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La mia caparbietà

Post n°2486 pubblicato il 07 Gennaio 2018 da namy0000
 

“È così che sono passata dall’immersione nel cristianesimo evangelico nei primi anni della mia vita a un islam conservatore per tutta la prima adolescenza, poi al cristianesimo della Southern baptist e, fino al termine delle superiori, all’ateismo. Prima di compiere 16 anni avevo già vissuto in ventuno case diverse, di cui solo due erano di uno dei miei genitori. Le altre erano dei parenti o di famiglie affidatarie, oppure erano istituti. Ho vissuto e viaggiato in tanti luoghi del mondo, ma il mio cuore non ha mai lasciato Gerusalemme, dove sono sepolti tutti i miei antenati, dove Sitt Hind mi ha fatto capire che valevo, e dove Umm Hassan mi ha detto che non dovevo mendicare gli avanzi di nessuno. Per trovare un minimo di controllo, ho maltrattato il mio corpo con il cibo e con droghe varie. Mi sono innamorata, e ho partorito, da sola, l’amore della mia vita. Ho avuto il cuore spezzato. Il corpo spezzato. A volte tutto spezzato.

Ho sempre tenuto con me una vecchia foto di mio nonno Atiyeh, scattata forse negli anni venti. Indossa una jalabiya palestinese e in testa porta il tarbush, il copricapo dei notabili che i palestinesi hanno ereditato dai turchi. Ha i baffi folti e lunghi e con le punte arricciate all’insù. Sta dritto in piedi, con il petto gonfio come se trattenesse il fiato. Il nonno, mi dicono, era un uomo forte e severo. Era caparbio, tenace e non si tirava mai indietro davanti a una lite. Non accettava debolezze da parte dei figli maschi ed era particolarmente duro con il minore, l’uomo che sarebbe diventato mio padre. Il nonno ha vissuto tutta la vita ad al-Tur, sul Monte degli ulivi in Palestina, dove la nostra famiglia affonda le radici da almeno novecento anni. Aveva ereditato vasti lotti di terreno sulla leggendaria collina che domina Gerusalemme. Ed è morto prima di poter immaginare che quasi tutto ciò che possedeva gli sarebbe stato portato via, e che i suoi figli sarebbero stati costretti all’esilio e si sarebbero visti negare il diritto di tornare in patria. La mia vita è ben lontana dalla sorte che Atiyeh credeva di lasciare in eredità ai suoi discendenti. Io, figlia di una lunga successione di un enorme clan di contadini palestinesi, sono cresciuta da sola, badando a me stessa, lontanissima dai miei diritti di nascita. Lontanissima anche dall’esperienza della maggior parte delle palestinesi, quasi sempre circondate e protette da famiglie numerose.

La mia vita è stata una vita non palestinese. Eppure sono arrivata a capire che rappresenta la verità più elementare su cosa significhi essere palestinesi: espropriati, diseredati ed esiliati. E su cosa significhi, in ultima analisi, la resistenza. Eccola, quella verità: essere soli, senza documenti, senza famiglia né clan, senza terra o paese significa che uno deve vivere alla mercé degli altri. Magari c’è chi si impietosisce per la tua sorte, ma anche chi vuole sfruttarti e farti del male. Vivi in balìa del capriccio di chi ti ospita, talvolta sei depredato e quasi sempre sottomesso. Finché non la pretendi e non combatti per ottenerla, raramente sei trattato con pari dignità. Tuttavia ci sono anche cose particolarmente belle e punti di forza che si trovano solo nelle trincee di questa vita. Per esempio, la capacità di camminare a testa alta anche quando qualcuno ti mette il tallone sul collo; la saggezza di fare qualsiasi cosa sia necessaria per ottenere un’istruzione anche quando ti negano la scuola; la libertà di scrollarti di dosso la vergogna e di vivere la tua verità, per quanto incasinata, senza doverti scusare; il prodigio di un corpo che si guarisce da solo dalle ferite procurate intenzionalmente da altri e che si rimette in piedi per ricostruire; e la vittoria di un cuore che non soccombe alla paura né all’odio né al rancore.

 

Essere adulto significa che prima o poi smetti di aver bisogno di far tornare tutti i conti e riesci a cavartela in qualche modo anche quando la tua sorte è in contrasto con i tuoi diritti di nascita o i tuoi sogni. Anche se mi sono vista negare la patria e l’eredità che mi appartenevano, ho avuto la grande fortuna di poter rivendicare la mia quota di caparbietà, di attaccamento alla terra e di amore per la terra che ho ereditato da Atiyeh; la mia quota di saggezza e di generosità che ho ereditato da Sitt Hind; la mia quota di bontà che ho ereditato da Umm Hassan. Di queste cose è fatta la mia identità palestinese. Della mia intifada sono fatte le mie storie. E ogni lettrice e lettore è una quota del mio trionfo” (Susan Abulhawa, scrittrice e attivista americano-palestinese, nata nel 1970, Memories of an un-palestinian story, in a can of tuna). 

 
 
 

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