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Messaggi del 06/03/2015

Il Meo Patacca 11-2

Post n°1324 pubblicato il 06 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

Dalla su' svogliatura, e da quel tedio,
Ch'ogni cosa gli dà, ben viè a capirzi
Che doppo il granne e temerario assedio,
Ha causa giusta assai di sbigottirzi,
Ch'al suo mal non si trova più rimedio,
Che più non c'è speranza di guarirzi,
Che pe' significanza manifesta,
Poco di vita al su' dominio resta.

Nel largo d'una piazza, in un bel posto,
Dove gente a diluvio ci capisce,
Ci sta un gran palco, e in modo tal esposto,
Ch'a nisciuno la vista s'impedisce;
Anzi lo gode più, chi è più discosto,
Che da lontano meglio comparisce
Quello, che prima sopra ci fù messo,
E che cosa poi sia, vel dico adesso.

Fatto ci stà di tavole un recinto,
Che d'un pozzo, ma tonno, ha la figura,
Nel di fori è incalciato, et è dipinto
Di quel colore, che si dà alle mura;
Da un orlo, pur di legno, attorno è cinto,
Ch'ha quasi mezzo palmo di largura;
La bocca è bella granne, e sopra a quella
Non c'è corda, nè secchio, nè girella.

Di queste iscammio, c'è 'na mezza luna,
Un pò drento la bocca, et un pò fora,
Prima è chiara, ma poi diventa bruna,
Mentre ch'a poco a poco si scolora.
La tiè un spago sospesa, e parte alcuna
Di quell'orlo non tocca, e questa è ancora
Frabicata assai ben, e colorita,
Mò ha luce granne, e mò l'ha sminuita.

È fatta di cartone, e drento è vota;
Son quì nascosti certi lampadini,
E solo col voltarzi d'una rota
S'affonnano, e si smorzano i stuppini;
Chi, pe' minuto queste cose nota
Ben cognosce, che ingegni pellegrini
Fecero così belle ritrovanze,
Pe' sbeffà i Turchi, crapicciose usanze.

Sul palco ancora c'è, discostarello
Dal pozzo, di vacchetta un gran stivale,
Alto chalcosa più d'un caratello,
Ma a questo poi nella larghezza uguale.
Fa rider tutti fà 'sto gran modello,
Ch'è smisurato e for del naturale;
Arriva, se coll'occhio si misura,
Poco men che d'un homo alla statura.

Dentro la stivalifica saccoccia,
De nascosto, e per tempo giù se caccia
Tutto inserrato, eccetto la capoccia,
Un, che d'un Mustafà giusto ha la faccia:
Sul capo ha 'l ciuffo, e nuda ha poi la coccia,
Con anello da schiavo il collo allaccia
Di ferro una catena, ch'è grossuccia,
E colui, giusto pare una bertuccia.

È la catena alquanto lungarella,
La tiè con la man manca un malandrino,
Nella dritta, di legno ha una cortella
Di quelle, che tiè al fianco un Zaccagnino.
È spaccata pe' largo, et in vedella,
Par che sia sana, perchè solo inzino
Al manico, e non più, ma pe' drittura,
Arriva la già fatta spaccatura.

Serve st'ordegno per un bel giochetto,
Et in vedello, ride assai la gente,
Ch'a dir la verità, fa bon effetto,
Benchè per altro sia cosa da gnente.
Se su la tigna, o su le spalle, o in petto
Si da un colpo, lo strepito si sente,
Non il dolor, facenno in modo tale,
Spaccato legno, più rumor che male.

Ecco col Turco, ch'è stivalizzato
Succede la gustosa giocarella;
Sguercia quello qua e là, ma stralunato,
E giusto pare giusto un capoccella.
Verzo la luna non vuò sta' voltato,
Ma l'altro, che tiè in mano la cortella,
Gli dà in sul capo, e allor colui non tarda,
Ma pe' forza la machina riguarda.

Troppo, a fè, troppo di vedè s'arrabbia
La Mezza Luna, a segno tal ridutta,
Che par che sia drento a quel pozzo in gabbia,
Priva di luccicor, spalida, e brutta.
Non pò vedè, nè sopportà che s'habbia
Quella a 'sto modo a strapazzà, ma tutta
Volta altrove la faccia, e ci borbotta,
Ma, tach! in sul crapino ha un'altra botta.

Spesso si fa 'sto batti capo, e spesso
Volta 'l grugno colui, c'ha dispiacere
Di quella vista; ma nel tempo stesso
L'altro l'attoppa, e 'l fa tornà a vedere.
È ridicolo sempre 'sto successo,
Perchè con gustosissime maniere
Li dui birbanti, che son farinelli,
S'ingegnano de fa' 'sti giocarelli.

Quello, ch'è tozzolato, ha un grugno tale,
Ch'alle smorfie benissimo s'adatta,
L'altro, che pare un gufo naturale,
Nel fa' gesti gustosi, ce l'impatta.
'Sta machina vuò dir, ch'allo Stivale
Del Turco, che da tal giusto si tratta,
Se rinchiuso ci sta sino al barbozzo,
Vedè la Luna se gli fa in tel pozzo.

Ma il bono adesso viè: precipitanno
Casca giù quella, pe' insinenta al fonno,
E sin da genti, che lontane stanno
Viè sentito il rumor da quel profonno.
Iscammio d'acque, alte schizzate fanno
Sbruffi di fiamme allor, più sù che ponno.
Colui della cortella, in ciò vedenno
Zompa dal palco, e sbigna via fuggenno.

D'un foco artifiziato, ch'era drento
Rescono in furia razzi matti a flotte,
E par ch'a tutti mettino spavento
L'accese striscie, e l'improvise botte.
Del pozzo ecco si fa l'abbrusciamento,
Che furno pur le tavole ridotte
A piglià foco, e questo è un gnente; il male
Fu solo di quel povero Stivale.

L'havevano unto prima con lo strutto,
Acciò il foco vicin se gli potesse
Attaccà presto, e s'affialasse tutto,
Come appunto in un subbito successe.
Pare questo alle genti un caso brutto,
Et a più d'uno assai spavento messe;
Et ecco il Turco de scappà fa prova,
Ma 'l modo di fuggirsene non trova.

Stretto nello Stival, fatto a misura,
Non pò tirà non pò le braccia fora,
Si storce, si rimuscina, e procura
Di colcallo, e co' i gomiti lavora;
Ma gnente serve 'sta manifattura,
Che sta forte piantato, e il Turco allora
Si sbatte, si ristorce, e giusto ha cera
D'un, che vicino a morte, già dispera.

Se scottà non si vuò, bigna s'abbassi,
E giù nello Stivale si rannicchi.
Da chi stà a vede, strepito quì fassi,
Parendo che già 'l foco glie la ficchi;
È causa il non sapè come si lassi
Costui drento arrostì, che si lambicchi
El cervello più d'uno, ma di quelli,
Che sono un pò tarulli e sciotarelli.

La capoccia del Turco è già sparita,
Perchè s'è stivalata tutta quanta,
E in drento alla vacchetta seppellita,
E attorno ha lo Stival fiamma tamanta.
Rentra questa de sopra, e più stordita
Resta la gente sciota, e più s'incanta,
E tiè pe' certo tiè nel su' penziero,
Che costui, finto Turco, arda da vero.

Dallo Stivale intanto urlo cagnesco
Esce unito a 'no strepito feroce;
Pare in prima, che sia strillo turchesco,
Perchè non si distingue ancor la voce:
Ma poi, s'accorge ogn'un, ch'è animalesco,
E se n'accerta allora, che veloce
Dallo Stival, ch'il foco ha giù coltato
Un cane scappa via, mezzo abbrusciato.

Da giù un crepaccio in terra, e fa un gran botto,
Che non ha forza di saltacce in piede;
Non si pò dir che sia crudo, nè cotto,
Se tra l'arzo, e 'l non arzo, esser si vede.
S'interpreta assai ben da chi è un pò dotto,
Che dir voglia 'sta cosa, che succede,
Et è che il Turco cane è in tale stato,
Che nè vivo, nè morto oggi è restato.

Ci è chi fratanto a strologà si mette,
Come colui sia scampolato sano
Dallo Stival, quanno che drento stette,
In tempo, che già 'l foco era in quel piano;
Fu però verità, che lui scegnette,
Per un buscio de sotto, piano piano.
Questo apposta fu fatto, e per l'istesso
Il cane poi nello Stival fu messo.

Fornito 'sto spettacolo, si sbanna
El popolo in più parti; ogn'un và a caccia
D'incontrà cose nove, ogn'un domanna
Dove chalch'altra machina se faccia.
Si sente dir, ch'in una certa banna
S'ammannisce una giostra, e che assai piaccia
Ben si po' crede, che s'è già sentito,
Che ci ha fatto PATACCA un bell'invito.

Chi ha quest'avviso, subbito scalcagna,
Per annar a vedè cosa sì degna.
Una truppa coll'altra s'accompagna,
E il loco in dove stà, c'è chi l'insegna.
Più d'una donna gnente si sparagna
De passà pe' la calca, e dar s'ingegna
Urti alle genti, e farlo glie bisogna,
Che flemmatica andar saria vergogna.

Là dove, in sul Tarpeo si slarga e stenne
A foggia di teatro un spazio tonno,
De lumi c'è tal quantità, che renne
All'occhio uno spettacolo gioconno.
Pare una scena allor, quanno risplenne,
Da' fianchi illuminata insino al fonno.
I tre palazzi in luminosa gara
Hanno, fra tutti, torcie a centinara.

Granne è quì sù de' Nobbili el concorzo,
E 'l popolo minor giù abbasso sparzo,
Fa tumulto, perchè troppo n'è accorzo,
Ma MEO l'acqueta, appena lì comparzo.
Non vuò impedito a' giostratori el corzo,
Cavalcanno, col solito suo sfarzo.
Da qual sempre già fu, gnente diverzo,
Usa rigor da vero, e no da scherzo.

Già molti dei su' sgherri, ma pedoni,
Assai per tempo, erano lì venuti,
Pe' fa' sta arreto tutti, co' i spuntoni,
Che havevan già da MEO l'ordini havuti.
Ma il posto a mantenè non fumo boni,
Che all'urtate dell'homini forzuti,
Gli bigna cede, e allor confusamente
Il campo tutto si rempì di gente.

Messe PATACCA a sesto ogni sconcerto,
Ch'il baston di commanno in mano strinze,
Minacciò colpi, e allor tutta al cuperto
La folla, sotto a' i portici ristrinze.
Restato il campo libero et aperto,
D'una fila di sgherri il loco cinze;
Formano questi el circolo assai granne,
E il popolo si tira dalle banne.

Ma perchè poi non torni ad affollarzi,
Fa che dei sgherri ogn'un l'asta attraverzi
Col su' vicino, e così venga a farzi
Un rastello difficile a moverzi;
Incominzan le cose ad aggiustarci,
Et il campo sfollato a mantenerzi.
Se c'è chalch'uno, che le guardie sforzi,
Si voltano color come tant'orzi.

Stava in cima al teatro il Saracino,
Et era questo un pupazzon di legno
Col busto senza braccia, e col crapino,
Col viso, ch'ha fisonomia di gnegno.
Il turbante alla granne, e ricco e fino,
Che fusse il Gran Vissir, ne dava segno;
Sta sopra un perno, in modo tal che basta,
A farlo circolà l'urto d'un'asta.

Otto sgherri scialanti, e MEO con loro
Compariscono in abbiti guerrieri,
Bande e fettuccie ha ogn'un di color d'oro,
E d'alte piume carichi i cimieri.
Sì sfarzosi cavalcano costoro,
Che paron giusto tanti cavalieri.
Teso e fermo sta MEO, quanto più pòle,
Sopra un cavallo, che fa' crapiole.

Ha fasto tal, che non la cede a un Marte
Questo nostro Arcinfanfalo de bravi,
Marcia il primo, e due sgherri, uno pe' parte.
Si mena a piede in abbito di schiavi.
Lo seguitano questi, e più per arte,
Che per natura, rispettosi e savi;
Pel cavallo, uno porta le bacchette,
L'altro in sopra a un bacile ha due terzette.

Queste così van da per tutto in mostra:
Le crompò MEO, pe' dàlle in premio a quello,
Che quanno sarà 'l tempo della Giostra
Farà in tel Saracin colpo più bello:
Ogn'un di loro pratico si mostra,
Perchè fu avvezzo a currere all'anello,
Quanno, per onorà li Macellari,
Fanno 'sta curza li Capovaccari.

Ha ciaschun la su' lancia, e se l'appoggia
Sopra la staffa, e ritta la mantiene.
Son queste, con la solita lor foggia,
E longhe e tonne, e appizzutate bene;
Stanno sei trombettieri in t'una loggia,
Mentre 'sta cavalcata se ne viene,
E in sentirzi lo strepito sonoro,
Attorno attorno girano costoro.

Fornitasi 'sta mostra, a mano manca
Del Saracino, eccoli tutti a un paro
Schierati, e giostrator di botta franca
Pare ogn'un dello sgherrico filaro.
Se ne stanno a sedè sopra una banca,
Che di tappeti ha un ornamento raro,
Due ciospi assai civili, ma con patto,
Di giudicà chi più bel colpo ha fatto.

Nell'aspettà, la gente stà con pena,
Che 'sta curza vedè gli va a fasciolo;
Ma dato il segno dalle trombe appena,
Si move il primo sgherro, adascio e solo;
Par c'habbia il su' corzier, ch'è tutto lena,
Voglia de fa' la gran Carriera a volo,
Ma lo trattiè, chi è sopra, a malo stento,
Te lo lassa venir a passo lento.

Incominza a sinistra, e tutto il giro
Di quel tonno teatro, a far gli tocca,
Pe' poter arrivàne a giusto tiro,
E dove il colpo al Saracin si scocca.
C'è in questo lento moto un bel riggiro,
Che far non lo potria la gente sciocca,
Che pratica non è, ma solo quella,
Che ben cavalca, e che sta forte in sella.

Mentre il cavallo, adascio assai, zampetta,
Colui, ch'è sopra, che lo tiene in briglia,
Gli da 'na spironata et una stretta,
Et ecco l'animal la curza piglia.
Così veloce va, ch'a 'na saetta,
Quanno dall'arco scappa, s'assomiglia;
Inverzo el Saracin la lancia abbassa
El giostrator, ma non l'azzecca, e passa.

Vedenno che zarata ha la percossa,
Si mortifica questo, e cotto cotto,
Pe' vergogna entraria drento una fossa,
Ma se la coglie, et a nisciun fa motto.
Ecco già s'ammannisce un'altra mossa,
Ecco il seconno sgherro; ma de trotto
Viè un cavallaccio, ch'ha trovato adesso,
Mancatogliene un bono, a lui promesso.

Così adasciata se ne va la rozza,
Che quanno ci stia sopra anch'un regazzo,
Puro, è cosa da credere, che pozza
Facilmente azzeccàne in tel pupazzo.
Sbrigliate te glie dà, te la sbarbozza
Arrabbiato colui, ne fa strapazzo,
La scotola, la sfianca, la spirona,
E quella tanto più viè moccolona.

Pianta un bel colpo al Saracin in petto
Con la lancia lo sgherro; ma la mira
Ci pigliò con tal flemma, che in ristretto
Fece una cosa, che nisciun l'ammira.
Fu fatto da più d'un chalche ghignetto
Un pò burlesco, e quello si ritira
In altra parte, e da sè stesso il sente,
Che più sbeffe, che lodi ha dalla gente.

Il terzo, come un fulmine si slancia;
Ha un cavallo, che curre al par del vento,
Abbassa il cucuzzòl, drizza la lancia,
E viè di tutta fuga, attento attento.
Urta, ma raspa al Saracin la guancia,
Che il colpo non dà in pieno, e mal contento
Resta lo sgherro a così poca botta;
Pur c'è chalch'un, ch'a favor suo ciangotta.

Il quarto è un galantissimo schiavetto,
Ch'è tutto foco, e lo cavalca un frasca,
Che ci fa in sella del Cacazzibetto,
Di qua e di là le belle figlie ammasca:
Alza la lancia, e ci vuò fa' un fioretto
Col giralla sul capo, ma gli casca
De fatto in terra, e in tel vedè 'sta scena
Il popol fece una risata piena.

El Ganimedo tal vergogna n'hebbe,
E della sghignazzata sì s'offese,
Che pugni in faccia dati si sarebbe;
Ma se n'astenne, ch'un ripiego prese,
Fece una cosa, ch'altri non farebbe:
Giù dalla sella pennolon si stese,
E mentre l'animai sempre più sferra,
Presto la lancia raccogliè da terra.

L'impiccia in modo tal, che tanto quanto
Vien a toccà col colpo, ma leggiero,
Al Saracin le coste, e solo alquanto
Si ricrompò l'onor, no per intiero.
Il quinto giostrator s'arrabbia tanto
Al sussurrà del popolo sbeffiero,
Pel caso al su' compagno succeduto,
Che se ne viè, ma burboro e grumuto.

A gran corzo lo porta una cavalla
Capovaccara, forte e curritora;
Lui coglie il Saracino in t'una spalla,
Perchè la man porta la botta in fora.
Tonno tonno, girà com'una palla
Fa 'l bamboccio sul perno, e allor s'onora,
Con prausi el coglitor; di quei di prima,
Il più bravo, il più pratico si stima.

 
 
 

Il Meo Patacca 11-1

Post n°1323 pubblicato il 06 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

"Il Meo Patacca, ovvero Roma in feste ne i trionfi di Vienna" di Giuseppe Berneri

Titolo completo e frontespizio: Il Meo Patacca ovvero Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo.
Dedicato all'Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc'Antonio & Orazio Campana MDCXCV. Con licenza de' Superiori.

CANTO UNDICESIMO

ARGOMENTO

PATACCA fa vede cha la maniera
Di gastigà chi ha contro lui sparlato,
Che già pò farne una vendetta fiera:
Ma si grolla d'havergli perdonato.
Le feste poi, pe' la seconda sera
Va presto ad ammannì, perchè ha inventato
Più di un crapiccio novo, e tutto in mostra
Mette a su' tempo, e in fine fa una giostra.

Al comparì, che fece in ciel l'Aurora,
Più del solito, parze presciolosa,
Perchè al su' lume non si sveglia ancora,
Ma se ne sta la gente sonnacchiosa;
Se dell'annà a dormì tarda fu l'ora,
Si sente di levarzi rincresciosa,
E quanno spuntò 'l Sole, a su' dispetto,
Sino trovò l'acquavitari a letto.

S'ogn'un girò quasi la notte intiera,
Bigna bè, che poi ronfi la mattina,
Dorme solo PATACCA alla leggiera.
Parendogli, ch'in core habbia una spina.
Penzanno a quel che nella nova sera
Da far s'haveva, smania e s'ammuina;
Un'hora di riposo gli par troppa,
Si leva all'alba, e a sfaccennà galoppa.

Ma 'l su' primo penzier, chi 'l crederia!
Oh che gran dabenaggine! fu quello
D'annà a vede, là nella barberia,
Se come stava Togno el poverello.
Si vuò cava si vuò 'sta fantasìa,
E dal barbiere stesso vuò sapello;
Va a quella volta, e di bon passo tocca,
Et ecco, da lontan vede Marzocca.

Sopra d'un banco s'era lei seduta,
Che teneva el barbiero lì de fora,
Per aspettà lo sgherro era venuta,
Che gì'impromesse de torna a bon'hora.
Piagnosa, malinconica e musuta,
Stava penzanno a quel che più l'accora,
Che l'habbia MEO gabbata, e gran disturbo
Glie dà l'haver inteso esser un furbo.

PATACCA arriva, e te glie dà el bondì.
Dice, in vedella piagnere: "Che c'è?
Cos'è 'sta novità? che fate quì?
Non dubitate, dite tutto a mè!
Ma voi non risponnete? e che? morì
Forze 'sta notte Togno vostro?
Ahimè! Troppo mi spiacerìa, non state più:
Dite s'è morto o vivo, o che ne fù?".

Come talvolta femmina zerbina,
Che a spasso andò pe' la città un bel pezzo,
Tornata a casa, oh quanto si tapina!,
Perchè s'accorge che s'è perza il vezzo.
Smania, piagne, tarrocca la meschina,
Tanto più che le perle son di prezzo;
Lo cerca, e alfin lo trova pe' le scale,
Rispira, si consola, e allegra sale.

Così Marzocca, se già perzo crede,
E MEO PATACCA, e 'l su' promesso aiuto,
El danno, che pò havè tutto antivede,
E lo spasimo al cor gl'è già venuto.
Se tribbola, se sbatte, e appena il vede
Che si sdolora, e in rendergli 'l saluto,
Si mesticano lagrime e sorriso,
Si slarga 'l cor, si rasserena el viso.

Poi gli parla così: "Togno sta bene,
Quasi affatto guarito è dal su' male.
Di ritornà al paese si trattiene,
Per paura che voi l'habbiate a male.
Senza vostra licenza, non conviene
De fa' 'sta cosa, e poi gran capitale
Delle promesse vostre noi facemo,
Nè senza voi di qua partì potemo".

"Ci ho gusto, et arcigusto, che guarisca
Togno", - lui dice, - "ma non sia mai vero
Ch'alla partenza sua io consentisca,
Se non vi è assicurato dal barbiere;
E perchè poi nel viaggio non patisca
Io di ben provedello havrò penziero;
Ma poco fa, che cosa v'ammuinava?
Quel piagne, quel fiottà dite, in che dava?".

"Non fu gnente", lei dice. "Come gnente?"
Ripiglia MEO, "ci sarà be' chalcosa.
Eh! ditemela puro schiettamente,
E non ci state a fa' la rincresciosa.
Spicciamola de grazia, ch'altrimente
Non so, com'annerà". Lei paurosa.
Sottocchio il guarda, e china poi la testa,
Si stregne nelle spalle, e muta resta.

MEO più s'insospettisce, e allor più monta
In collera, sbravicchia e la spaventa;
Colei si mostra ad ubbidì già pronta,
Perchè di farle ben lui non si penta.
La cosa dello sgherro gli racconta,
Ma a mezza bocca, acciò non si risenta,
Ch'assai glie spiacerìa che si venisse,
Pe' le su' ciarle, a fa' garbugli e risse.

Ma lui, che non è un'oca, e la sa tutta,
Et ha gran saputaggine e cervello,
Tanto va interroganno 'sta Margutta,
Fin ch'ogni cosa glie fa dir bel bello.
Marzocca quanto sa, gonza ributta,
E così scrope di quel bricconcello
La maligna profidia, e gli dice anco
Che lo stava a aspettà lì su quel banco.

MEO, sentita che l'ha, brusco la guarda,
Poi glie parla così: "Dunque si crede
A gente baronissima e busciarda,
E alle promesse mie non si dà fede?
Havete una testaccia assai bajarda,
Sete una coticona, e ben si vede,
Che, chi vi dà pastocchie assai stimate,
E di chi dice il ver, conto non fate".

Marzocca non risponne, e a star incoccia
Queta queta, sorgnona e piagniticcia.
Più d'una grossa lagrima glie goccia
Dall'occhi, e con le mani li strupiccia,
Poi coll'istesse gratta la capoccia,
Che sta scuperta, et i capelli impiccia,
E dà segno così la poveraccia,
Che ha gran dolor, nè di parlàne ha faccia.

MEO, che glie brava sol pe' spaurilla,
E mostra c'ha raggion di risentirzi,
Non vuò propio non vuò più sbigottilla,
Finge d'incominzane a impietosirzi.
Glie dice ch'alla fin vuò compatilla,
E darglie ajuto, acciò c'habbia a ciarirzi,
Ch'un guitto e bricconissimo è colui,
Che l'onorato e 'l galanthomo è lui.

Interroga el barbiero, e con premura,
Dello stato di Togno, e da lui sente,
Ch'è ridutta a bon termine la cura,
Perchè addropato ha un oglio assai potente,
Che doppo un par di giorni l'assicura,
Ch'ai paese pò andà liberamente;
PATACCA allor gli da pe' su' mercede
Tre briccoli, e son quel che lui gli chiede.

Altr'e tanti a Marzocca ne consegna,
Solo pel taffio delle tre giornate,
E a 'sto modo a conoscere gl'insegna,
Che lui non le sa fa' le baronate;
Che stimarebbe attione troppo indegna
El mancà de parola, e poi cavate
Quattro pavane dalla su' scarzella,
Le spiana in mano, e così dice a quella:

"Ammascate un pò in grazia 'ste monete,
Son quarantadue pavoli lampanti;
Quel ch'io ne voglia fa', voi non sapete,
De 'sta non poca somma di contanti.
Ma sappiatelo adesso: ecco, tenete,
Ve li dà MEO PATACCA tutti quanti,
Acciò facciate a Togno bone spese,
E in un calessio lui torni al paese".

Lustra l'occhi Marzocca, e dice: "Oh questo,
Signor, è troppo!". "È quel che far io devo".
Risponne Meo, "così fò manifesto
El mi' trattare, e ogni timor vi levo.
Pigliate qua, ve dico, e fate presto;
A posta, perchè darveli volevo,
Quà venni, e voi cognoscerete adesso,
S'attenno più di quel che v'ho promesso".

La iecora ubbidisce, e fa un risetto
E un'inchinata con garbo villano,
Piglia le piastre, e se le mette in petto,
Co' i briccoli, ch'ancor teneva in mano.
Ma subbito penzò, come ha poi detto
Alle su' amiche, de marcià pian piano
Su i ciucci, e 'sta moneta conservalla,
Pe' farsene poi lei 'na vesta gialla.

Intanto venir vede un c'ha figura
Di quello sgherro, che la sera innanzi
Di MEO sparlò, ma non è ancor sicura,
Che sia lui: però aspetta che s'avanzi.
Cognosce alfin ch'è quello, e allor procura
Che vada via PATACCA, o almen si scanzi,
Fino che lei gli parla, e lui risponne,
Ch'in te la barberìa se vuò nasconne.

Doppo te l'avvertisce, che non stia
Con gesti o con occhietti ad azzennargli,
Che lui là drento ritirato sia,
Ma che con libertà sappia parlargli.
Benchè fastidio a lei 'sta cosa dia,
Pur dice, che saprà tutto occultargli;
C'è dreto alla bottega uno stanzino;
C'entra PATACCA, e lì fà capolino.

Ecco arriva lo sgherro, et a Marzocca
Dice: "Bon giorno, ho gusto, ch'ammannita
Qui stiate; a voi mortificà sol tocca
Quel barone di MEO, che v'ha tradita.
Saressivo, pe' dilla, una marrocca,
Se doppo che di tutto io v'ho avvertita.
Rimedià non sapessivo a quel danno,
Che vi va quell'infame apparecchianno".

"Promessi, - dice lei, - fin da ier sera
Di far quello, ch'a voi fosse piacciuto,
Et io nella medesima maniera
Vi parlo mò, che sete qua venuto.
Benchè quel signor MEO non m'habbia cera
Di tristo, pur a voi tutto ho creduto".
"Eh zitta! - lui risponne, - è peggio assai,
Di quel ch'io dissi e dir potessi mai.

S'è messo in testa, de fa' da patrone,
Pretender vuò de commannà alla gente,
Si vanta homo de garbo, et è un cialtrone,
Anzi, uno spaccia frottole e un pezzente;
Fa l'abbottato, el granne, el faccennone,
El sodo, el guida popolo, el sapiente,
Et è un parabolano, un ignorante,
Un vano, un gonfia nuvole, un birbante".

In sentì MEO 'sta ciufolata abbotta
De rabbia, e tra sè dice: "Io più non pozzo
Havè flemma. O che smania! Se non sbotta
La mi' collera fora, io già me strozzo".
Ma l'haver cognosciuto assai gli scotta,
Quel birbo, che da tutti Bagarozzo
Pe' sopranome era ciamato, e solo
Per esser un ranocchio e un topacciolo.

Lesto MEO dà de piccio ad un rasore,
Se lo tiè con la man dreto alla schina,
E camminanno senza fa' rumore,
Pian piano a Bagarozzo s'avvicina.
Seguita questo a dire: "È un truffatore,
Un che la gente a più potè assassina,
Con chiacchiere e riggiri, uno"... Qui 'l fiato
Perde in voltarzi e MEO vederzi al lato.

Conforme avviene a un vil servitorello,
Che si diletta di giocà de mano,
Se in casa è solo, con un grimaldello,
apre li tiratori a un cantarano.
Mentre aggranfia monete el ladroncello,
Torna el patron, che poco era lontano,
E in vedello , colui, sopravenuto,
Resta intontito, spaventato, e muto.

Così appunto si vede interezzito,
Per orror Bagarozzo, e come un liescio
Senza aprì bocca, se ne sta scionito,
Mentre lo guarda MEO con occhio sbiescio.
Questo, pel collarino inviperito
L'afferra, e poi pe' fagli in faccia un sfrescio,
Alza el rasore, ma per aria alquanto
Trattiè 'l colpo e la mano, e parla intanto:

"Ce sei guitto, ce sei! chi pò salvarti
Da 'ste mie mani? Chi? Lingua scorretta!
Busciardo! Indegno! È poco lo sfresciarti,
Bigna tagliatte il grugno, a fetta a fetta.
Ma la fò da par mio, col perdonarti,
E dico, che in materia di vendetta,
È attion da galanthomo il minacciarla,
Il mostrà che pò farzi, e poi non farla.

Và puro, e vivi svergognato, e il vero
Scropi alla gente, ch'io mò quì raduno,
E dì la verità, s'io pe' penziero
Ho in vita mia gabbato mai nisciuno.
Più d'un vicino, e più d'un passaggiero
Chiamò PATACCA allor, perchè più d'uno
De 'sto brutto scriattolo sentisse
Il parlà, che tremanno così disse:

"Il signor MEO PATACCA quì presente,
È un giovane di spirito, galante,
Savio, onorato, splendido, valente,
Della parola sua sempre osservante:
Chi ardisce sbiasimarlo, se ne mente,
Et io so' quel maligno e quel forfante,
Ch'a calunniarlo hebbi sfacciata fronte,
E gli chiedo el perdono a mani gionte".

"Via, via!" dice PATACCA, e allor gli dànno
Tutti lo strillo, e un impeto d'urtoni
Fora lo caccia, e certi poi gli fanno
L'onor di regalallo di sgrugnoni;
Marzocca tutta rabbia va cercanno
Di tirargli chalchosa, e pe' i cantoni
Guarda della bottega, e qui ci vede
Un lucernaro longo col su' piede.

A due mani lei subbito l'afferra,
Poi resce in strada, e a seguità se mette
Colui, che fà currenno un serra serra,
Ma ridicole so' 'ste su' vendette.
L'alza, e lo tira al fine, e quasi in terra
Volze la bocca dar, tanto spignette
Quel coso, e puro non annò lontano,
Quanto sarebbe un passo di villano.

Si fece quì 'na sghignazzata, e lei
Gli minacciò col deto, e fu finita
Così 'sta buglia, e MEO dette a costei
Il bondì; doppo ognun fece partita.
Gira PATACCA pe' cinque hore o sei,
Prima de pranzo, e poi, fin ch'è compita
La giornata, pe' fa' quel che gli tocca,
Che gli premon le feste, e no Marzocca.

Perchè le cose tutte ogn'un vedesse,
Ch'in te la sera innanzi si facerno,
Volze si repricassero l'istesse,
Per quelli che talor non le vederno.
Molt'altre poi di novo ne commesse,
E queste pur guidò col su' governo,
E quanno l'aria ad oscurà si venne,
Lui principiò le lucide faccenne.

Di fochi, focaracci e luminari,
E delli stratii, e dell'impiccature.
C'hebber Bassà, Vissirri, in modi varj
Si rinovorno le manifatture;
Ma poi di più, con artifizj rari
Si fà mostra di machine e figure
Prima non viste, e questo fa che trovi
Novità di comparze apprausi novi.

Ecco per aria da lontan si scerne
Di luce un sbattimento; ogn'un rivolte
A quella parte fissa le lanterne,
Ma le staiole a scarpinà tiè sciolte;
Più si và avvicinanno, più discerne
Che quel lume è di torcie, e che son molte,
E fa la spia, 'sta vista luminosa,
Che ci sia chalche machina famosa.

No sbaglia mica no, chi questo penza,
Perchè la verità dice in sustanza:
Et ecco 'na gustosa comparenza
E ogn'un procura annaglie in vicinanza.
Di femmine se vede una seguenza,
Tutte vestite alla turchesca usanza;
Da capofila fa una ciospa grinza,
E da costei la mossa s'incominza.

Tutte, levata lei, so' giovanotte,
In abbito e figura di sultane,
E dalla turca griscia son condotte,
Perchè la soprastanta lei glie fàne.
Vengono a quattro a quattro, e non a flotte,
Son le file tra lor poco lontane,
E queste in realtà non son già donne,
Ma sbarbatelli maschi in turche gonne.

Sciupinate scarpinano, e muccose,
Si sgraffiano e scapigliano ogni tanto,
Afflitte, sconsolate, e piagnolose,
Fan che rida la gente al loro pianto;
Così bene san fingere 'ste cose,
Ch'il Popolo ce gode tutto quanto;
Chi noi sapesse, nò, nol crederìa,
Che quel finto dolor, vero non sia.

Di qua e di là dalle sultane file,
Schiavi ci son, c'hanno d'Eunuchi i grugnì,
E in maltrattarzi assai più fiero stile,
Dandosi in faccia quantità di pugni:
Ci sguazza, e se ne tiè 'sta gente vile,
Benchè da sè si laceri e si sgrugni,
Nel fa' quest'atti bene, e al naturale,
E non si cura poi di farzi male.

Ecco, che se ne viè sopra un carretto,
In dove c'è di tavole un bel piano,
Et è quello tirato da un muletto,
Il Gran Signor del popolo ottomano.
A sedè se ne sta sopra d'un letto,
Mezzo sbiascito el povero tavano,
E smanie, e torcicolli và facenno,
Che par giusto, che stia quasi morenno.

Due Turchi stanno accanto alla lettiera,
Che son due pezzi d'homini panzuti,
Con abbiti magnifici, et han cera
Di due gran satraponi potenziuti;
Piena una tazza, sopra 'na guantiera,
Sporgono all'ammalato, e acciò s'ajuti
E si sforzi a piglià quella bevanna,
Mostrano di pregallo, uno pe' banna.

Lui torcenno va 'l grugno, e non vuò beve,
E come che il liquor nausea gli renne
Di coloro il consiglio non riceve,
Per quanto dalli gesti si comprenne.
Perchè la cosa poi spiegà si deve,
Dalla cima del Letto un foglio penne
Dov'è scritto, (et è carta pecorina):
Il mio male non è da medicina.

 
 
 

La Secchia Rapita 08-1

Post n°1322 pubblicato il 06 Marzo 2015 da valerio.sampieri
 

La Secchia Rapita
di Alessandro Tassoni

CANTO OTTAVO

ARGOMENTO

Il corno manco alfin de' Gemignani
giugne a forza pugnando a' suoi steccati.
Vede Ezzelino in mostra a Padovani,
ch'a danno de' Petroni ha ragunati.
Fan tregua i campi: e con partiti vani
son da Bologna ambasciator mandati,
che di Rinoppia fra i ricami e l'armi
del cieco Scarpinello odono i carmi.

        1
Già la luce del sol dato avea loco
a l'ombra de la terra umida e nera;
e le lucciole uscían col cul di foco,
stelle di questa nostra ultima sfera,
quando le trombe in suon già lasso e fioco
a raccolta chiamar da la riviera.
Usciro i fanti e i cavalier de l'onda,
e si ritrasse ognuno a la su sponda:

        2
e quinci e quindi alzaro incontro al ponte
gli eserciti trinciere e padiglioni.
Tornaro intanto di Miceno il conte
e Manfredi e Roldano, i tre campioni
che le bandiere de' nemici conte
cacciate avean per boschi e per valloni;
e fu da loro in arrivando al lito
il suon de l'armi e de' cavalli udito.

        3
E poi che da le spie certificati
del vario fin de la battaglia fòro,
in dubbio se dovean per gli steccati
ripassar de' nemici al campo loro,
o guazzando in disparte i lor soldati
ricondur cheti a ripigliar ristoro;
a guazzo al fin passar fanti e somieri,
e al ponte si drizzâr co' cavalieri.

        4
E dato aviso al Potta in diligenza
perché le sbarre a tempo e loco alzasse,
de le spoglie de' vinti in apparenza
di Ferraresi armâr la prima classe;
e acciò che l'arte lor maggior credenza
tra gl'inimici a l'arrivar trovasse,
quando loro parve esser vicini assai
- Viva Frarra, gridar, guardai, guardai. -

        5
Gli abiti ferraresi e le favelle
nel fosco de la notte e 'n quel tumulto
ingannaron cosí le sentinelle,
che fu il pensier de' valorosi occulto.
Giunti nel campo, alzar fino a le stelle
i gridi e gli urli, e con feroce insulto
trasser le spade e apersero il cammino
dove piú il ponte a lor parea vicino.

        6
Eran confusi ancor gli alloggiamenti,
gli animi incerti e i corpi affaticati,
quando dal suon de' minacciosi accenti
d'improviso terror fur saettati;
come scossi dal ciel folgori ardenti,
venían di sangue e di sudor bagnati;
Manfredi e 'l buon Voluce a la frontiera
e in ultimo Roldan chiudea la schiera.

        7
Come pere cadean le genti morte
sotto il furor de le sanguigne spade.
Vede il conte Romeo ch'ad una sorte
pedoni e cavalier sgombran le strade;
onde il nipote suo Ricciardo il forte
chiamando, corre ove la gente cade:
ma l'impeto lo sbalza, e prigioniero
porta seco Ricciardo in su 'l destriero.

        8
Come suol nube di vapori ardenti
far ne' campi talor strage e fracassi
vomitando dal sen fulmini e venti,
e portar seco svelti arbori e sassi:
cosí porta il furor di que' possenti
seco ogn'incontro ovunque volge i passi:
cosí, secondo i greci ciurmatori,
porta l'ottavo ciel gli altri minori.

        9
Giunto al Potta fra tanto era l'aviso,
e Gherardo su 'l ponte avea mandato:
ma fu l'arrivo lor tant'improviso
che 'l ritrovaro ancor chiuso e sbarrato.
Quivi a Roldano fu il destriero ucciso,
e rimanea da tutti abbandonato,
se non si retraean fuora del ponte
i due guerrier che combatteano in fronte.

        10
L'uno di qua, l'altro di là si mosse
dove incalzar vedea l'ultima schiera,
e l'impeto in sé tolse e le percosse,
fin che tutti spuntar su la riviera.
Gherardo in tanto al giugner suo rimosse
le sbarre che piantate avea la sera,
e i suoi raccolse, e lasciò quei dal Sipa
con un palmo di naso a l'altra ripa.

        11
De l'orribile pugna il gran successo
sparse intorno la fama in un momento,
onde ne giunse a Federico il messo
che sospirò del figlio il duro evento.
Scrisse a gli amici e maledí sé stesso,
che fosse stato a quell'impresa lento:
ma sopra tutti scrisse ad Ezzelino
che di Padova allor tenea il domino.

        12
Ezzelin, come udí che prigioniero
del suo signore era il figliolo, in fretta
armò le sue milizie, e fe' pensiero
di farne memorabile vendetta.
Avea allor seco un principe straniero,
cui per fresco retaggio era suggetta
la nobil signoria de la Morea,
e a cui sposata una nipote avea.

        13
In tutto l'Oriente uom di piú core
di lui non era o di miglior consiglio:
fu detto Eurimedonte, e 'l suo valore
fea tremar da l'Eusino al mar vermiglio.
Or a questi Ezzelin diede l'onore
di liberar di Federico il figlio:
e con piú ardor, quand'egli udí, si mosse,
ch'era infreddato e ch'egli avea la tosse.

        14
Dieci schiere ordinò, ciascuna d'esse
di ducento cavalli e mille fanti,
e ghibellini capitani elesse,
perché fosser piú fidi e piú costanti.
Musa, tu che migliacci e caldalesse
vendesti lor, déttami i nomi e i vanti
che fer dal piano a gli ultimi arconcelli
l'alta torre tremar de gli Asinelli.

        15
Già l'uscio aperto avea de l'Oriente
la puttanella del canuto amante,
e 'n camicia correa bella e ridente
a lavarsi nel mar l'eburnee piante;
spargeasi in onde d'oro il crin lucente,
parea l'ignudo sen latte tremante,
e a lo specchio di Teti il bianco viso
tingea di minio tolto in paradiso:

        16
quando a la mostra uscí tutta schierata
la gente. E prima fu l'insegna d'Este
che l'aquila d'argento incoronata
portar solea nel bel campo celeste;
or d'uno struzzo bianco è figurata,
impresa del tiranno e di sue geste;
di Sant'Elena il fiore indi seconda,
terra di rane e di pantan feconda,

        17
e Castelbaldo, a cui tributa rena
l'Adige che fa quindi il suo cammino.
Savin Cumani è il duce, e da l'amena
piaggia di Carmignano e Solesino
e dal Deserto e da Valbona mena
gente, dove costeggia il Vicentino:
l'armi ha dorate, ne l'insegna al vento
spiega un nero leon sovra l'argento.

        18
Schinella e Ingolfo, onor di Casa Conti,
gemelli e dal tiranno ambiduo amati,
da la Creola e da' vicini monti
guidano dopo questi i lor soldati;
San Daniel, Baone, e le due fronti
che toccano del ciel gli archi stellati,
Venda e Rua, Montegrotto e Montortone
Gazzuolo e Galzignano e Calaone.

        19
Abano va con questi in una schiera
e quei di Montagnon seco conduce.
L'aria e la terra affumicata e nera
di sulfureo color gente produce.
Quivi l'orrendo albergo è di Megera,
che di foco infernal tutto riluce,
e v'era Pietro allor, co' fieri carmi
traeva i morti regni al suon de l'armi.

        20
A liste di color vermiglio e bianco
segnata de' due conti è la bandiera:
Nantichier di Vigonza è loro al fianco,
e conduce con lui la terza schiera;
Vighezzolo e Vigonza e Castelfranco
seco ha in armi e, di là da la riviera
de la Brenta, le terre ove serpeggia
la Tergola e 'l Muson fremendo ondeggia.

        21
Camposanpier, Balò, Sala e Mirano,
Strà, la Mira, Oriago, il Dolo e Fiesso,
Arin, Caltana, Melareo, Stigliano,
e 'l popol di Bogione era con esso.
Ne lo stendardo il cavalier soprano
l'antico segno ha di sua schiatta impresso,
ch'una sbarra di vaio è per traverso
in campo d'oro, e 'l fregio è bianco e perso.

        22
Passa il quarto Inghelfredo, uomo che nato
d'ignota stirpe e a ministerio indegno
da prima eletto, a poco a poco alzato
s'è per occulte vie con cauto ingegno.
Tesoriero fu dianzi, or è passato
a grado militar piú illustre e degno:
ma superbo al sembiante e al portamento,
sembra scordato già del nascimento.

        23
Dichiarato è baron di Terradura,
e la Battaglia va sotto il suo impero
dove fa risonar l'antiche mura
l'incontro di due fiumi e 'l corso fiero:
tempestata di gigli ha l'armatura,
e un levriere d'argento ha su 'l cimiero:
e 'l tiranno Ezzelin l'ha fatto duce
del patrimonio suo, ch'egli conduce.

        24
Le bandiere d'Onara e di Romano,
quelle di Cittadella e Musolente
regge, e di Fontaniva e di Bassano
e de la Bolzanella arma la gente.
Va con questi Campese a mano a mano;
Campese la cui fama a l'occidente
e a' termini d'Irlanda e del Cataio
stende il sepolcro di Merlin Cocajo,

        25
latino autor di mantuani versi,
per cui la donna sua Cipada agguaglia
e i monti di Cucagna e i rivi tersi
levan la palma a quei de la Tessaglia.
Erano i Campesani in Lete immersi,
or li solleva al ciel l'onda castaglia:
e forse ancor su questi scartafacci
faran del nome lor diversi spacci.

        26
Brunor Buzzaccarini è il quinto, e a gara
vanno seco Conselve e Bovolenta,
Are, Cona, Tribano e l'Anguillara,
quei di Sarmasa e di Castel di Brenta,
di Pontelungo e quei di Polverara,
dov'è il regno de' galli e la sementa
famosa in ogni parte: e questa schiera
dogata a verde e bianco ha la bandiera.

        27
L'altra che segue, ove congiunte a stuolo
vanno Pieve di Sacco e Saponara,
Montemerlo, Sanfenzo e di Brazolo
la gente, e seco in un Camponogara,
San Bruson e Cammin, guida un figliolo
de l'antico signor di Calcinara,
che Franco Capolista è nominato,
e porta un cervo rosso in campo aurato.

        28
De la Riviera e de la Mandra ha unite
ereditarie e bellicose genti;
quelle di Paluello instupidite
furo ad armarsi allor sí negligenti,
ch'eran le guerre già tutte finite
quando spiegaron la bandiera a i venti:
onde i vicini lor ridono ancora
del soccorso che dier que' sciocchi allora.

        29
Con la settima squadra Aicardo passa
Capodivacca, e seco ha Montagnana;
Monterosso e Zoone a dietro lassa,
e guida Revolon, Torreggia e Urbana,
Meggiaino e Merlara in parte bassa,
Luvigliano piú in alto a tramontana,
Seivazzan, Saccolungo e Cervarese,
Saletto e Praia e tutto quel paese.

        30
Ma di Teolo la famosa insegna
fra l'altre a grand'onor splender si vede;
Teolo ond'uscí già l'anima degna
che 'l glorioso Livio al mondo diede.
Lo stendardo vermiglio Aicardo segna
di tre spade d'argento; e in guisa eccede
ogn'altro coll'altezza de le membra,
ch'eccelsa torre in umil borgo ei sembra.

        31
Vien poi Monselce, incontra l'armi e i sacchi
securo già per frode e per battaglia,
sotto la signoria d'Alviero Zacchi,
e 'l popol di Casale e di Roncaglia.
Ha l'insegna costui dipinta a scacchi
azzurri e bianchi, e Gorgo e Bertepaglia
e Corneggiana e Montericco ha drieto
e Carrara e Collalta e Carpineto.

        32
Il nono duce Ugon di Santuliana
de le vicine ville avea la cura,
Terranegra conduce e Brusegana
dove Antenore fe' le prime mura,
Villafranca, Mortise e Candiana,
San Gregorio, Sant'Orsola e Cartura,
le Tombelle, Noventa e Villatora,
ed altre terre che fioríano allora;

        33
e de' vassalli suoi non poca parte,
ché Pernumia e Terralba ei signoreggia
e 'l bel colle d'Arquà poco in disparte,
che quinci il monte e quindi il pian vagheggia;
dove giace colui, ne le cui carte
l'alma fronda del sol lieta verdeggia,
e dove la sua gatta in secca spoglia
guarda da i topi ancor la dotta soglia.

 
 
 
 
 

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