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Un mondo nuovo

Come creare un mondo nuovo

 

Messaggi di Luglio 2018

Populismo

Post n°2738 pubblicato il 31 Luglio 2018 da namy0000
 

POPULISMO. “Dice il dizionario: “Populismo, atteggiamento politico di esaltazione velleitaria e demagogica dei ceti più poveri”. Oggi il termine populista viene associato  leader politici molto diversi tra loro, come il turco Recep Tayyip Erdogan, lo statunitense  Donald Trump, l’austriaco Sebastian Kurz, l’ungherese Viktor Orbán, il polacco Jaroslaw Kaczynski, il britannico Nigel Farage, lo spagnolo Pablo Iglesias, l’italiano Luigi di Maio, il ceco Miloš Zeman, il messicano Andrés Manuel Lopez Obrador, il venezuelano Nicolás Maduro, i francesi Marin Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. Nel 1979 il filosofo argentino Ernesto Laclau, uno dei più attenti studiosi del fenomeno, scriveva: “’Populismo’ è un concetto tanto ricorrente quanto inafferrabile. Se pochi termini sono stati così largamente usati nell’analisi politica contemporanea, è anche vero che pochi sono stati definiti con minore precisione. In modo intuitivo sappiamo a cosa ci riferiamo quando chiamiamo populista un movimento o un’ideologia, ma troviamo molto difficile tradurre la nostra intuizione in concetti. Questo ha portato a una sorta di pratica ad hoc: il termine continua a essere usato in modo allusivo, e qualsiasi tentativo di verificarne l’esatto contenuto è ormai abbandonato”. D’altra parte Sylvie Kaufmann su Le Monde osserva che “la difficoltà nel definire con esattezza il populismo riflette la nostra difficoltà nel definire questi regimi apparentemente democratici ma con tendenze autoritarie, che emergono ovunque”. Però la proliferazione dell’uso generico del termine è dannosa perché, scrive Roger Cohen sul New York Times, “è cruciale distinguere tra un nazionalista xenofobo  e un elettore moderato che ha scelto Trump pensando che fosse un’opzione migliore di altre”. Anziché usare la parola “populista”, quasi sempre possiamo trovare un modo più preciso per definire un partito, un movimento o un leader politico” (Internazionale n. 1266 del 27 luglio 2018).

 
 
 

La parola di pace

È femminile la parola di pace

Luigino Bruni, Avvenire, sabato 28 luglio 2018

Il gran visir il quale era suo malgrado il ministro di tanta ferocia, aveva due figlie, la maggiore delle quali aveva nome Scheherazade, e l’altra Dinarzade. Un dì che stavano insieme a colloquio, Scheherazade gli disse: Padre, io ho in animo di fermare il corso delle barbarie che il sultano esercita sulle famiglie di questa città; voglio dissipare il giusto timore che hanno tante madri di perdere le loro figliuole in sì funesta maniera
Le Mille e una notte

Le parole possono uccidere, ma sanno anche allontanare la morte. È logos il primo nemico di tanatos. Finché abbiamo ancora qualcosa da raccontare, possiamo rinviare di un giorno il suo arrivo, e, forse, quando giungerà perché avremo terminato il nostro racconto, scopriremo che avevamo ancora una storia da raccontare, ed era quella per lei. Le donne hanno una particolare familiarità con la morte, perché hanno una speciale intimità con la vita. Forse perché da millenni hanno custodito la casa, dove hanno sviluppato una delle relazioni primarie mentre gli uomini si dedicavano all’economia delle relazioni produttive e militari fuori di casa. Le donne sono diventate esperte di vita e di morte, insieme. Hanno lavato e vestito i propri bambini e i propri morti, accudito ferite che raramente guarivano, apparecchiato lo stesso letto, spesso l’unico grande della casa, oggi per un parto e domani per la camera ardente di un genitore. In rapporto alla morte, la vita è per loro come un giardino per ciechi: non la vedono ma la toccano, la sentono, la respirano. E quando, alla fine, aprono finalmente gli occhi e la guardano in faccia, scoprono che la conoscevano già, come solo una donna conosce una sorella. La morte non sembra essere il loro nemico più grande. Per uccidere veramente una donna non basta toglierle la vita. Nella Bibbia le donne, in genere, non terminano la loro vita morendo, ma uscendo di scena dopo essere state violentate e umiliate, a dirci, forse, che sono queste morti quelle che le fanno morire davvero.

«Capitò là uno scellerato chiamato Sheba, figlio di Bicrì, un Beniaminita, suonò il corno e disse: "Non abbiamo alcuna parte con Davide"» (2 Samuele 20,1). Con questo tentativo di insurrezione, un uomo della famiglia di Saul continua la lotta tra le tribù legate a Saul e quelle fedeli a Davide, e segna al contempo l’inizio del conflitto tra Nord (Israele) e Sud (Giuda) che porterà poi alla tragica scissione del Regno di Davide. In questi capitoli conclusivi del Secondo libro di Samuele, stiamo vedendo che il partito di Saul, sebbene sconfitto da quello di Davide, era rimasto vivo e forte in Israele, soprattutto nella sua tribù di Beniamino. La guerra con suo figlio Assalonne, che rappresentò la crisi politica più grave del regno di Davide, creò crepe anche teologiche, dove cercarono di insinuarsi le frange rimaste fedeli a Saul – in realtà, la tribù di Beniamino, per il suo essere cerniera tra Nord e Sud, ha sempre rappresentato un elemento critico per Gerusalemme: non dimentichiamo che anche il profeta Geremia e Paolo-Saul di Tarso, entrambi critichi verso Gerusalemme e la sua tradizione, erano beniaminiti.

Intanto Davide, dopo il temporaneo abbandono della città per reprimere la congiura di Assalonne, è rientrato a Gerusalemme. Il suo primo atto politico post-crisi riguarda le dieci concubine che aveva lasciato in città al momento della fuga (15,16), e delle quali Assalonne era entrato in possesso (16,21) per dire a tutto il popolo chi era il nuovo re. Per rendere pubblico quel gesto, sul terrazzo della reggia era stata eretta una tenda dove Assalonne entrava dalle donne (16,22). Forse era lo stesso terrazzo da dove suo padre aveva osservato Betsabea fare il bagno, poi l’aveva desiderata e quindi consumato l’adulterio all’origine del sangue che non cessò più di macchiare la sua famiglia. Tornano qui ancora le donne usate come strumento del potere, donne che vivono nella reggia senza essere viste né riconosciute come persone. L’harem era parte della ricchezza di un re, un insieme di cose, oggetti, beni senza diritti e senza nome. C’è voluta tutta la Bibbia, e non è stata sufficiente, perché la donna tornasse quell’ezer kenegdo che l’Adam con grande gioia riconobbe nell’Eden come "suo pari", come qualcuna con cui incrociare gli occhi alla stessa altezza, nell’evento decisivo che la Genesi (2,23) pone all’inizio della creazione, come pietra angolare della sua antropologia e teologia. Per millenni, invece, gli occhi delle donne sono rimasti più bassi di quelli dei maschi, più vicini agli occhi degli animali che a quello dei mariti, occhi bellissimi che guardavano davanti senza essere né incrociati né riconosciuti come pari.

«Davide entrò nella reggia a Gerusalemme. Il re prese le dieci concubine che aveva lasciato a custodia della reggia e le mise in una residenza sorvegliata; dava loro sostentamento, ma non si accostava a loro. Rimasero così recluse fino al giorno della loro morte, vivendo da vedove» (20,3). Davide, per chiudere definitivamente la parentesi politica di Assalonne, condannò quelle dieci donne alla clausura a vita, a scontare, innocenti, la loro vedovanza del figlio ribelle che le aveva consumate senza chiedere loro il permesso. Donne, come Tamar, senza colpa, che devono scontare peccati e vendette di maschi, imprigionate in una vedovanza forzosa politica e sociale, usate come messaggio di carne da inviare al popolo (Giudici 19). Le donne, quando le parole erano finite o avevano esaurito il fiato, hanno dovuto parlare con la loro carne, con i loro figli e con le loro clausure, che anche quando sono un messaggio di vita restano sempre un sacramento di carne per dire parole di spirito, che quasi mai vengono raccolte e comprese.

Non possiamo però non restare colpiti e turbati dall’indifferenza con la quale lo scrittore biblico ci comunica questa clausura non scelta di donne, come se quella pietas che ha saputo usare per i grandi uomini non fosse necessaria per queste donne, e per molte altre. Sarebbe bello, se ne fossimo capaci, immaginare e magari scrivere alcuni episodi della storia narrata dai libri di Samuele vista dalla prospettiva delle donne. Chiederci: come avrà vissuto Mical, figlia di Saul e moglie di Davide, la guerra civile tra suo padre e suo marito, e come la morte di Gionata e degli altri suoi fratelli? E quali sentimenti e, forse, quali parole avrà avuto Betsabea per la morte del bambino senza nome che YHWH volle per punire la colpa di Davide? E cosa disse, se disse qualcosa, Ahinoam, la madre di Assalonne, quando seppe che quel figlio, il più bello di tutti, era rimasto impigliato con la sua chioma in un albero e poi ucciso da Ioab? Come leggono e vivono le madri la storia delle guerre e delle violenze degli uomini? Quali sono le loro parole diverse?
Ma in questa vedovanza claustrale e in questo triste silenzio di donne, ecco che la Bibbia ci fa conoscere un’altra donna, e così ci fa ascoltare alcune delle parole femminili troppe volte azzittite. Ascoltando le sue parole possiamo provare a udire quelle delle tante donne mute sepolte dalla storia e dalla Bibbia. 

La rivolta di Sheba non ha trovato seguito in Israele. Così con i suoi pochi uomini trova rifugio in una città del Nord: Abel (Abel-Bet-Maacà). Ioab che è al suo inseguimento, assedia la città, e inizia la costruzione di un terrapieno appoggiato alle sue mura per espugnarla. 
Dopo la donna senza nome e saggia di Tekòa (cap. 14), qui, in un altro momento decisivo, entra in scena un’altra saggia donna senza nome: «Allora una donna saggia gridò dalla città: "Ascoltate, ascoltate! Dite a Ioab di avvicinarsi, gli voglio parlare!". Quando egli le si avvicinò, la donna gli chiese: "Sei tu Ioab?". Egli rispose: "Sì". Allora ella gli disse: "Ascolta la parola della tua schiava". Egli rispose: "Ascolto"» (20,16-17). Innanzitutto colpisce che sia una donna a prendere la parola a nome della città. In un mondo di uomini, in un momento di grande crisi dove è in gioco la sopravvivenza della comunità, è una donna a parlare, e lo fa con autorità, tanto che Ioab l’ascolta. E la donna gli dice: «Una volta si soleva dire: "Si consultino quelli di Abel", e la cosa si risolveva. Io vivo tra uomini pacifici e fedeli d’Israele, e tu cerchi di far perire una città madre in Israele. Perché vuoi distruggere l’eredità del Signore» (20,18-19). Abel era in Israele una città madre di pace, aveva una storia e una vocazione di saggezza e di fedeltà. La donna saggia di Abel usa ilgenius loci della sua terra, si aggrappa alle sue radici per salvare l’albero della vita, perché le radici non sono il passato ma il presente e il futuro. Ma le radici possono salvare se qualcuno le sa chiamare perché le sa vedere e capire – anche questo è il talento delle donne, perché la generazione della vita le fa esperte del legame tra le generazioni

Il dialogo tra la donna saggia e il generale spietato continua: «Ioab rispose: "Non sia mai, non sia mai che io distrugga e devasti! La questione è diversa: (…) Sheba ha alzato la mano contro il re Davide. Consegnatemi lui solo e io me ne andrò dalla città" (20,20-21). La donna ha raggiunto il suo scopo, salvare con la parola dalla morte la sua città e i suoi abitanti; e, anche qui, agisce immediatamente: "La donna disse a Ioab: "Ecco, la sua testa ti sarà gettata dalle mura". ... Allora quelli tagliarono la testa a Sheba, figlio di Bicrì, e la gettarono a Ioab" (20,21-22). Oggi, forse, chiameremmo "saggio" un mediatore capace di salvare anche la vita del ribelle. Alla Bibbia la sorte di Sheba interessa poco (in quel mondo la morte di quel tipo di ribelli era cosa certa). In questo racconto quella donna è chiamata saggia perché in una situazione disperata seppe trovare, rapidamente, la sola soluzione possibile per salvare la sua città dalla distruzione, convincendo con il dialogo quel sanguinario comandante a cambiare idea, e così guadagnare la pace. In un luogo liminare tra la morte e la vita, che sono i luoghi dove la Bibbia spesso colloca le donne, la donna di Abel seppe salvare una "città madre" i suoi figli. In quel prodigioso duello, furono le parole di pace della donna saggia a prevalere. 

Quella donna resta senza nome, ma non senza parole. A volte, nella Bibbia, i protagonisti di racconti dal grande messaggio restano intenzionalmente senza nome. Il loro anonimato non riduce il valore delle loro parole e lo universalizza – «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico», «Un uomo aveva due figli...». Noi possiamo riempire quell’assenza di nome con il nostro, e poi sentirci ripetere: «Va’, e anche tu fa’ lo stesso». - l.bruni@lumsa.it

 
 
 

Prendo il fresco

Post n°2736 pubblicato il 30 Luglio 2018 da namy0000
 

“Prendo il fresco in pineta, nell’afa delle prime ore pomeridiane. Adolescenti di diverse età, seduti in gruppi distinti, parlano, ridono, giocano a carte, si abbracciano. Mi raggiungono, di tanto in tanto, anche espressioni volgari e attributi poco generosi nei riguardi del Padre eterno. Che strani questi giovani. Appena ieri rivelavano innocenza e stupore. Adesso, l’agnello si è trasformato in capro. Ma ciò deve succedere. In qualche modo, lo richiede la crescita. Quando gli occhi si aprono e si scopre il mondo, nella sua nuda, deludente realtà, allora l’ingenuità fiduciosa dell’infanzia si tramuta in tracotanza ormonale e in ribellione, torbida e dissacratoria. Tuttavia, sotto la maschera trasgressiva, i giovani sembrano celare il bisogno di rinnegare una cultura ipocrita, basata sul compromesso, per ricreare il mondo a modo loro. Anche se la loro idealità radicale darà vita, inevitabilmente, a nuove forme di ipocrisia e di compromessi. Tra vent’anni questi giovani non ricorderanno nemmeno gli eccessi di questa fase. Tutto sarà rimosso per garantire all’adulto un minimo di autostima. Ma questa è la loro ora, quella di provare e di sbagliare. È grazie agli errori che gli uomini crescono. Penso a tutto questo e rimango sereno, seduto sulla mia panchina. No. Questa volta, non mi alzerò. Non andrò a parlare con loro. Non ci sarà nessun dialogo coscientizzatore sulla correttezza dei comportamenti. Anche loro, i giovani, chissà perché, si tranquillizzano. Comprendono. È come se avessi comunicato loro qualcosa con il pensiero… Mi torna in mente Osea. Descrivendo la collera di Dio per l’infedeltà del popolo, il profeta gli mette in bocca queste parole: ‹‹Non farò del male a questo popolo. Il mio cuore freme di commozione dentro di me››. L.V.” (Lettera firmata pubblicata da FC n. 30 del 29 luglio 2018).

 
 
 

In macchina

Post n°2735 pubblicato il 29 Luglio 2018 da namy0000
 

ACCOGLIENZA PERSIANA. Un gruppo di tour operator olandesi ha girato l’Iran alla ricerca di mete poco note e percorsi alternativi. Scoprendo un paese caloroso, fiero e pieno di sfumature.

È quasi mezzanotte quando, sotto la luce gialla degli archi del ponte Khaju, capolavoro dell’architettura persiana nella provincia di Isfahan, un uomo con i baffi e un completo troppo grande attacca una canzone su una bella ragazza che lo ignora. Un ragazzo con la barba incolta e una catena d’oro intorno al collo si mette a ridere. Bambini, coppie di anziani e gruppi di amici rallentano, si arrampicano sui parapetti, appoggiano la schiena a muri secolari e cominciano a battere le mani a tempo. Tutti conoscono questa canzone romantica.

“Vengo qui per amore”, dice un giovane sergente che passeggia con la fidanzata, “e per trascorrere una serata piacevole”. È contento della presenza degli stranieri: “Più turisti ci sono, meglio è. Fa bene alla nostra economia e alla nostra società”. Ma viene interrotto da un uomo con un vestito marrone che vuole sapere perché parla con noi: “Cosa gli stai dicendo?”.

L’Iran non è una meta turistica come le altre, e questa brusca interruzione ce lo ricorda. Potrebbe non sembrare un luogo attraente, a guardare i telegiornali: uomini furiosi che gridano “Marg bar Amrika!” (Morte all’America), giovani donne che rischiano l’arresto girando per strada senza velo. Viaggiamo con un gruppo di tour operator olandesi che sono venuti a capire se il misterioso Iran, comprese le destinazioni meno note, sia adatto ai loro clienti.

Il paese attira un maggior numero di turisti da quando, tre anni fa, le sanzioni internazionali sono state ammorbidite ed è stato firmato l’accordo sul nucleare (da cui gli Stati Uniti si sono ritirati a maggio). L’anno scorso sei milioni di stranieri hanno visitato la repubblica islamica, con un incremento del 50 per cento rispetto al 2016. Sorvolate anche voi moschee scintillanti, bazar caotici, deserti luminosi, vette innevate e isole assolate nel golfo Persico a bordo di un tappeto persiano. O meglio: salite su un furgoncino con una guida e prenotate qualche volo interno. I pregiudizi sull’Iran spariranno. Dei completi estranei vi accoglieranno nei negozi di kebab o vi metteranno un braccio intorno alle spalle dandovi un caloroso benvenuto, spesso seguito da un’esortazione a non credere a quello che si sente in tv: “Sono tutte bugie!”. Quasi ogni giorno mi ritrovo seduto in un parco su un telo da picnic con una tazza di tè in mano a casa di iraniani che mi hanno invitato a mangiare carne stufata e bere vino fatto da loro.

L’Iran chiede molto ai viaggiatori, che devono munirsi di visti, portarsi contanti da cambiare da un mercante d’oro al bazar e, soprattutto, coprirsi. Che si visiti una moschea, una caffetteria, una spiaggia o una pista da sci a 3.600 metri d’altezza, la pelle rimane un tabù. La polizia tollera che gli uomini indossino bermuda sul golfo Persico, ma chi vorrebbe farlo? Le donne portano un’ampia veste sopra ai vestiti e si coprono il capo con un velo, tutt’al più allentato sulla nuca. Nuotano separate dagli uomini. Il visibile sollievo con cui giovani e anziane, iraniane e straniere si tolgono il velo in aereo suscita tenerezza.

Ma in cambio l’Iran dà molto. Ci si può perdere in una foresta di colonne all’interno di una moschea risalente a milleduecento anni fa, in bagni pubblici decorati con splendide maioliche, in giardini con siepi di rose e pozzi dei desideri, in mercati affollati pieni di bancarelle che vendono gioielli o pistacchi. Si può dormire in vecchie case di commercianti trasformate in hotel e mangiare agnello stufato con pane tradizionale in fresche cantine. L’Iran è una destinazione perfetta per gli appassionati di Instagram: scattatevi una foto con il capo coperto e una parete di maioliche celesti decorate con fiori di loto dorati alle vostre spalle, e in un batter d’occhio riceverete cinquecento like.

Un viaggio in Iran, però, può anche rivelarsi un’esperienza non esaltante. Se non fate attenzione, rischiate di visitare musei polverosi e moschee deserte e di dover dire centinaia di no a persone che vi propongono un giro in cammello. Un’escursione alla ricerca dei delfini intorno all’isola di Qeshm può degenerare in una corsa in motoscafo con incidenti sfiorati e terminare su una spiaggia stretta piena di chioschi che vendono souvenir e panini con gamberi.

Qeshm è un esempio del rapporto contraddittorio dell’Iran con il turismo. Questa grande isola vanta splendidi parchi geologici con gole serpeggianti, labirinti di arenaria friabile e luccicanti grotte di sale, gestiti dall’organizzazione internazionale Geoparks, che coinvolge la popolazione locale nella conservazione della natura, forma guide turistiche e aiuta ad avviare negozietti e piccoli alberghi.

Questo approccio sostenibile e moderno stride con i piani dei costruttori iraniani che, usando fondi cinesi, progettano grandi hotel e centri commerciali dutyfree e sognano un circuito di Formula 1. Presto saranno inaugurate tratte aeree dirette senza obbligo di visto da Bruxelles e Amburgo.

Meglio optare per una sistemazione domestica, come quella proposta dall’e pescatore Esmaeel Amini, 57 anni, che gestisce dodici camere spartane con l’aiuto della famiglia. Da Amini si mangia seduti a gambe incrociate nel cortile, si dorme per terra su un materassino sottilissimo e si asciugano i vestiti su una palma da dattero. Il capitano Amini ci ha caricati sul suo pick-up e ci ha portati al matrimonio della nipote. In casa le donne aspettano in abiti lucenti, fuori gli uomini in vesti bianche cantano una canzone marinaresca muovendo la testa e le braccia al ritmo dei tamburi. I bambini fanno capriole per imitare le onde.

Le deviazioni dal programma sono la parte migliore del viaggio. Nuotate di nascosto con persone dell’altro sesso, perdetevi nella stretta valle di Chahkouh, dormite in tenda nel deserto di Lut con cime innevate alle vostre spalle e miraggi all’orizzonte. Come ci ha detto una guida “Di notte sembra di poter afferrare le stelle e infilarle nello zaino”. Musei privati come quello delle marionette a Kashan e quello della musica a Isfahan valgono una visita.

VISITE SU MISURA. L’esperienza più bella, però, è una cena a casa di una famiglia iraniana. Nei pressi di Kerman, una città ai margini del deserto, beviamo vino dolce mentre il kebab cuoce in giardino. La tv è accesa su un canale straniero, con donne che cantano canzoni pop in farsi, mentre l’emittente pubblica trasmette un programma con tre uomini e un Corano sul tavolo. Il padrone di casa ci dice che nessuno guarda quei programmi. Dopo aver mangiato mi appisolo accanto alla piscina con una pipa ad acqua tra le labbra.

In macchina, i tour operator discutono delle loro possibilità in Iran. “Mi chiedo se Bam sia una meta da consigliare”, dice il manager di un’importante agenzia olandese alludendo alla famosa cittadina in ricostruzione dopo il terremoto del 2003. “Sono sei ore di viaggio per un giro di tre quarti d’ora”. Suggerisce di combinare la visita con un’escursione nel deserto o un incontro con un imam locale. “I nostri clienti amano viaggiare autonomamente, ma in un paese come l’Iran si perde molto se non si ha una brava guida che faccia anche da interprete”, spiega. La responsabile di un’agenzia specializzata in viaggi di lusso concorda: “Offriamo l’Iran come viaggio di gruppo, ma c’è una domanda crescente di tour individuali”. Gli hotel nelle vecchie case sembrano una soluzione perfetta, mentre dormire su un materassino per terra non fa per la sua clientela “L’isola di Qeshm è meno adatta, le persone che si rivolgono a noi preferiscono la cultura alla natura”. Un agente più giovane considera invece Qeshm un’alternativa a Dubai: “Chi non ama la moda e il lusso può trovare un’esperienza culturale autentica”.

Di tanto in tanto l’Iran mostra il suo lato meno amichevole. Capita di vedere torrette di osservazione e batterie antiaeree sullo sfondo di una montagna dove si arricchisce uranio, o d’incontrare un barbiere nel quartiere armeno di Isfahan che racconta di un amico omosessuale impiccato mesi prima. “È disumano”, dice con un sospiro. Gli iraniani che esprimono il loro parere sulla politica o servono alcolici fatti in casa chiedono spaventati di rimanere anonimi quando scoprono che sono un giornalista.

Nella corte interna dell’ex casa di un commerciante poco fuori Kashan, una ragazza con i capelli rossi siede all’ombra a bere una tazza di tè. Fa parte della piattaforma See you in Iran e parla senza remore, in un inglese perfetto. “Contrastiamo l’iranofobia, la paura del nostro paese seminata dai mezzi d’informazione occidentali. All’estero, quando dico di essere iraniana, mi sento fare le domande più assurde”. Pubblicando contributi online e organizzando incontri nell’omonimo ostello di Teheran, i giovani di See you in Iran sperano di migliorare l’immagine del loro paese. “La soluzione deve venire dalle persone, non dal governo”.

Sotto il ponte ad arcate di Isfahan la politica è lontana. “Se muoio per amore, svegliami con un bacio”, canta un gruppo di uomini con voce malinconica. Il manager dell’agenzia di viaggi riceve tre baci per il semplice fatto di essere straniero. “Sei bellissima!”, sussurra un ragazzo all’agente più giovane. Nessuno chiede soldi, non si vedono valigie piene di cd come in altre parti del mondo. “La nostra vita è dura, ma stasera ci divertiamo”, dice un uomo dall’aspetto curato che batte le mani. In un momento simile, nonostante le immagini cariche d’odio che si vedono in tv, un visitatore non può che pensare: amo l’Iran” (Internazionale n. 1265 del 20 luglio 2018).

 
 
 

Incontri a tema

Post n°2734 pubblicato il 29 Luglio 2018 da namy0000
 

Dal 1996, l’Associazione Meter invita a celebrare l’annuale appuntamento, dal 25 aprile al 1 maggio, con incontri a tema, per i piccoli e le persone vulnerabili, vittime degli ingiustificati atti di violenza e di sfruttamento, e invita alla responsabilità e all’impegno per rimuovere gli ostacoli e i pericoli. “Le vittime ci interpellano. Ferite che, se cercate, ascoltate e guarite, possono segnare la svolta della liberazione degli oppressi e dei piccoli. È uno scandalo: quello di umani che violano i piccoli umani e che tutti siamo chiamati a rifiutare e a condannare. Chi violenta non ama; e chi non ama non è generato da Dio, non conosce Dio e non può amare l’uomo: “...Io ti vomiterò dalla mia bocca(Apocalisse 3,16). Quanti, con generosità, sapienza e forza sono vicini ai deboli, in un percorso di disinteressata offerta del tempo, delle risorse umane e spirituali, sono all’opera dell’amore di Dio. Cessiamo dunque di giudicarci gli uni gli altri; pensiamo a non essere causa d’inciampo o di scandalo al fratello (Rm 14,13). Riflettiamo sulle responsabilità degli adulti nei confronti dei più piccoli e diciamo sempre la verità.

Nostro compito è quello di cercare bambini indifesi attraverso l’ascolto dei loro messaggi e l’individuazione dei loro bisogni non sempre espressi. Solo un adulto capace di comprendere pienamente le richieste di aiuto di un bambino sarà in grado di accompagnarlo nel suo processo di guarigione” (don Fortunato Di Noto, fondatore e presidente dell’Associazione Meter, che si batte da decenni per salvare i bambini e le persone fragili dalla violenza umana, 2012).

 
 
 

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