Creato da amaitti il 28/08/2011

La vita

La vita

 

 

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Gli invisibili.

Post n°439 pubblicato il 21 Maggio 2017 da amaitti
 
Foto di amaitti

 

Stavamo dialogando attorno al canto dell’Inferno

dantesco dedicato al conte Ugolino, ed evidenziavo

il fatto che Dante presenta un padre incapace

di dare pane e parole ai suoi figli, condannati

a morire da innocenti.  

 

In un verso Dante descrive la tragedia della paternità

sovvertita, quando Ugolino, guardando i volti dei

quattro innocenti imprigionati con lui, dice di aver

visto se stesso: sia perché vede in loro lo stesso dramma

dell’inedia che li condanna a morte, sia perché vede in loro

il frutto delle sue colpe. Moriranno a causa sua,

e lui non se ne era reso conto, se non in quel momento,

quando ormai è troppo tardi. Partendo da qui siamo arrivati

a parlare di Thirteen reasons why: titolo di un fortunato

libro negli Usa (Tredici in Italia), nonché di una ancora

più fortunata serie televisiva che spopola tra i ragazzi

e che, sollecitato da loro e interessato a capire dove

cercano le parole e le immagini per raccontarsi,

ho guardato nelle ultime settimane. 

 

Una ragazza si suicida, ha 17 anni, ma prima di mettere

in atto il suo gesto estremo, incide 13 audiocassette,

dedicate ciascuna alle tredici ragioni che l’hanno portata

a togliersi di mezzo, ogni ragione corrisponde all’amico

o amica, a cui è dedicato quel nastro. Così a poco a poco

emerge la verità di una storia di violenza verbale e fisica,

ampliata anche da chi si riteneva innocente. Sorprende

scoprire che solo l’ultima cassetta è dedicata a un adulto,

lo psicologo della scuola, che aveva parlato con la ragazza

il giorno stesso del suo suicidio e non era stato capace

di andare oltre quanto richiesto dal codice del suo lavoro. 

 

Il ritornello che caratterizza tutta la serie è che la verità

non è sempre quella che ci costruiamo per giustificare

le nostre azioni e che il male che commettiamo

o il bene che tralasciamo di fare hanno lo stesso peso. 

 

Tutto ciò avviene ad una ragazza a cui non manca niente

per essere felice, ma una somma di gesti malvagi o di gesti

omessi da chi le vuole bene fa crollare una identità

in formazione e quindi fragile. Questo il fascino esercitato

sul pubblico di adolescenti: la percezione della distanza

tra come ci si sente e come è la realtà, due dati che nella vita

di un ragazzo sono spesso molto distanti e che portano

gli adulti a non capire, liquidando le loro sofferenze

ora come «paturnie dell’età», ora come

«cose che un giorno capirai», ora come «la vita è fatta così,

impara a starci». 

 

Nella serie infatti l’assordante assenza è quella degli adulti,

distantissimi anche se vicini, a volte incapaci di ascolto

o di capire come ascoltare (la famiglia del protagonista

deve formulare il proposito di fare almeno un pasto

insieme dopo tre settimane...), a volte incapaci loro

stessi di essere adulti. 

 

È il protagonista della serie, un diciassettenne, a dover

dire in modo chiaro allo psicologo: «Dovremmo imparare

a volerci bene, in modo migliore». Ha capito che non basta

il rispetto, non bastano le regole, che il consumismo

relazionale è un veleno e che per volersi bene bisogna

conoscere gli altri, conoscere il bene per gli altri, perché

una relazione è vera solo quando si impegna a realizzare

il bene dell’altro e ad accogliere l’altro come bene, non basta

vivere sotto lo stesso tetto (familiare, scolastico...).

È l’adolescente protagonista che impara che il bene dell’altro

va fatto, a ogni costo, ed è lui a dover educare gli adulti sul tema. 

 

Sono gli effetti di una società individualista, in cui i ragazzi

non si sentono più parte di una storia, ma si riducono

ad atomi incapaci di comprendere la realtà, perché nessuno

gliene offre le parole adatte, ci si limita a insegnare

delle regole per la vita e non cosa ci sia di buono da fare

nella vita e a cosa servano quelle regole. Lo spaesamento

narrato in questa serie solleva sin dal primo minuto la ferita

aperta della società di oggi, quella americana sicuramente

più avanti della nostra, ma neanche tanto: in un tessuto

sociale disgregato e utilitarista, l’individuo è solo e non

vale nulla se non si procura da solo il suo valore. La vita

inserita in un sistema di performance in cui si è tanto

quanto si ha, fa, appare, non c’è il tempo per costruire

sull’essere, cosa che potrebbe avvenire in famiglia, unico luogo

in cui essere accettati per quello che si è e non per quelle

altre tre cose. Ma la famiglia non ha tempo per fare questo,

oppressa anche lei da un meccanismo soffocante.

Non c’è tempo per le relazioni buone, il tempo che permette

di far emergere le ferite e le gioie, che va a costruire

quel nucleo forte di amore da cui un bambino

ed un adolescente imparano a guardare ed affrontare il mondo. 

 

Il tempo delle relazione è spesso riempito da oggetti,

silenzi, altre performance... che non lasciano lo spazio

e i minuti necessari ad abbassare le difese e ad aprirsi.

Persino l’assurda moda della Blue Whale - un gioco perverso

che si conclude con il suicidio del partecipante - può riempire

il vuoto di senso della propria esistenza, tanto da trasformarla

in una performance sino alla autodistruzione: ci sarebbe

da chiedersi come mai neanche la scuola sia più in grado

di offrire un orizzonte di senso a questi ragazzi

che vi passano per tredici anni tre quarti delle mattine.

Continuiamo a produrre «educazioni a» affollando

la loro testa di altre regole, impossibili da vivere perché

non c’è una vita interiore, personale, unica e irripetibile,

una storia in cui inserirle. Gli individui non hanno storie,

le storie le hanno i ragazzi quando sono figli, nipoti, alunni...

La passione per questa serie da parte dei ragazzi

la tradurrei così: «Insegnateci a voler bene davvero,

ridateci relazioni significative e non consumistiche,

trovate il tempo da impegnare per noi come la cosa

più importante che vi è capitata nella vita, guardateci,

andate oltre le apparenze, consegnatemi il testimone

della vita perché io cominci la mia corsa e sappia

perché sto correndo». 

 

La ragazza che si suicida dopo aver parlato con lo psicologo

si ferma fuori dalla porta a vetri di lui e rimane ferma

sperando che lui la insegua, andando oltre lo stretto

necessario della chiacchierata appena affrontata.

Lei afferma nella sua registrazione che se lui fosse uscito

non si sarebbe uccisa, ma lui risponde al cellulare

che aveva squillato già più volte durante il colloquio,

interrompendo l’attenzione totale dovuta ad una ragazza

in crisi, e dimentica quello che lei gli ha appena confidato:

la mia vita non vale niente. Sceglie ciò che sembra

più urgente, invece di quello che è importante

(quanto tempo rubato alle relazioni dalla nostra iper-connessione).

Tredici sono le ragioni per cui una ragazza si toglie la vita:

e sono persone, cioè relazioni. Una è la ragione che le unifica

tutte: la mancanza d’amore. L’amore è dare valore

alle persone, e il valore sì dà solo quando si dona il proprio

tempo a curare la relazione con l’altro, costi quel che costi.

Dare tempo quando si è in tempo, altrimenti come Ugolino

vedremo sul volto dei ragazzi ciò che noi stessi,

senza rendercene conto, abbiamo provocato.

Ma sarà troppo tardi. 

 Alessandro D’Avenia

(La Stampa)

 
 
 
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