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Intolleranza

2019, FC n. 25 del 23 giugno.

UNA MAPPA DELL’INTOLLERANZA MOSTRA DOVE SONO GLI HATERS, GLI AGGRESSORI SERIALI DEL WEB

Un’Italia che odia, da Nord a Sud, che insulta, che minaccia. Spesso con volgarità e frasi offensive. Questo il triste panorama che emerge dalla quarta Mappa dell’intolleranza, un progetto ideato da Vox – Osservatorio italiano sui diritti, in collaborazione con le Università di Milano Cattolica e Statale, La Sapienza di Roma e l’Università di Bari, che per il quarto anno ci offre, attraverso l’analisi dei contenuti di Twitter, uno dei social più utilizzati, questa fotografia dell’odio nel Web. Il risultato è una realtà davvero deprimente. Migliaia di messaggi inquietanti per la violenza verbale e per il malessere che nascondono.

La ricerca è stata possibile grazie a un apposito software che utilizza algoritmi capaci di comprendere la semantica del testo e estrarre i contenuti che contengono parole considerate sensibili e geolocalizzarli. Sono stati così presi in considerazione 215.377 tweet tra marzo e maggio 2019: ben 151.783 quelli negativi. Quasi tre quarti delle esternazioni. Con bersagli ben precisi. I migranti (74.451), le donne (55.347), i disabili (23.499), i musulmani (30.387), ebrei (19.952), omosessuali (11.741).

Spiega lo psichiatra ‹‹in 140 caratteri possiamo comprimere sentimenti. Esprimiamo paure e rabbie che non trovano altre strade per essere elaborate, accolte, spiegate. 140 caratteri in cui ci alleniamo a urlare››. ‹‹nell’attivare la mappa ci siamo chiesti se davvero un insulto lanciato per caso, per rabbia, per l’ira del momento, possa trasformarsi in un pugno alla propria donna, in un agguato a un extracomunitario o a un ebreo. In altri termini, le parole modificano le nostre azioni? La filosofa Hannah Arendt diceva: “Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano e questo inserimento è come una seconda nascita”. Allora sì, una parola scagliata come una pietra avvelena le menti e distorce il pensiero. E alla fine può farsi gesto››.

‹‹Direi››, dice lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingardi della Sapienza di Roma, ‹‹che spesso questo atteggiamento nasce dalla paura, da un sentimento di fragilità della propria identità e dalla preoccupazione di non sapere affrontare la complessità dei cambiamenti affettivi e sociali. Se dovesi riassumere in una frase, direi: “Tu non sei me, per questo ti temo, per questo ti odio”. I social network fanno il resto, cioè diffondono, amplificano e replicano. È una forma di bullismo su scala mediatica: un comportamento prepotente verso chi è considerato debole e al tempo stesso un modo per sentirsi e farsi percepire dal proprio gruppo come il più forte››.

Tuttavia, questa quarta mappatura registra che qualcosa è cambiato, ma non in meglio: ‹‹L’odiatore è sempre meno l’anonimo leone da tastiera, quello che lancia il sasso di un tweet e nasconde la mano. Non si può parlare di un Dottor Jkyll/Mr Hyde o di maggioranza silenziosa. Oggi l’odiatore gonfia il petto e vuole farsi riconoscere. Rivendica i suoi sentimenti negativi perché non si sente più solo, anzi si sente legittimato. Un cambiamento radicale e preoccupante››.

E i bersagli delle offese? Sono sempre gli stessi. Scelti da chi si sente maggioranza pulita ma ha bisogno di autoconfermarsi, identificando un capro espiatorio. ‹‹Individuato tra ciò che non capiscono o reputato minaccioso, che si tratti del colore della pelle o dell’affermarsi di una donna›› continua Vittorio Lingiardi, ‹‹oppure tra coloro che percepiscono come deboli dal punto di vista storico-identitario. Per esempio tra persone di etnie o religioni diverse. L’insulto (soprattutto nei confronti delle donne, degli omosessuali e dei disabili, ma anche verso migranti, ebrei e musulmani) passa quasi sempre per la disumanizzazione e l’umiliazione del corpo››.

C’è da chiedersi come siano questi individui nella vita normale, lontani da tastiera e schermo: ‹‹Non è facile rispondere. Non esiste un identikit dell’odiatore on line. Quello che posso immaginare è che sono persone che provano odio e hanno in comune la necessità di esternarlo. Questo mi fa pensare che sono infelici e con un funzionamento psichico primitivo. L’odio riversato contro le donne o le persone omosessuali mi fa pensare a gravi problematiche affettive o identitarie. A volte l’odio si rovescia contro “l’altro” per definizione, quello che “devo” odiare per avere un’identità, perché se ho un “non io” allora ho un “io”. E può funzionare così, dal calcio alla politica››. Per dirla più semplicemente, Lingiardi cita Cesare Pavese: ‹‹Il grande scrittore diceva: “Si odiano gli altri perché si odia sé stessi”››.

Questo è lo stato delle cose. Ma al male si può e si deve rispondere sempre con la certezza che le cose si possano cambiare. Come? ‹‹Innanzitutto intercettando questo malessere, individuando il disagio e incontrandolo nel dialogo senza mai rispondere con la stessa aggressività, ma piuttosto con il buon esempio. Che può e deve venire anche da parte dello Stato: quando, legiferando, ha dato esempio di inclusione delle minoranze ha aperto la strada perché ciò avvenisse anche nel sentire comune››. In secondo luogo, ricordando che i professionisti della salute mentale non devono limitarsi a curare, devono anche saper prevenire e offrire soluzioni: ‹‹La mappa dell’intolleranza permette di individuare le zone geografiche dove gli hate speech (i discorsi d’odio) sono maggiormente presenti. Questo ci permette di attivare campagne preventive, sia attraverso l’elaborazione di materiali didattici e formativi sia attraverso interventi “umanizzanti” nelle scuole e incontri allargati con le realtà territoriali››.

Ed ecco infine uno sprazzo di speranza, sintetizzato nel lavoro di un gruppo di giovanissimi di Milano dove, secondo i tweet raccolti e geolocalizzati, è altissima l’intolleranza verso gli stranieri. Ebbene, al Liceo Bottoni e all’Università Cattolica alcuni studenti hanno partecipato alla campagna #Ispeakhuman (Io parlo umano), registrando un enorme successo. Più di 200.000 visualizzazioni, a conferma della necessità di creare una contro-narrazione efficace per combattere i discorsi d’odio.

 
 
 
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