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Messaggi del 10/07/2018

Vocazione al sacerdozio

Post n°2709 pubblicato il 10 Luglio 2018 da namy0000
 

La realtà ha superato ogni immaginazione. La vocazione al sacerdozio è un mistero stupendo incastonato nell’affascinante mistero della vita. Qualcosa che ti appartiene fino a un certo punto, che puoi prevedere e programmare solo in parte. Il sacerdote cattolico è, oggi, un uomo al quale si chiede molto e si perdona poco. Un uomo aggrappato al cielo, radicato in terra, ammaliato dalla Verità. L’unica, eterna verità, la verità dell’Amore. Un ingordo che non si accontenta mai, che vuole tutto, che non desidera niente, che vuole fare centro, che desidera essere ultimo. Un uomo contraddittorio come, a prima vista, sembra essere stato il suo Maestro. Sovente è incompreso, è vero, e come potrebbe essere il contrario? Non è vero che è un buonista. Al contrario, è arso dalla sete di Dio, e dalla sete di giustizia. Errori, limiti, peccato nulla tolgono ma tutto aggiungono alla bellezza del sacerdozio. Se la mia pigrizia, la mia negligenza, il mio scarso desiderio di santità non mi permettono di arrampicarmi sulle alte vette dello Spirito la responsabilità è tutta mia. «Io so in chi ho creduto», scrive san Paolo. Anch’io.

Di errori ne abbiamo commessi tanti, ma uno, credo, si è rivelato più pesante degli altri. L’errore che si commette quando, avendo i granai strapieni e le botti traboccanti di vino, non si sente più il bisogno di svegliarsi presto la mattina per correre in campagna a zappare, seminare, innaffiare, mietere. E ci si lascia intontire dalla noia. Vivere di rendita è orribile. Non c’è niente di peggio per un giovane dell’essere nato in una famiglia ricca che lo induce a campare di rendita, privandolo della soddisfazione di pensare, faticare, produrre, inventare, soffrire, stancarsi. Donarsi. Qualcosa di simile è avvenuto e avviene nel campo della fede. Cristo è dono, ma anche conquista; pace vera e strana inquietudine. Antico e sempre nuovo. Pur essendo il mio più grande amico, non si lascia incatenare da me, dalle mie opinioni, dalle mie paure, dalla mia superbia. Appena tento di farlo scappa via e non lo trovo più. La sua assenza mi è insopportabile, senza di Lui vivere è impossibile. Allora corro a cercarlo, ovunque. E lo trovo. Nei tramonti struggenti, nel mare in tempesta, nelle donne che allattano serene, nelle mamme risucchiate dal mare in tempesta, nei bambini che giocano, nei bambini che muoiono.

Cristo da me non vuole essere difeso. Lui non ha nemici. Da me vuol essere cercato, coccolato, amato. Dal carcere, Luigi mi scrive: «Non puoi immaginare, padre, la gioia che mi hai dato nel venirmi a trovare per celebrare la Messa per me e i miei compagni di sventura. Mi sento sollevato anche se la mia condanna è ancora lunga…». Sapesse, Luigi, la gioia che loro hanno dato a me. Il Vangelo tra le sbarre. La Libertà in prigione. Cristo povero tra i poveri.
A Mara l’acqua era tanto amara da non poter essere bevuta. «Mosè invocò il Signore il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce». Lontana figura di un altro legno, il legno della croce che addolcisce gli animi, rafforza i vacillanti, rialza i caduti. Dona speranza ai semplici. Alla luce della croce nelle acque amare del Mediterraneo intravedo il Crocifisso che annaspa, si dimena, si dispera, invoca aiuto. Annega. Ne sono certo, è Lui. Riconosco il volto, il linguaggio, i lamenti. Riconosco la sua preghiera. Che faccio? Non chiedermi, ti prego, di rimanere fermo, di badare ad altro, di tornarmene a pregare nella mia chiesetta. Non chiedermi neppure di vederlo in Te quando la tua vita arranca, non chiedermi di fingere di non riconoscerlo quando viene travolto dalle onde. Ma a che serve riempire l’Altare di fiori, di incenso, di preghiere se poi lascio morire il fratello e la sorella di fame e di freddo?

Il sacerdote è un uomo preso tra gli uomini per annunciare il Vangelo e aiutare gli uomini a rimanere uomini, resistendo all’egoismo, alla menzogna, all’ipocrisia. Ascoltiamo papa Francesco: «La stanchezza dei sacerdoti, sapete quante volte penso a questo…». Grazie, Santità. Perciò, fratelli, pregate per noi. «Quando Mosè alzava le mani Israele era più forte, ma quando le lasciava cadere era più forte Amalek». Perché non accadesse, Aronne e Cur gli sostennero le braccia. Impariamo a farlo anche noi. Sosteniamoci a vicenda. Crediamoci: «alla sera della vita ciò che conta è avere amato». «Ama e fa quello che vuoi». Ma prima ama. Aiutateci ad aiutarvi. Aiutiamoci ad aiutarci. E siamo riconoscenti.

(Maurizio Patriciello, Avvenire, domenica 8 luglio 2018)

 
 
 

Il pregiudizio

Post n°2708 pubblicato il 10 Luglio 2018 da namy0000
 

Il pregiudizio che «conduce a una falsa rappresentazione della realtà. Il pregiudizio è un modo errato di relazionarsi con gli altri. Senza conoscere, si danno etichette, si catalogano le persone secondo schemi artefatti e miopi. Quasi sempre poi la realtà fa venire fuori la verità, smantella le bugie, gli inganni che si erano formati con il pregiudizio». È il caso di «chi viene qui a Polsi per la prima volta. O va a San Luca. O viene nella Locride. Quanti pregiudizi nella sua mente, sulla base di una conoscenza per sentito dire. Venendo qui si pensa di incontrare il male fattosi persona, una comunità di malfattori. Pensa di incontrare bambini col tatuaggio dello scorpione. Qui ci sono bambini normali, intelligenti. Senza alcun tatuaggio. Ci sono ragazzi che amano la vita, che magari desiderano realizzarsi nello sport e superare il complesso di abitare una terra maltrattata e dimenticata. L’unica pecca potrebbe essere arrendersi alla logica di un destino di miseria, di disoccupazione e di disperazione. I ragazzi di San Luca – come tutti i ragazzi di questa terra – sono creature innocenti amate da Dio. A nessuno è lecito offenderne la dignità o strumentalizzarli per altri obiettivi. Qui non ci sono bambini appartenenti alla criminalità. Né i bambini sono responsabili delle malefatte dei genitori. Purtroppo sono sempre loro a pagare le ingiustizie e le malefatte altrui. È esigenza di civiltà tutelarli da ogni fenomeno delinquenziale, offrire loro opportunità di crescita e formazione, spazi di socializzazione e di amicizia. Come chiesa non ci stancheremo di lavorare nella loro formazione umana e cristiana». (Avvenire, 9 luglio 2018).

 
 
 

Il vicino di casa

Post n°2707 pubblicato il 10 Luglio 2018 da namy0000
 

2016, Avvenire, Lorenzo Fazzini, 13 agosto. Intervista a Johnny Dotti. Titolo Articolo

Il vicino di casa diventa «social». Johnny Dotti, imprenditore nel sociale (in passato è stato presidente Cgm, la più grande impresa a rete di cooperative sociali in Italia, oltre ad essere stato il fondatore di Welfare Italia), ne è convinto. E nel libro Buono è giusto. Il welfare che costruiremo insieme (Luca Sossella Editore, pagine 164, euro 15,00), scritto insieme al giornalista Maurizio Regosa, ne fornisce cifre ed esempi concreti. Dotti chiede un cambio di passo, ovvero «immaginare un altro ordine delle cose, pensare a nuove forme dell’abitare che si traducono in nuove forme della socialità». «Il cambiamento principale riguarda la capacità di immaginare la proprietà privata come un affidamento di un bene, e non come il possesso in termini assoluti. Del resto questo rappresenta un principio che è nel Dna del cristianesimo. Quindi, il dato di novità consisterebbe in questo sguardo nuovo sulla proprietà privata che non deve risultare un dato assoluto. Penso al discorso degli immobili: premesso che la proprietà privata resta sacra, è indubbio che un certo modo di considerare l’edilizia in chiave di possesso assoluto ha tarpato le ali ad un discorso ideale, che vede la famiglia come parte di una società più vasta e come fonte di altruismo. Non è un caso che la grande crisi finanziaria sia partita dal settore immobiliare, perché la casa è stata ridotta semplicemente ad appartamento, o comunque a bene assoluto e privatistico. La casa va invece immaginata, a mio modo di vedere, non come un luogo esclusivo e assoluto, bensì che resta aperto. Scherzando, ma non troppo, dico che bisognerebbe fare un marcia contro gli appartamenti, che privatizzano un bene aperto alla dimensione sociale come è l’abitazione. Qualcosa però si sta muovendo…». «Penso al fenomeno del welfare street, alle esperienze di vicinato, di piazza, di competenze messe a servizio e in circolo vicino a casa. Oggi con i social network si mettono in circolazione quelle possibilità e disponibilità che un tempo si veniva a conoscere con il passaparola. Ad esempio, in paese una volta c’era sempre una donna capace di fare le punture, oggi questa competenza viene fatta conoscere con facebook: io mi prendo carico di tua figlia quando tu non puoi, tu fai lo stesso con mio nonno quando devo assentarmi. Tutto questo poi diventa quanto mai importante perché siamo davanti a un cambiamento demografico epocale, per cui l’equilibrio tra gli over 65 anni e gli under 25 è decisamente sbilanciato a favore dei primi. O ci si immagina nuove forme dell’abitare, o la questione verrà affrontata solo in termini sanitari. E naturalmente solo per i pochi fortunati che se lo potranno permettere. Ecco allora esperienze o idee che vanno diffondendosi: la badante di condominio, il giardino comune, la lavanderia in comproprietà, … Tutte le società avanzate hanno economie che si fondano sull’edilizia. Per farla ripartire anche da noi serve un cambiamento di mentalità che non punti più sull’elemento individualistico/privatistico (ovvero, per sintetizzare, sull’appartamento) ma immagini di aggregare le domande che vengono dalla società, dando delle risposte innovative». «È follia pensare di far a meno dell’economia. Ma penso che le leve delle scienze economiche oggi in essere, ovvero l’efficienza e l’efficacia, non siano le sole da tenere in considerazione. Vi sono anche i significati e i legami sociali che diventano variabili importanti. Questa è semplicemente la tradizione cattolica, per come la conosco. L’efficienza non è un valore in sé, lo è quando sta dentro un quadro di riferimento più grande, che è il legame sociale. E la cosa curiosa è che il capitalismo questa cosa l’ha capita meglio di noi…». «In Italia sono attive una trentina di esperienze di quel welfare street di cui accennavo prima. A Milano è da segnalare l’esperienza pluriennale della Barona, un housing sociale per dare case a famiglie non abbienti. Ma è qualcosa di più che le semplici abitazioni a prezzo modico: in quello spazio ci sono comunità per nuclei famigliari mamme/bambini, è attivo un ristorante, esiste un centro lavoro, tutto pensato con uno scambio mutualistico. Le famiglie pagano 150 euro di affitto ma mantengono e curano il parco della cooperativa; gli studenti hanno un affitto basso ma devolvono almeno quattro ore di volontariato all’interno della struttura. E tutto questo crea legame sociale». «Lo Stato deve essere promotore e facilitatore, non il capobastone. Per la semplice ragione che lo Stato non è capace di attivare legami e creare senso, può solo favorire le condizioni perché questo accada».

 
 
 

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