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Messaggi di Luglio 2015

A Reggina

Post n°1883 pubblicato il 31 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 
Foto di valerio.sampieri

A Reggina

Stamm'a sentì: Sei tanto bella, è vero,
però co' me sei stata troppo finta:
tu nun m'hai dato mai 'n bacio sincero,
tu nun me l'hai vorzuta dà mai vinta!

Sarai più bella della «Bella Otero»
ma tenghi er core duro! e de che tinta!
perchè t'ho amato! e tu sei stata grinta
da disprezzamme tanto!... core nero!...

E ortre a questo, poi m'hai canzonato,
e mo voi che te sposo?.. Sì!... mo viè!
e che vojoesse un becco appatentato?

Cara Reggina mia, sei bella... bona...
perciò si te sposavo mò ero u' Re
ma in testa mia ce stava la corona!!

Antonio Camilli
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 11

 
 
 

De claris mulieribus 15

Post n°1882 pubblicato il 31 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

CAPITOLO XV.
Isifile, Reina di Lenno.

Isifile fu famosa donna sì per la pietà che ella ebbe verso suo padre, come per lo suo esilio, e per la morte di Archemore nutricato da lei, e per l’ajutorio dei figliuoli trovato in opportuno tempo. Questa fu figliuola di Toante, re di Lenno, il quale regnava in quel tempo, nel quale alle donne di quell’isola entrò la furia di trarre lo non domato collo dal servigio degli uomini. Dispregiata la signoria del vecchio Toante, con Isifile vennero a questa deliberazione d’un animo, che la notte seguente elle uccidessero tutti i maschi: e non mancò effetto al proponimento. E certo, essendo tutte crudeli l’altre, Isifile fece più pietosa deliberazione; perchè pensando cosa inumana bruttar del sangue del padre suo, manifestò a suo padre lo peccato dell’altre: e messo lui in nave, perchè egli fuggisse a Chio incontanente, per fuggire la comune ira delle altre, fatto un grandissimo fuoco, finse fare l’ultimo servigio al padre. La qual cosa essendo creduta da tutte, e essendo posta nella sedia del padre; in luogo di quello fu sostituita reina delle malvage femmine. È certamente santissima la pietà dei figliuoli verso i padri. E quale cosa è più laudabile, che rendere con umanità, e con onore la sua vicenda a quegli dai quali, essendo piccoli, noi ricevemmo nutrimento, con sollecitudine siamo stati guardati, e con continuo amore siamo condotti in perfetta età, e siamo ammaestrati di costumi e di dottrina, e ancora magnificati di onori e di ricchezze, e siamo validi per li costumi e per lo ingegno? certamente niuna. Le quali cose essendo date da Isifile con sollecitudine a suo padre, non senza cagione ella è aggiunta alle nobili donne. Dunque, regnando quella, o che fosse menato per fortuna di venti, o che egli v’andasse deliberatamente, Giasone andando a Coleo cogli Argonauti arrivò a quell’isola; e facendo resistenza le donne indarno, pigliò quel luogo, e dalla reina fu ricevuto in casa, e a suo matrimonio. Dal quale poichè partì, ella partorì due figliuoli, i quali per la legge di quelle di Lenno, secondo che piace ad alcuno, comandò che fossero portati via a Chio a suo padre che gli nutricasse. Per la qual cosa, saputo che ella avea salvato il padre, levarono lo romore contro a quella, perchè avea ingannate l’altre: e appena entrata in nave campò dal comun furore, e andando a suo padre e a’ suoi figliuoli, fu presa da’ corsari, e fatta serva. Dopo molte fatiche fu donata a Licurgo, re di Nemea; e fu posta a guardia di un suo figliuolo dal re, il quale era piccolo fanciullo chiamato per nome Ofelte. La quale guardando quello, passando per lo paese Adrasto re con l’oste, il quale periva per sete andando con quell’esercito a Tebe, e pregando, quella mostragli la fontana, lasciando lo piccolo figliuolo che nutricava tra fiori in un campo: e domandò Adrasto che gli contasse la sua passata fortuna. Ella fu conosciuta da Enone e Toante, suoi figliuoli già cresciuti, e già della milizia del re; e dirizzata nella speranza di miglior fortuna, trovato lo fanciullo che ella nutricava morto, giuocando egli fra l’erbe, per lo sbattere di una coda di serpente, poco meno turbò tutta l’oste col pianto; dalla quale oste e dai quali figliuoli ella fu tolta a Licurgo, il quale furiava per lo dolore, e fu difesa dalla fortuna e dalla morte non so come fatto.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 

Campagna romana

Foto di valerio.sampieri

Campagna romana
(Istantanea)

Er sole scotta, e in tutta La pianura
Nun c'è rumore; solo a l'arberata
Canteno le cicale e er canto dura
Noioso in fin che more la giornata

Passeno su la strada imporverata
Du' butteri; 'na donna, in que' l'arsura
Se n'aritorna giù a 'la trebbiatura
A riportà er chinino a 'n'ammalata.

Un gruppo de cavalli ar fontanile
Se so fermati pe' la gran callaccia
E un cane dorme a l'ombra d'un fienile.

E tra er silenzio, là, dove la tera
Produce solo che malaria e erbaccia
Passa er diretto via de gran cariera.

Antonio Camilli
Giugno, 1904
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 3

 
 
 

Manco Bbrega e Ccacini!

Post n°1880 pubblicato il 31 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Manco Bbrega e Ccacini!

Guarda l'affari de Maria Cazzetta!
E mmanco se po' ddì chissenefrega:
adesso, mó, chi ppaga, paga Bbrega?
E mmó come la metti 'na pezzetta?

Quanno che 'r guajo è ffatto, li casini
mica è ssicuro che li pôi aggiustà;
'na cosa sgangherata resterà,
che nnu' riparerà manco Cacini.

Si ttutto va ccosì, che pposso fatte?
Si ce penzi, a la fine de li ggiochi,
le cose de la vita só' 'n po' mmatte.

Qualunque cosa bbella te se rompa,
quanno che li rimedi paron pochi,
resta che ppô' sartà solo chi zzompa.

Valerio Sampieri
30 luglio 2015

Note (i numeri indicano il verso):
3. L'affari de Maria Cazzetta = affari che comportano soltanto una remissione. 2. Paga Brega = Non pagherà nessuno; Brega è un personaggio immaginario che, quindi, mai potrà fare ciò che è necessario. 8. Cacini = Cacini era una famoso attore di varietà e trasformista dei primi del '900; spesso ironicamente, "Chi sei? Cacini?" è usato per dire "Ma cosa credi? Di saper fare tutto?". 14. Sartà solo chi zzompa = lo farà solo chi se lo può permettere; in pratica nessuno; bisogna saper accettare, nel bene e nel male, ciò che la vita ci offre.

 
 
 

Fotografia d'amore II.

Fotografia d'amore

II.

E quanno vedo un'operajo, un guitto,
Pallido, senza pane e senza tetto,
Piagneno 'st'occhi, me se strazzla er petto.
Rimano muto, sconsolato, affritto...

E penso che a 'sto monno è un gran delitto
A nun levà le pene ar poveretto
Che soffre, mentre e' ricco maledetto
Vorebbe che se stasse sempre zitto.

E vedo co' la mente in lontananza
Un'arba bella piena de maggia
Assieme a' la giustizzia e la speranza,

E io 'ste care immagine d'amore
Ce l'ho fotografate a meravìa
Drento quest'occhi pieni de dolore!

Antonio Camilli
Giugno, 1904
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 2

 
 
 

Fotografia d'amore I.

Fotografia d'amore

L'occhi so' lo specchio der core.

Quest'occhi mii ripieni de dolore
- Forse voi ve farete maravia -
So machinette de fotografia
Che le fa aggi un fotografo: l'amore.

De fatti si pe' caso in d'una via
Vedo 'na picchia bella come un fiore,
Doppo che quella se n'è annata via
Sento che s'è stampata qui ner core.

E la vedo co' l'occhi de' la mente,
Così pe' giorni interi e settimane
E ritrattino suo ce l' ò presente.

Tra tante, c'è una bella ma cattiva,
Che me negò l'amore; e m'arimane,
De lei, sortanto che la negativa!

Antonio Camilli
Giugno, 1904
Tratto da: Poesie Romanesche, Roma, Tipografia Industria e Lavoro, 1906, pag. 1

 
 
 

Nu' sbomballà!

Post n°1877 pubblicato il 30 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Nu' sbomballà!

Quanno ch'areggi 'r fiato co' li denti,
dovressi de restacce bbene attenta;
la diggnità vô' ffà che nnun se senta
er tuo dolore co' li tui lamenti.

Si cquesto vale quanno stà' 'mmorì,
è lloggico che nnun ce só' eccezzioni,
perciò nun devi rompe li cojoni,
schiatta felice e nun te fà sentì.

Sallàzzero che sei quanno sei vivo,
tu resterai pe' sseme de patata,
si nnu' la smetterai d'esse cattivo.

Si 'nvece stai de llà più cche de cqua,
t'aiuto certo a ffà la traversata,
si nu' la smetti de stà a sbomballà.

Valerio Sampieri
29 luglio 2015

Note (i numeri indicano il verso):
1. Areggi 'r fiato co' li denti = sopravvivi a malapena. 2. Attenta = attento; il termine è di genere neutro ed è usato anche per il genere maschile. 5. Stà' 'mmorì = stai a mmorì; i due apostrofi sottendono la soppressione della "a". 9. Sallazzero che ssei = sei malridotto, per quanto tu sia malridotto. L'espressione si riporta all'iconografia che rappresenta San Lazzaro colpito da frecce in punti non vitali, onde prolungarne l'agonia. 10. Rresterai pe' sseme de patata = resterai completamente solo. Belli usa anche l'espressione equivalente "restà (arimané) pe' seme de cavolo". 12. Se invece sei in punto di morte. 13. Ti aiuto certamente a compiere il trapasso. 14. Sbomballà = rompere, fracassare, con chiaro riferimento, in questo caso implicito (ma che potrebbe anche essere esplicito) all'ultima parola del settimo verso, ovvero ad altra parte anatomica maschile (normalmente chiamata "nérchia", in simile contesto).

 
 
 

De claris mulieribus 14

Post n°1876 pubblicato il 30 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

CAPITOLO XIV.
Niobe, Reina di Tebe.

Niobe, famosissima donna tra le nobili, fu figliuola di Tantalo, antichissimo e famosissimo re di Frigia, e sorella di Pelope. Poi fu moglie di Arnione, re di Tebe, famosissimo in quel tempo, così perchè egli fu figliuolo di Giove, come per sua eloquenzia; e durando la gloria del regno ella partorì sette figliuoli, e altrettante figliuole. E certamente quello che al savio dovea giovare fu la morte a lei, che insuperbì, e insuperbita non tanto per la nobile famiglia dei figliuoli, ma eziandio per la gloria dei suoi maggiori, ardì di sparlare contro agli Dei. Erano un dì i Tebani solleciti, per ammaestramento di Manio figliuolo di Tiresia astrologo, a fare sagrificj a Latona madre di Apollo e di Diana, venerabile Dea per antica ragione, e Niobe, stimolata quasi da una furia, veduta la sua brigata dei figliuoli onorati di reali onori, presentossi, palese gridando: Che matterìa fusse quelle dei Tebani, fare lo sagrificio a Latona, donna forestiera e figliuola di Titano, la quale solamente aveva due figliuoli concetti per adulterio, e di mettere quella innanzi a sè sua reina, figliuola di Tantalo re, la quale di suo marito avea partoriti a quegli, vedendogli, quattordeci figliuoli, dicendo, che a sè, come a più degna convenivano gli sagrificj. E dopo piccolo spazio di tempo avvenne, che in presenza di quella, per mortale pestilenzia tutti i figliuoli, splendidi di gioventù, in piccolo spazio morirono infino all’ultimo. E Anfione essendo privato di quattordici figliuoli, di dolor pieno con le mani proprie si diede la morte. Laonde i Tebani stimarono ciò esser fatto per ira degli Dei i quali vendicassino l’ingiuria della Dea. Ma Niobe, rimasta vedova e trista, ostinata venne in tanto senza parlare, che piuttosto parea un’immobile sasso che una femmina. Per la qual cagione i poeti ferono poi una finzione, che ella si convertì in una statua di pietra presso Sipiilo, dove erano stati seppelliti i figliuoli. Dura cosa e molto odiosa vedere, nonchè comportare, i superbi, ma comportare le superbe donne è fastidioso, e incomportabile: conciossiacosachè per la maggior parte la natura abbia prodotto quelli con caldo e superbo animo, e queste ella produsse con umile ingegno, non con superba virtù, e piuttosto atte a dilicanza che a signoria. Per la qual cosa è meno da maravigliarsi, se contro a queste elate l’ira di Dio è più provocata e la sentenzia più crudele, quante volte avviene che elleno passino il termine della sua debilità, come fece la insipida Niobe, ingannata da fallacia di fortuna, e ignorante, che avere molti figliuoli non è virtù della madre che li partorisce, ma opera della natura che volge in quella la benignità del cielo. Dunque piuttosto doveva rendere quella grazia (e era suo debito) a uno Iddio dei figliuoli conceduti, che domandare alcuni divini onori, acciocchè le fussero fatti, come se fosse stata sua opera avere tanto numero di figliuoli così maravigliosi. La quale avendo piuttosto operato superbamente che saviamente, fece che, vivendo, pianse la sua sciagura, e dopo molti secoli lo suo nome, odioso a quelli che vengono drieto.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 

Ubaldino Ubaldini del Cervo

Ubaldino Ubaldini del Cervo

È il primo poeta volgare che abbia operato un abbastanza sensibile distacco dal latino e dal provenzale. 1 suoi versi sono rozzi, ma hanno il pregio d'iniziare e palesar le mosse di un primo periodo di transizione. Non si conosce l' epoca della nascita o della morte di questo primo diremo piuttosto rimatore che poeta ; si ha nondimeno per certo che fu contemporaneo di Federico I. Narrasi avere l'Ubaldini, in una caccia che Federigo avea data, arrestato e rattenuto per le corna un cervo fuggitivo, in modo che quegli sopraggiungendo potè ucciderlo a suo agio. L' importanza allora data dai principi a questa sorta di divertimenti fece risaltare un cosi futile servigio agli occhi dell'imperatore, il quale troncata la testa dell'animale ne fece un presente all' Ubaldino autorizzandolo a farne la propria arme gentilizia. Riportiamo un tale aneddoto perchè da esso furono originati i versi che noi offriamo al leggitore.

Con lo meo cantare
Dallo vero vero narrare
Nullo ne diparto :
Anno millesimo
Christi salute centesimo
Octuagesimo quarto
Cacciato da veltri
A furore per quindi eltri (1)
Mugellani cespi un cervo
Per li corni ollo fermato,
Ubaldino genio anticato
Allo Sacro Imperio servo;
U et co piedi ad avacciarmi (2)
Et con le mani aggrapparmi
Alli corni suoi dun tracto,
Lo magno sir Fedrico
Che scorgeo lon tralcico (3)
Acorso lo svenò di facto;
Però mi feo don della
Cornata fronte bella,
Et per le ramora degna:
Et vuole che la sia
De la prosapia mia
Gradiuta insegna:
Lo meo padre è Ugicio
E Guarento avo mio
Già d' Ugicio già d'Azo
Dello già Ubaldino
Dello già Gotichino
Dello già Luconazo.

Ubaldino Ubaldini del Cervo

Note (di Carlo Arrivabene):
1. eltri per entri.
N.B. La lettera l è spesso nei più antichi scambiata in n. - Ora persino in Iesi, e più alzandosi tra gli Abbruzzi, la pronunzia del dialetto non si discosta da ciò.
2. avacciarmi etc. - «Affrettandomi con piedi e mani di aggrapparmi ad un tratto alli suoi corni (cioè del cervo) fui veduto dal magno sire Federico che scorgea (mirava) il mio intralcio, e d'un colpo, accorrendo, lo svenò.» È vano il notare che tralcico, o intralcio, in questo verso indica proprio quella lotta di Ubaldino che trovavasi avvinghiato tra le ramora (cioè rami, o tralci) delle corna del cervo.
(3) tralcico per intralcio. - Leggasi lo 'ntralcico, cioè lo intralcico.

Tratto da:
I Poeti Italiani Selections from the Italian Poets forming an historical view of the development of Italian Poetry from the earliest times to the present. With Biographical notices by Charles Arrivabene Deputy Professor of the Italian Language and Literature in the London University College. London: P. Rolandi - Dulau & C, 1855, pagina 37-38.
Links ai volumi reperibili su internet:
https://books.google.it/books/about/I_poeti_italiani.html?id=n_orAAAAMAAJ&redir_esc=y
https://archive.org/details/ipoetiitalianise00arriuoft
https://openlibrary.org/books/OL24436187M/I_poeti_italiani

 
 
 

Troppo forte :-)

Post n°1874 pubblicato il 29 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Snoopy è un grande!

Onore a Charles Monroe Schulz (Minneapolis, 26 novembre 1922 – Santa Rosa, 12 febbraio 2000)

 
 
 
 
 

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