Italiano, Volume 32, Venezia, 1786, pag. 146

 
 
 

Dell'età prisca o dell'età...

Dell'età prisca o dell'età presente

Dell'età prisca o dell'età presente
Quanto pregio e valor la Fama spande,
Quanto chiuder si puote in saggia mente
D'eccelso, di magnanimo, e di grande,

Tutto nel mio Signore alteramente
Splendea fra mille di virtù ghirlande,
Sicch'era al fior della Romulea gente
Specchio, e stupore appo l'estranie bande.

Quindi morte, lo sguardo in lui rivolto,
Arse d'invidia, e col fatal suo gelo
Corse veloce a scolorirgli il volto.

Ma fuor dell'ombra del mortal suo velo
Tal fiammeggiò lo spirto in sé raccolto,
Che tutto empié di meraviglia il Cielo.

Prudenza Gabrielli Capizucchi (in Arcadia: Elettra Citeria)
Tratto da "Rime degli Arcadi", Volume 3°, Roma, per Antonio Rossi alla Piazza di Ceri, 1716 (Sonetto 187: Per la morte del Conte mio Marito.)

 
 
 

Il Novellino 8-15

Post n°1956 pubblicato il 29 Agosto 2015 da valerio.sampieri
 

Il Novellino

LE CIENTO NOVELLE ANTIKE

LIBRO DI NOVELLE
ET DI BEL PARLAR GENTILE

LE CIENTO NOVELLE ANTIKE
[1525]

Questo libro tratta d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be' risposi e di belle valentie e doni, secondo che, per lo tempo passato, hanno fatti molti valenti uomini.

VIII

Come uno figliuolo d'uno re donò un re di Siria scacciato.

Uno signore di Grecia, lo quale possedea grandissimo reame ed avea nome Aulix, avea uno suo giovane figliuolo, al quale facea nodrire ed insegnare le sette arti liberali, e facèali insegnare vita morale, cioè di be' costumi. Un giorno, tolse questo Re molto oro e diello a questo suo figliuolo, e disse: - Dispendilo, come ti piace. - E comandò a' baroni, che non l'insegnassero spendere; ma solamente avvisassero il suo portamento e 'l modo ch'elli tenesse. I baroni, seguitando questo giovane, un giorno  stavano con lui alle finestre del palagio. Il giovane stava pensoso. Vide passare per lo cammino gente assai nobile, secondo l'arnese e secondo le persone. Il cammino correa a piè del palagio: comandò questo giovane, che fossero tutte quelle genti menate dinanzi da lui. Fue ubbidita la sua voluntade, e vennero i viandanti dinanzi da lui. E l'uno, ch'avea lo cuore più ardito e la fronte più allegra, si fece avanti e disse: - Messere, che ne domandi? - Il giovane rispose: - Domàndoti, onde se' e di che condizione. - Ed elli rispose: - Messere, io sono d'Italia, e mercatante. Sono molto ricco, e quella ricchezza ch'io ho, non l'ho di mio patrimonio, ma tutta l'hoe guadagnata di mia sollecitudine. - Il giovane domandò il seguente, il quale era di nobili fazioni e stava con peritosa faccia, e stava più indietro che l'altro. E non così arditamente, quelli disse: - Che mi domandi, messere? - Il giovane rispose: - Domàndoti, donde se' e di che condizione. - Ed elli rispose: - Io sono di Siria e sono re: ed ho sì saputo fare, che li sudditi miei m'hanno cacciato. - Allora il giovane prese tutto l'oro e diello a questo scacciato. Il grido andò per lo palagio. Li baroni e cavalieri ne tennero grande parlamento, e tutta la corte sonava della dispensagione di questo oro. Al padre furono raccontate tutte queste cose, e le domande e le risposte, a motto a motto. Il re incominciò a parlare al figliuolo, udenti molti baroni, e disse: - Come dispensasti? Che pensiero ti mosse? Qual ragione ci mostri, che a colui, che per sua bontà avea guadagnato, non desti, ed a colui, ch'avea perduto per sua colpa e follia, tutto desti? - Il giovane savio rispose: - Messere, non donai a chi non mi insegnòe, né a neuno donai; ma ciò ch'io feci, fu guidardone e non dono. Il mercatante non m’insegnò neente; non li era neente tenuto. Ma quelli che era di mia condizione, figliuolo di re e che portava corona di re, il quale per la sua follia avea sì fatto che i sudditi suoi l'aveano cacciato, m'insegnò tanto, che i sudditi miei non cacceranno me. Onde picciolo dono diedi a lui, di così ricco insegnamento. - Udita la sentenzia del giovane, il padre e li suoi baroni il commendaro di grande sapienzia, dicendo che grande speranza ricevea della sua giovinezza, che, nelli anni compiuti, sia di grande valore. Le lettere corsero per li paesi, a signori ed a baroni, e fùronne grandi disputazioni tra li savi.



IX

Qui si ditermina una questione e sentenzia, che fu data in Alessandria.

In Alessandria, la qual è nelle parti di Romania (acciò che sono dodici Alessandrie, le quali Alessandro fece il marzo, dinanzi ch'elli morisse), in quella Alessandria sono le rughe, ove stanno i saracini, li quali fanno i mangiari a vendere. E cerca l'uomo la ruga, per li piùe netti mangiari e più dilicati, sì come l'uomo, fra noi, cerca de' drappi. Un giorno di lunedì, un cuoco saracino, lo quale avea nome Fabrac, stando alla cucina sua, un povero saracino venne alla cucina, con uno pane in mano. Danaio non avea, da comperare da costui. Tenne il pane sopra il vasello, e ricevea il fumo, che n'uscia. E inebriato il pane del fumo, che n'uscia del mangiare, e quelli lo mordea, e così il consumò di mangiare. Questo Fabrac non vendèo bene, questa mattina. Recolsi a ingiuria ed a noia, e prese questo povero saracino e disseli: - Pagami di ciò, che tu hai preso del mio! - Il povero rispose: - Io non ho preso della tua cucina, altro che fumo. - Di ciò c'hai preso del mio, mi paga, - dicea Fabrac. Tanto fu la contesa che, per la nova quistione e rozza e non mai più avvenuta, n'andaro le novelle al Soldano. Il Soldano, per molta novissima cosa, raunò savi e mandò per costoro. Formò la quistione. I savi saracini cominciaro a sottigliare. E chi riputava il fumo non del cuoco, dicendo molte ragioni: - Il fumo non si può ricevere, e torna ad alimento, e non ha sostanzia, né proprietade che sia utile: non dee pagare. - Altri dicevano: Lo fumo era ancora congiunto col mangiare; era in costui signoria e generavasi della sua propietade. E l'uomo sta per vendere di suo mestiero, e chi ne prende, è usanza che paghi. - Molte sentenzie v'ebbe. Finalmente fu il consiglio: - Poi ch'elli sta per vendere le sue derrate, tu ed altri per comperare, - dissero, - tu, giusto signore, fa’ che 'l facci giustamente pagare la sua derrata, secondo la sua valuta. Se la sua cucina che vende, dando l'utile propietà, di quella suole prendere utile moneta; ed ora c'ha venduto fumo, che è la parte sottile della cucina, fae, signore, sonare una moneta, e giudica che 'l pagamento s'intenda fatto del suono, ch'esce di quella. - E così giudicò il Soldano che fosse osservato.



X

Qui conta d'una bella sentenzia, che diè lo Schiavo di Bari tra uno borghese ed uno pellegrino.

Uno borghese di Bari andò in romeaggio, e lasciò trecento bisanti a un suo amico, con queste condizioni e patti: - Io andrò, sì come a Dio piacerà, e, s'io non rivenissi, daràli per la anima mia; e s'io rivegno a certo termine, daràmene quello che tu vorrai. - Andò il pellegrino in romeaggio; rivenne al termine ordinato e raddomandò i bisanti suoi. L'amico rispuose: - Conta il patto. - Lo romeo lo contò a punto. - Ben dicesti, - disse l'amico. - Te': dieci bisanti ti voglio rendere; i dugento novanta mi tengo. - Il pellegrino cominciò ad irarsi, dicendo: - Che fede è questa? Tu mi tolli il mio falsamente! - E l'amico rispose soavemente: - Io non ti fo torto e, s'io lo ti fo, sianne dinanzi alla signoria. - Richiamo ne fue. Lo Schiavo di Bari ne fu giudice: udìo le parti, formò la quistione. Onde nacque questa sentenzia, e disse così a colui che ritenne i bisanti: - Rendi i dugento novanta bisanti al pellegrino, e 'l pellegrino ne dea a te dieci, che tu li hai renduti; però che 'l patto fue tale: «Ciò che tu vorrai, mi renderai». Onde i dugento novanta ne vuoli, rèndili, e i dieci che tu non volei, prendi.



XI

Qui conta come maestro Giordano fu ingannato da un suo falso discepolo.

Uno medico fu, lo quale ebbe nome Giordano, il quale avea uno discepolo. Infermò uno figliuolo d'uno Re. Il maestro v'andò e vide che era da guarire. Il discepolo, per tòrre il pregio al maestro, disse al padre: - Io veggio ch'elli morrà certamente. - E contendendo col maestro, sì fece aprire la bocca allo 'nfermo, e col dito stremo li vi puose veleno (mostrando molta conoscensa) in sulla lingua. L'uomo morìo. Lo maestro se n'andò e perdèo il pregio suo, e 'l discepolo li guadagnò. Allora il maestro giurò di mai non medicare, se non asini, e fece la fisica delle bestie e di vili animali.



XII

Qui conta dell'onore, che aMinadab fece al re David, suo naturale signore.

Aminadab, conducitore e mariscalco del re David, andò con grandissimo esercito di gente, per comandamento del re David, ad una città de' Filistei. Udendo Aminadab che la città non si potea più tenere e che l'avrebbe di corto, mandò al re David, che li piacesse di venire all'oste con moltitudine di gente, perché dottava del campo. Il re David si mosse incontanente, ed andòe nel campo Aminadab, suo mariscalco. Domandòe: - Perché mi ci hai fatto venire? - Aminadab rispose: - Messere, però che la città non si può tenere più, ed io volea che la vostra persona avesse il pregio di così fatta vittoria, anzi che l'avessi io. - Combattèo la città e vinsela, e lo pregio e l'onore n'ebbe David.



XIII

Qui conta come Antinogo riprese Alessandro, perch'elli si faceva sonare una cetera a suo diletto.

Antinogo, conducitore d'Alessandro, facendo Alessandro uno giorno, per suo diletto, sonare (il sonare era una cetera), Antinogo prese la cetera e ruppela e gittolla nel fango, e disse ad Alessandro cotali parole: - Al tuo tempo ed etade si conviene regnare, e non ceterare. - E così si può dire: «Il corpo è regno; vil cosa è la lussuria, e quasi a modo di cetera». Vergògnisi, dunque, chi dee regnare in vertude, e dilettasi in lussuria. Re Porro, il quale combatté con Alessandro, a un mangiare fece tagliare le corde della cetera a un ceteratore, e disse queste parole: - Meglio è tagliare che sviare; ché, a dolcezza di suono, si perdono le vertudi.



XIV

Come uno re fece nodrire uno suo figliuolo dieci anni, in luogo tenebroso, e poi li mostrò tutte le cose e più li piacque le femine.

A uno Re nacque un figliuolo. I savi strologi providero che s'elli [non] stesse anni dieci che non vedesse il sole, [che perderebbe lo vedere]. Allora il fece notricare e guardare in tenebrose spelonche. Dopo il tempo detto, lo fece trarre fuori ed innanzi a lui fece mettere molte belle gioie e di molte belle donzelle, tutte cose nominando per nome, e dèttoli le donzelle essere domòni. E poi li domandaro, quale d'esse li fosse più graziosa. Rispose: - I domòni. - Allora lo Re di ciò si maravigliò molto, dicendo: - Che cosa è tirànnia e bellore di donna!



XV

Come uno rettore di terra fece cavare un occhio a sé ed uno al figliuolo, per osservare giustizia.

Valerio Massimo, nel libro VI. narra che Calogno, essendo rettore d'una terra, ordinò che, chi andasse a moglie altrui, dovesse perdere li occhi. Poco tempo passante, vi cadde uno suo figliuolo. Lo popolo tutto li gridava misericordia; ed elli, pensando che misericordia era così buona ed utile, e pensando che la giustizia non volea perire, e l'amore de' suoi cittadini, che li gridavano mercè, lo stringea, providesi d'osservare l'uno e l'altro, cioè giustizia e misericordia. Giudicò e sentenziò, ch'al figliuolo fosse tratto l'uno occhio ed a sé medesimo l'altro.

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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