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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Aprile 2024

Sacrifica la propria vita

Post n°4005 pubblicato il 17 Aprile 2024 da namy0000
 

2024, Avvenire 16 aprile

L'addio ad Azzurra. Aveva interrotto le cure per far nascere suo figlio

Commozione a Oderzo, in provincia di Treviso, per la morte di "mamma coraggio". 

 

 
 
 

La giustizia del Padre

2023, Ermes Ronchi, Avvenire 21 settembre

La giustizia del Padre è dare il meglio a ciascuno

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”»(...)

Guardo la giornata con gli occhi degli ultimi, quelli seduti in piazza con gli strumenti del loro lavoro posati giù, inutili, che sentono di avere fallito la loro missione, quella di procurare il pane: chi si sente incapace di badare ai suoi figli sta male, sta molto male. La chiamata che arriva inattesa, illogica, che basterà forse a procurare un boccone soltanto, è accolta subito, senza accampare scuse e senza chiedere dettagli, si va’ e si fa. Il proprietario che esce all’alba in cerca di braccianti, avanti e indietro dal campo alla piazza, per cinque volte fino a che c’è luce.

Il padrone è solo un’immagine consolatoria della nostra vita spirituale o può dire qualcosa in termini di giustizia e solidarietà?

Così gli ultimi operai che nessuno vede nessuno chiama. Siamo vigna di Dio: fatica e passione, il campo più amato. La terra intera è vigna amata, con i suoi grappoli gonfi di miele e di sole, ma anche con le sue vendemmie di sangue. Pressato da qualcosa che non è il lavoro in vigna: che senso ha reclutare lavoratori quando resta un’ora di luce? Il tempo di arrivare alla vigna, di prendere gli ordini dal fattore, e sarà subito buio.

Rivelatrici le parole del padrone: Perché ve ne state qui, tutto il giorno senza fare niente? Quegli uomini inerti producono un vuoto, provocano una mancanza di senso, il giorno attorno a loro si ammala. Questo accade perché la maturità dell’uomo si realizza sempre in tre direzioni: saper amare, saper lavorare, saper gioire.

Nessuno ha pensato agli ultimi, allora ci penserà lui, non per il suo ma per il loro interesse, per i loro bambini, come virgulti d’ulivo attorno alla mensa senza pane. Quel cercatore di braccia perdute si interessi più degli uomini, e della loro dignità, che non della sua vigna; più delle persone che del profitto. Un grande. Accompagniamo questi ultimi braccianti fino a sera, al momento clou della paga. Primo gesto spiazzante: sono loro, gli ultimi arrivati, ad essere chiamati per primi, quelli che hanno lavorato di meno.

Secondo gesto che stravolge la logica: loro che hanno lavorato un’ora soltanto, per una frazione di giornata ricevono la paga di una giornata intera. E capiamo che non si tratta di una paga, ma di altro modo di abitare la terra e il cuore. Quando poi arriva il turno di quelli che hanno lavorato dodici ore, portato il peso del caldo e della fatica, si aspettano, giustamente, pregustano un supplemento di paga. Ed eccoci spiazzati ancora. La paga è la stessa: «Non è giusto» protestano. È vero: non è giusto. Ma il padrone buono non sa nulla della giustizia, lui è generoso.

Neppure l’amore è giusto, è di più. La giustizia non basta per essere uomini, tantomeno per essere Dio. Alla loro delusione risponde: No, amico, non ti faccio torto. Il padrone non toglie nulla ai primi, aggiunge agli ultimi. Non sottrae nulla, dona. Non è ingiusto, ma generoso.

E crea una vertigine dentro il nostro modo mercantile di concepire la vita, sopra l’economia di mercato stende l’economia del dono: l’uomo più povero, senza contratto, viene messo prima del contratto di lavoro. La giustizia umana è dare a ciascuno il suo, quella di Dio è dare a ciascuno il meglio. Nessun imprenditore farebbe così. Ma Dio non lo è; non un imprenditore, non il contabile dei meriti, lui è il Donatore, che non sa far di conto, ma che sa saziarci di sorprese.

Ti dispiace che io sia buono? No, Signore, non mi dispiace affatto, perché sono l’ultimo bracciante, perché so che uscirai a cercarmi ancora, anche nell’ultima luce.

 
 
 

Raccontare Sarajevo

2024, HuffPost, 13 aprile

Sarajevo chiede un segnale dall'Europa

La magia della città è tornata, 32 anni dopo l'inizio di quella terribile guerra. L'equilibrio è precario e i segni del passato sfumano solo nei sorrisi dei giovani. I negoziati di adesione all'Unione europea un nuovo inizio e, forse, la fine dei fantasmi

Raccontare Sarajevo dopo essere tornata, dopo averla lasciata, è un supplizio. Chi la conosce, chi ha dimestichezza con la malìa di questo cuore balcanico, può capirmi all’istante. Sarajevo ti conquista e non ti lascia più. Quando arrivi da lei, che sia un volo o una strada, a farti da guida sono i fiumi, fiumi dai colori pazzeschi, somigliano alle vene dei polsi, è quel celeste, è quella segretezza potente di sangue vivo che scorre. Li vedi dall’alto oppure li costeggi fino a un certo punto – un contrasto netto tra azzurri e verdi e marroni - poi tutto sembra fermarsi, sparisce la Drina, sparisce la Neretva. A Sarajevo il fiume che ti accoglie si chiama Miljacka e la città la attraversa tutta, un fiume limpido, poco profondo, tonalità bronzea, profumo lieve, salmastro. Raccontare Sarajevo è un disastro, è come quando ti innamori e devi provare a dirlo a parole e tutto si somma e moltiplica e diventa incomprensibile ogni parola che nell’entusiasmo, nello stupore, si perde, precipita. Hai mille cose da dire e in fondo nessuna, basta quell’emozione dentro.

Dove c’è un fiume ci sono montagne, e le montagne intorno a Sarajevo creano una corona, una cassa toracica. Nel 1984, e quest’anno la città è in festa per questo anniversario, qui ci furono le Olimpiadi invernali. Tutto il mondo guardò con curiosità a questa parte del mondo. Si chiamava Jugoslavia, allora. Nel 1992, era il 5 aprile, su quelle stesse montagne trovarono posto altri ideali: i serbi diedero vita ad un assedio che si sarebbe concluso il 29 febbraio del 1996. Giorni, mesi, anni per torturare una città, tentare di condurla alla pazzia, cancellarla. Granate lanciate in ogni momento – circa 329 esplosioni ogni giorno con un record di 3777 bombe registrate il 22 luglio del 1993 – contro le abitazioni, i cecchini disseminati in tutti i posti strategici pronti a sparare contro chiunque. Sono passati trentadue anni da quel 5 aprile, un giorno che era cominciato con una manifestazione per la pace. Sul ponte Vrbanja, a poche centinaia di metri dal centro della città, i serbo bosniaci uccisero – punto di non ritorno – due ragazze che facevano parte del corteo, Suada Dilberović e Olga Sučić. Una targa le ricorda e l’incisione è il senso di tutta quella guerra, della resistenza degli abitanti di Sarajevo: Kap moje krvl poteče. I Bosna ne presuši. Il sacrificio delle singole vite per la libertà e la conferma di un popolo. 

Ci sono ancora i segni di quella tortura, sono le voragini dei proiettili e delle granate sulle facciate, le depressioni conservate sull’asfalto, si chiamano Rose di Sarajevo, una vernice rossa colata dentro per ricordarne la potenza distruttiva. Sono le migliaia di tombe disseminate ovunque, nell’ex stadio olimpico, sulle colline, nei parchi. Sono le migliaia di targhe con nomi e cognomi e due date, una nascita naturale e una morte assassina, in memoria. Ci sono ancora, i segni di quella tortura e, chi conosce Sarajevo sono certa concorderà con me, sono gli elementi da posare con forza sul tavolo dei negoziati di adesione della Bosnia ed Erzegovina all'Unione europea approvati dal Consiglio europeo lo scorso 21 marzo. I segni inequivocabili di quella tortura sono immensi: arrivi a Sarajevo e i suoi abitanti ti accolgono con grazia e cortesia, arrivi a Sarajevo e non importa la tua fede, puoi essere cristiano, musulmano, ortodosso, ebreo, ateo, sei il benvenuto in ogni chiesa, in ogni moschea. Sarajevo appoggia la gente di Gaza ma fuori dal Tempio non ci sono forze armate in difesa: appoggiare la gente palestinese non vuol dire odiare la gente d’Israele. Sarajevo e il suo recente passato questo può insegnarlo al mondo: attenti a non confondere le mire espansionistiche e aggressive di pochi con la sete di pace di quasi tutti. Ho una fede cristiana per nascita, molto tiepida per convinzione ma appartengo a chi si raccomanda a Dio, Cristo e la Madonna nei momenti bui: nei giorni del Ramadan ho festeggiato l’iftar (il momento in cui, al tramonto, si interrompe il digiuno dei musulmani osservanti e si mangiano cibi tipici cominciando con una limonata spaziale e un delizioso datterino) nella piazza centrale della Baščaršija e nel cortile della moschea Gazi Husrev-beg, la più antica espressione locale del passaggio ottomano. L’Islam è religione di pace, questo messaggio nel vecchio sistema Europa – di questo abbiamo parlato una domenica caldissima con Aida e Senad in un ristorante abbarbicato sulla collina – è rivoluzionario. Non ci sono tagliateste, non ci sono padri che uccidono figlie che amano seguendo il cuore, non c’è un fango che reprime. Sarajevo ha un cuore bosgnacco (sono i bosniaci musulmani) che batte al ritmo della contemporaneità, senza paura del diverso, senza mani armate, senza menzogne funzionali (le ha patite e non provenivano da quella religione ma da chi ne professa una ‘migliore’). Questo ho detto ai miei due nuovi amici davanti a una tavola imbandita di deliziose specialità bosniache: "Sarajevo ha un messaggio potentissimo, è il minareto dal quale il muezzin richiama i fedeli alla preghiera a pochi metri dal campanile della chiesa. Sarajevo porta da sempre un messaggio scomodo per l’Occidente: la paura del diverso è una costruzione politica, non ha nulla di reale nei testi sacri. Ma togli la paura e il terrore a un popolo occidentale e hai tagliato le gambe al Sistema".

I segni di quella tortura sono i giovani di Sarajevo, bellissimi e ricchi di culture, di nuovo – ma in fondo come sempre – miscelati tra di loro, aperti al mondo e fieri delle loro radici: non è nazionalismo, parola miope, è una parola più bella, che racconta una storia passata che si tuffa elegante e sicura nel futuro, identità. Li vedi seduti nei parchi baciati dal sole, non vivono attaccati al telefonino, parlano tanto, si baciano tanto. Prega, mangia, ama: questi tre imperativi li trovi scritti ovunque, sono scritte rock, hanno un sapore originale, un passo terreno. 

I segni di quella tortura non sono mai declinati con toni vittimistici, non vengono strumentalizzati, non diventano aggressivi per vendicare. I segni di quella tortura sono gentilezza, ospitalità, sicurezza, gratitudine. Gli accordi di Dayton hanno paralizzato per quasi trent’anni il sistema politico bosniaco dando la possibilità alle tre espressioni etniche di bloccare la crescita del piccolo Paese (al 2022 erano 3 milioni e 200 mila, gli abitanti residenti, con un Pil pro capite inferiore del 65% alla media Ue). Le cose stanno cambiando, lentamente ma stanno cambiando anche lì: un esempio delizioso è il sindaco di Sarajevo, Benjamina Karić, nata l’8 aprile del 1991 ed eletta primo cittadino l’8 aprile del 2021, il giorno del suo trentesimo compleanno. 

Come si racconta, Sarajevo? Non si racconta, è inutile, non si riesce. Come si possono raccontare i sapori, il sapore della baklava, il sapore e il profumo – come si raccontano i profumi? – del pane; e le salite ripide, come tirano i tendini, come ti si mozza il fiato in gola quando poi ti giri e la vedi, la vedi bellissima e viva, Sarajevo. Suonano le campane, pregano i muezzin creando una stereofonia da brivido. Il fiume scorre e dall’alto, a guardarlo quando il tramonto colora di rosa la valle, ricorda la linea della vita. Una linea lunga, spesso frastagliata, mai davvero interrotta.

 
 
 

Filiera sporca

2024, Avvenire, 5 aprile

Moda. La lezione del caso-Armani su come pulire la filiera sporca delle "maison"

Un’indagine porta alla luce condizioni di sfruttamento e lavoro nero nella produzione di borse e cinture di lusso. La sostenibilità nella moda è solo teoria? Cosa possono fare imprese e consumatori?

Ci deve essere un limite anche a quello che si può non sapere. Soprattutto quando l’ignoranza – nel suo senso letterale, cioè il non conoscere determinate cose – può fare comodo.

Alla Giorgio Armani Operations conveniva non sapere come facessero a produrre borse e cinture di lusso società sprovviste di un reparto produzione. Nell’unico audit condotto sul fornitore nessuno evidentemente si era posto il problema. Adesso è chiaro com’è che facevano: affidavano il lavoro a quelli che i pubblici ministeri chiamano gli “opifici” cinesi. Cioè fabbriche dove nulla è regolare, secondo il resoconto offerto dalle forze dell’ordine: capannoni dove la normalità era fatta di lavoro nero, sfruttamento, turni da oltre dieci ore quotidiane, dormitori per avere i lavoratori sempre a disposizione in «condizioni igienico sanitarie sotto minimo etico».

È impossibile non riconoscere alcune delle ragioni delle associazioni industriali europee hanno spinto per ammorbidire la direttiva CSDD, quella che le impegna alla verifica della sostenibilità sociale e ambientale della propria filiera produttiva a livello globale. Andare a controllare quello che succede nelle fabbriche dei fornitori nel Sudest asiatico o nell’Africa subsahariana per vedere se tutto è in regola può essere laborioso, costoso, in certi casi incompatibile con la sostenibilità economica dell’attività di un’impresa (difatti la normativa sulle filiere sostenibili è stata un po’ allentata e salvo sorprese, il prossimo 11 aprile sarà approvata dal Parlamento europeo).

Nel caso della Giorgio Armani Operations, come in quello analogo che ha coinvolto a gennaio Alviero Martini, gli “opifici” dello sfruttamento erano dietro l’angolo. Nelle province di Milano e Bergamo, nel cuore dell’Italia più produttiva, a qualche decina di chilometri dalle “location” più “cool” dove un paio di mesi fa sfilavano modelle e modelli per mostrare i capi che le grandi maison hanno pensato per le collezioni autunno-inverno 2024-2025. Chissà come sarà il prossimo autunno-inverno in quei capannoni lombardi dove chi è sfiancato dorme e chi è sveglio lavora per fare arrivare in boutique una borsa rigorosamente Made in Italy.

Non c’era nessuna difficoltà tecnica ad assicurarsi che questa parte della filiera a cui grandi marchi della moda hanno affidato la produzione di cinture e borsette fosse in regola. L’unica difficoltà, se così vogliamo chiamarla, era finanziaria: quanto può incidere sui costi rinunciare a fornitori indecenti e affidarsi ad altri che rispettano le regole? Quanto può ridurre i margini e scontentare gli azionisti una politica di sostenibilità fatta sul serio? Le maison lo dovranno scoprire per forza, via via che le inchieste tolgono loro interi pezzi della catena produttiva.

Sarà interessante quanto il danno di immagine di una vicenda del genere peserà su Armani. Diverse indagini tra i consumatori condotte negli ultimi anni mostrano che la sostenibilità della moda interessa molto in teoria e poco nella pratica. In pochi si chiedono se i capi che comprano sono prodotti nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Questo strabismo della sostenibilità riguarda clienti delle catene di fast fashion come Shein o Primark, che cercano i prezzi stracciati, ma anche quelli dei negozi di via Montenapoleone.

 
 
 

Darya

2024, Avvenire 4 aprile

Chi è Darya, la rifugiata afghana che ha disegnato le #donneperlapace

Da Kabul al Pakistan, la 24enne racconta i suoi sogni e la sua battaglia per la libertà: «Insegno a dipingere a centinaia di ragazze online. Coi colori urliamo la nostra resistenza ai taleban»

Il mondo è finito anche per Darya, quando i taleban sono entrati a Kabul. Sono passati tre anni da quel giorno di piena estate, col caos per le strade e gli spari. «All’inizio non pensavamo di dover scappare» racconta dalla stanza piena di disegni appesi e di colori sparsi, in un punto dimenticato del Pakistan, dove vive da rifugiata insieme alla sua famiglia. È lei che ha disegnato la copertina di Avvenire dell’8 marzo e il logo della campagna #donneperlapace«Noi apparteniamo ai Kizillbash, una minoranza turco sciita. Abbiamo iniziato subito a nasconderci, e a praticare la nostra religione segretamente. Ma presto il problema è diventata la sopravvivenza: non c’era più lavoro. Oltre a me, che non potevo più studiare, è toccato anche a mio padre e ai miei fratelli restare a casa». A ottobre 2022 la scelta di lasciare l’Afghanistan, in cerca di futuro. Una parola difficile, per Darya, da sempre. «Nel mio Paese non mi è stata data mai la possibilità di studiare arte o disegno, nemmeno prima che i taleban tornassero al potere» racconta. Così da piccola lei dipingeva di nascosto: «Mi piaceva creare cose, adoravo i colori, toccarli, mescolarli fra loro. Mi sentivo libera».

Ed è alla scuola della libertà, anche grafica («non ho mai conosciuto le regole del disegno, non sono mai entrata in un museo per ammirare i quadri dei grandi artisti del passato dal vivo»), che Darya è cresciuta. Col sogno di trasmetterla alle ragazze come lei, imprigionate nelle loro case in Afghanistan dal regime che le ha progressivamente cancellate dalla vita sociale: «Io mi sono salvata dipingendo. I primi tempi, quando non potevo più uscire, o incontrare le mie amiche e persino il mio fidanzato, l’unico modo che avevo per non piangere, per non soffocare, era disegnare». Donne felici nei campi pieni di colori, con in mano aquiloni, fra i capelli libri, navi, mappe di Paesi lontani. «Quando sono arrivata in Pakistan ho subito pensato alla necessità di condividere questo mio desiderio di esprimermi, che per me aveva significato la salvezza. Così ho pensato a una scuola online, un ciclo di lezioni incentrate sull’arte come terapia e come strumento di parola, di resistenza, di lotta anche».

L’annuncio viaggia sui social network e nello spazio di pochi giorni all’account di Darya arrivano oltre 400 richieste: «Studentesse in ogni parte dell’Afghanistan, ma anche rifugiate in Pakistan come me, mi chiedevano di poter partecipare e collegarsi». La scuola di Darya ha mosso i suoi primi passi con una prima classe da venti ragazze, poi un’altra e un’altra ancora, «quelle a cui tramite alcuni amici e il mio fidanzato rimasto in Afghanistan riusciamo a far arrivare fogli di carta, pastelli e tempere». Le ore di lezione sono un momento di sfogo, spesso di commozione e di pianto: le allieve di Darya dipingono i “vasi delle emozioni” («di volta in volta li riempiamo di rosso rabbia, di blu tristezza, di nero lutto»), condividono schizzi e vignette. Ed è a loro, alle ragazze afghane dimenticate da tutti, che Darya ha deciso con Avvenire di destinare il compenso per le sue illustrazioni: «Quando mi è stato chiesto di disegnare le donne di pace le ho immaginate subito piene di sogni: per questo ho disegnato la loro chioma fluente, costellata di colombe e rose rosse, il simbolo della gentilezza e della perfezione per eccellenza. Per il logo invece ho scelto l’azzurro, che è il colore del mare, dell’infinito e della libertà a cui noi afghane non vogliamo rinunciare».

Darya parteciperà, insieme a illustratori del calibro di Zerocalcare e Vauro, anche alla campagna #iosonoarenadipace, in vista dell’incontro di Verona del 18 maggio col Papa. Quando le è stato chiesto, nei giorni scorsi, così come quando ha visto il suo disegno sulla copertina di Avvenire, si è sciolta in lacrime: «Quei sogni che ho dipinto, che sono anche i miei sogni, si sono realizzati. Significa che dobbiamo continuare a sognare, ancora più in grande».

 
 
 

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