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Decisivo l'ascolto

Post n°4021 pubblicato il 01 Giugno 2024 da namy0000
 

2024, Avvenire, 30 maggio

Da medico a malata (e scrittrice): «Decisivo l'ascolto di noi pazienti»

Maria Frigerio è uno dei luminari della cardiologia e dei trapianti in Italia. A lungo direttrice al Niguarda di Milano, ora si dedica alla sua passione per la scrittura. Mentre affronta il Parkinson

«All'inizio mi arrabbiavo, ma ho imparato che con la malattia si può convivere: me lo hanno insegnato i miei pazienti». Nella consapevolezza delle parole della dottoressa Maria Frigerio, direttrice di Cardiologia all'Ospedale Niguarda di Milano fino al novembre 2021, risuonano i tanti anni di esperienza professionale. Da quando, alcuni anni fa, le è stato diagnosticato il morbo di Parkinson, si è trovata a vivere lei stessa la malattia in prima persona. «Non bisogna considerarla una maledizione del destino e nemmeno un'anomalia, non è così strano ammalarsi – spiega –. E di fronte alla realtà non è che si possa fare un granché. Tutto sommato è meglio guardarla per quello che è, e trovare il modo di adattarsi».

È una donna minuta ma imponente ed elegante. Ora che è in pensione ha potuto riscoprire l'antica passione per la scrittura. Ricorda di aver imparato a leggere quando aveva quattro anni, imitando la sorella maggiore. «Il mio professore di italiano del liceo mi disse che dovevo fare la scrittrice, non il medico. Ma speravo di poter dedicare il tempo libero alla letteratura, mentre la medicina non poteva essere un hobby. Per questo non gli ho dato retta e sono diventata una cardiologa, però è rimasta una grande passione». E scrittrice, alla fine, la dottoressa Frigerio è diventata davvero. Nel 2023 ha vinto il primo premio per la sezione saggistica e il premio speciale “Giuseppe Moscati” per la sezione narrativa del concorso letterario per medici scrittori “premio Cronin”, promosso dall’Associazione Medici Cattolici Italiani. E al Salone del Libro di Torino ha portato Il cuore che visse tre volte. Storie di cuori in transito (De Nicola Editore), racconti di esperienze di vita in ospedale raccolte da chi per oltre 20 anni è stata a capo del reparto di insufficienza cardiaca e trapianti dell’Ospedale Niguarda di Milano, che chiama «la seconda, se non prima casa». Un libro in cui toni e registri diversi si incontrano in una narrazione che pone l'accento sulla centralità del paziente e sull'importanza della personalizzazione delle cure. Il titolo corrisponde a quello del primo racconto, il più caro e personale. È il cuore di suo fratello, del suo «super fratello», che per Maria, la sorella minore, era un modello e «un po’ un mito». Quando è mancato, poco dopo aver compiuto 40 anni, il cuore di Alberto ha compiuto altri due viaggi in due pazienti in attesa di trapianto proprio nel reparto della dottoressa Frigerio.

La sua esperienza di medico e di parente si intreccia con quella dei pazienti e vibra in una narrazione puntale, intima e profonda. «L'aspetto fondamentale, secondo me, è tener presente che quando lavoriamo con i pazienti ciascuno ha la sua unicità, anche nel modo in cui reagisce e manifesta la malattia», sottolinea la dottoressa Frigerio. L'umanizzazione passa anzitutto dalla comunicazione. «Bisognerebbe insegnare a relazionarsi con il paziente, per imparare a dare le cattive notizie nel modo migliore, ma anche per informare correttamente non solo sui termini legali per il consenso informato ma perché le persone capiscano davvero». Attenzione al paziente significa anche personalizzazione delle cure, avendo la capacità di andare oltre quella che Maria Frigerio chiama «l'ossessione» per le linee guida. «Sono raccomandazioni, non norme cogenti, e bisogna sempre valutare se si adattano al proprio paziente. Le linee guida ci danno una traccia, poi però bisogna fare un passo ulteriore. Dobbiamo ricordarci che curiamo un paziente alla volta: statisticamente, la maggior parte dei pazienti con insufficienza cardiaca è anziana, ma ciò non esclude che una giovane donna possa esserne affetta. È importante non avere i paraocchi: quello che ci troviamo di fronte è un paziente, la sua storia e quello che noi siamo capaci di vedere, ascoltare e tirare fuori». Contemporaneamente, bisognerebbe rivalutare il tempo che il medico passa con il paziente: «Una visita ambulatoriale specialistica è retribuita pochissimo, mentre un esame strumentale viene valorizzato molto di più. Si dà più risalto alla tecnologia che non alla competenza clinica o alla capacità di relazione.

Chi è che dà valore al medico che si mette a organizzare bene la terapia affinché un paziente tolleri e accetti di prendere tutte quelle medicine?». Un vero punto dolente è l'organizzazione. «Da paziente ho sperimentato davvero la difficoltà di trovare la presa in carico – ammette la dottoressa Frigerio –. E mi dispiace perché io invece l'ho sempre difesa per i pazienti trapiantati o in lista, e ne sono molto fiera. Ci dicevano che i nostri pazienti erano troppo cocco-lati, ma è la cosa più logica che ci sia. Il nostro laboratorio di ecocardiografia sapeva che ogni giorno gli avremmo fornito un certo numero di pazienti, ancor prima di conoscere i loro nomi. Sapevamo la misura delle nostre esigenze: se il paziente che viene oggi a fare la visita deve rifare l'ecocardiogramma dopo sei mesi ha il suo slot già pronto». Una buona organizzazione aiuta una buona medicina, che secondo Maria Frigerio si può realizzare con la determinazione, la competenza e la pianificazione. «Avere un piano multidimensionale, onnicomprensivo del malato cronico non è una cosa impossibile da fare».

In questo senso l'innovazione e l'informatizzazione possono essere molto utili. «Penso a un allarme automatico per esami che hanno valori sballati, o per le colture positive. O una modalità, anche solo un pallino rosso, per cui quando apro il pannello degli esami mi vengano mostrati automaticamente in evidenza quelli che non ha ancora mai visto nessuno». Parlando del lavoro le si illumina il viso, stretto tra qualche onda bianca. Racconta la variegata esperienza del trapianto, lavoro specialistico e da internista, allo stesso tempo medico di famiglia e medico scienziato. Le torna in mente l'adrenalina dei momenti più critici, ma subito pensa al patrimonio relazionale con i pazienti, che in alcuni casi va avanti da più di 30 anni. «L'importante è avere la capacità e la volontà di capire il modo di pensare del paziente, e di trovare il modo di farci capire da lui. Ne ho seguiti più di mille che hanno fatto il trapianto, e tanti altri che non l'hanno fatto: non ce ne sono due uguali. L’importante è ascoltare. Noi crediamo di fare chissà cosa. In realtà, quando ci riusciamo diamo un po' di tempo in più alle persone, ma poi se in quel tempo saranno felici o infelici non è in nostro potere determinarlo».

 
 
 

Abuso dellìIntelligenza Artificiale

2024, Avvenire 28 maggio

Don Ciotti replicato dall'Ia (Intelligenza Artificiale), Europol e Onu lanciano l'allarme deepfake

Li chiamano “deepfakes”, cioè bufale hi-tech confezionate con lo zampino dell’Intelligenza artificiale

Video, foto e audio falsi, che però sembrano talmente veri da provocare danni alla reputazione, convincere le vittime designate a sborsare denaro, addirittura provocare terremoti politici. L’ultimo a farne le spese è stato don Luigi Ciotti, fondatore di Libera che fa della credibilità la sua bandiera. Il sacerdote è stato digitalmente infangato nei giorni scorsi: alcuni truffatori hanno manipolato le immagini del suo intervento a Tor Vergata del 24 marzo, in occasione della Giornata contro le mafie, per ricavarne un odioso spot su una (presunta) miracolosa cura anti artrite. “I medici non ci dicono la verità – recitava il don Ciotti contraffatto – ecco come ci si può curare anche da casa”. Il prete antimafia ha scoperto tutto e denunciato l’accaduto alla magistratura, che ora indaga per trovare i responsabili. Ma don Ciotti è solo l’ultimo di una serie di personaggi illustri "copiati" dall'Intelligenza artificiale. Prima di lui, in tempi recenti, era capitato a Fabio Fazio e a Piero Ferrari, vicepresidente del Cavallino. All’estero sono finiti nel mirino Scarlett Johansson, Tom Hanks e perfino Mark Zuckerberg (infilato in un fasullo dibattito politico).

Con l’evoluzione della tecnologia legata all’IA i deepfakes sono diventati sempre più sofisticati e, dunque, credibili. Una minaccia che purtroppo sta facendo avverare i peggiori timori di Europol e Unicri (l’agenzia anticrimine Onu), che già 4 anni fa elaborarono uno studio sui rischi derivanti dall’uso malevolo dell’Intelligenza artificiale.

Nel report un intero capitolo era appunto dedicato ai deepfakes. Nel 2020 il pericolo si traduceva soprattutto nella realizzazione di video pornografici falsi: su 15 mila filmati fake, il 96% era di contenuto vietato ai minori. La tecnica è nota: il viso di una celebrity applicato a un corpo nudo per suscitare la morbosità degli utenti. Ma se 4 anni fa il fenomeno era limitato, con l’evoluzione rapidissima degli strumenti i rischi si sono notevolmente innalzati, al punto che nei casi più complessi è difficile distinguere il vero dal falso. Certo, ci vogliono conoscenze e risorse adeguate, e i piccoli truffatori non ne hanno a sufficienza. Per questo motivo vengono quasi sempre smascherati. Ma l’Europol metteva in guardia sugli sviluppi futuri, soprattutto riguardo a campagne mediatiche e social concepite per screditare gli avversari politici. Un altro potenziale utilizzo ostile prevede la diffusione di immagini artefatte a fini di estorsione: la vittima sa che si tratta di un fake, ma non può dimostrarlo e perciò paga per evitare scandali.

Le insidie vengono anche dall’uso della voce contraffatta: Europol e Unicri hanno documentato vari casi. In uno, il dirigente di un’azienda era stato convinto a stanziare una somma di denaro credendo di parlare con il suo amministratore delegato. Addirittura, fu la stessa Europol ad andarci di mezzo: una banda di truffatori aveva usato la voce dell’ex direttore esecutivo per estorcere 10 mila euro. L’inganno era emerso quando la vittima aveva chiamato la stessa organizzazione per chiedere indietro la somma.

Il deepfake è una pratica sempre più diffusa in Africa, dove rischia di provocare effetti catastrofici e destabilizzanti. Nel 2018, un finto video raccontava che il presidente del Gabon era in fin di vita o addirittura morto: circostanza che portò i militari a tentare un colpo di Stato.

Massima attenzione anche sui passaporti: ci sono software che permettono di modificare una foto tessera in modo da far assomigliare il viso di una persona anche a quello di un’altra. Il fine è chiaro: permettere di usare un documento altrui eludendo i controlli.

Tutti pericoli molto concreti, dalle conseguenze inquietanti e forse ancora non del tutto inimmaginabili. Non a caso l’Unione Europea ha appena approvato una legge per regolare l’uso dell’Intelligenza artificiale e prevenirne gli abusi. Basterà?

 
 
 

Le battaglie di Gabriella

Post n°4019 pubblicato il 29 Maggio 2024 da namy0000
 

2023, novembre

Le battaglie di Gabriella S. per i diritti dei detenuti

Per 24 mesi ha ascoltato – prima con incredulità, poi con sconcerto, infine con indignazione – le denunce dei detenuti del carcere romano di Rebibbia. Le parlavano di latte allungato con l’acqua, di fondi di caffè utilizzati più volte, di frutta e verdura marce, di scatole di provviste scadute. Poi ha scritto un dossier di 170 pagine e l’ha consegnato alla procura della Repubblica. Nell’incontro con i magistrati, ha portato con sé una confezione di salsicce, acquistate a caro prezzo, come sopravvitto, da un detenuto: per il 90 per cento erano composte di grasso, tinto con un colorante rosa per somigliare alla carne.

Romana, 62 anni, Gabriella S. è stata per sei anni la garante dei diritti delle persone private della libertà nella capitale. L’aveva nominata, nel giugno 2017, la giunta della sindaca Cinquestelle Virginia Raggi, scegliendola tra ventotto candidati. Se da un anno la magistratura romana indaga sul vitto servito nelle carceri, il merito è suo. E si deve a lei se lo sconcertante prezzo d’appalto (2,39€ per fornire colazione, pranzo, cena a ogni detenuto) è stato aumentato a 3,90€.

Al carcere, Gabriella S. si dedica da anni. Delle sue due lauree – in lettere e in scienza dell’educazione – una la concluse scrivendo una tesi su “il carcere come regolatore della società”.

Atleta con una lunga storia di competizioni e di vittorie, maratoneta che ha cinto la fascia azzurra nelle Universiadi di Zagabria, prima donna alla guida di una federazione sportiva, ha anche organizzato la prima corsa in un carcere nel 1994, a Rebibbia. Racconta: «Lavoravo per l’Uisp (Unione italiana sport per tutti), che ogni anno teneva una gara, il Vivicittà. Mi scrisse da Rebibbia un ragazzo che anni prima correva con me aui campi dell’Acqua Acetosa: entrato nelle Brigate Rosse, per qualche anno era fuggito all’estero e nel 1983 si era costituito. Non aveva mai smesso di allenarsi, mi disse, neppure in cella, e mi chiese di organizzare Vivicittà a Rebibbia. Questo è matto, pensai. Ma andai a parlare col direttore del penitenziario, che a sorpresa accettò. Così lo sport fece ingresso ufficialmente nelle carceri italiane».

Ma «il carcere vero», Gabriella l’ha incontrato («respirato», dice) da garante: «Per 6 anni non c’è stato giorno che non entrassi nell’una o nell’altra struttura, compresi il minorile e il Cpr, il Centro di permanenza per i rimpatri. Ho ascoltato centinaia di detenuti, raccolto centinaia di reclami. I più diffusi? La salute. E subito dopo, il vitto».

Quando la notizia dell’inchiesta aperta dopo le denunce di Stramaccioni è diventata pubblica, una mattina lei è entrata in carcere e i detenuti l’hanno salutata con un applauso. «Dottore’ – le ha urlato qualcuno – oggi, per la prima volta, abbiamo bevuto un latte che sapeva di latte».

Il 13 gennaio 2023, alle 7 del mattino, quaranta agenti della Guardia di Finanza hanno bussato al portone principale di Rebibbia e sono andati dritti nelle cucine. Due mesi dopo, a marzo, il mandato di Gabriella è scaduto; il Comune di Roma non glielo ha rinnovato.

Lei si è subito lanciata in una nuova avventura: entrata nel direttivo della Fondazione Perugia-Assisi sta organizzando un percorso della pace, 1000 chilometri di corsa, da Comiso ad Assisi, «contro l’assuefazione alla guerra».

 
 
 

Sono in crisi

Post n°4018 pubblicato il 22 Maggio 2024 da namy0000
 

2024, FC n. 20 del 19 maggio

Caro don, sono in crisi. Perché sono al mondo? Qual è il mio scopo nella vita? - Ludovica

Cara Ludovica, la nostra vita e il suo senso è un mistero che si dischiude solo strada facendo. In fondo, e passami la tautologia, il vivere stesso è lo scopo della nostra vita. E se essa è iniziata con un atto d’amore umano, questo già ci rivela una gran cosa: che siamo chiamati ad amare. Dall’amore veniamo e verso l’amore andiamo. Accompagnati dall’amore. Non è uno scioglilingua e neanche una romanticheria da cioccolatini. È il senso della vita, il suo scopo. Senza amore non c’è vita. Perché? Perché solo l’amore resta, perché le civiltà si estinguono, i popoli e le potenze umane passano, ma l’amore ha un potere eterno che va oltre la morte. Per questo vivere è amare e per amare veramente bisogna saper morire a noi stessi. Come ci ha insegnato Gesù sconfiggendo la morte con la sua Risurrezione. Come, dove, quando, e chi amare te lo dirà solo il tempo. Devi avere pazienza e perseverare, stando attaccata a quello che il Signore ti chiede ogni giorno: famiglia, scuola, amici… Scoprire il senso della vita passa sempre per la valle oscura del dubbio, della paura, delle delusioni, del pianto, della tentazione di mollare. Devi rimanere sul pezzo e aver fiducia che il progetto su di te si realizzerà, chiedendo a Dio che ti illumini giorno dopo giorno. Il Signore non ci abbandona per strada ma ci segue, ci orienta, ci rialza se cadiamo. Questa è l’esperienza che Egli fa con ciascuno di noi. Migliaia di testimoni della fede sono lì a dircelo. Buon cammino!

 
 
 

Aziz e Maoz

2024, Avvenire 18 maggio

Aziz e Maoz hanno fatto pace

Ebreo uno, palestinese l'altro, hanno raccontanto la loro storia di dolore sul palco veronese. Dopo la strage del 7 ottobre hanno perso genitori e parenti, poi un messaggio li ha fatti incontrare

Si erano conosciuti dieci anni prima, per una manciata di minuti al massimo, a una conferenza. Sulla carta, i punti in comune erano tanti. Entrambi giovani imprenditori, entrambi decisi a trasformare il turismo in uno strumento di conoscenza tra i popoli. Una voragine storica, però, in apparenza, li divideva. L’uno, Maoz Inon, era israeliano. L’altro, Aziz Abu Sarah, era palestinese. Non hanno avuto il tempo di parlarne quella volta. Lo avrebbero fatto dopo. E a lungo.

A farli reincontrare, la carneficina peggiore che abbia insanguinato Israele nei suoi quasi ottant’anni di esistenza. Il 7 ottobre 2023, il kibbutz Nir Am, dove viveva la famiglia Inon, è stato uno dei tanti attaccati da Hamas: i genitori di Maoz, Bilha e Yacovi, sono fra le 1.200 vittime del massacro. Sentita la notizia, Aziz, a cui il conflitto ha strappato il fratello Tayseer, morto mentre era in custodia delle autorità israeliane, ha voluto scrivergli su WhatsApp: «Sono così dispiaciuto per i tuoi genitori. Il mio cuore è spezzato. È così terribile, non ho parole. È stata un’azione da vigliacchi. Ti invio tutto il mio sostegno e affetto». Il gesto di solidarietà ha aperto una strada nuova su cui Maoz e Aziz camminano insieme, con lo sguardo fisso su un orizzonte di pace possibile fra i rispettivi possibili. E insieme sono arrivati ad Arena di Pace 2024 per dire che il Medio Oriente non è condannato a una guerra senza fine.

«Ho scritto a Maoz di impulso. Ero rimasto molto colpito dalla sua prima dichiarazione pubblica dopo il massacro. Aveva detto di soffrire non solo per i genitori assassinati ma anche per il popolo di Gaza, dilaniato dalle bombe. Quanta forza ci vuole per dire una cosa simile all’indomani del 7 ottobre? Quanto sarebbe stato più facile esigere rivalsa. Ho capito quanto Maoz fosse coraggioso. Io ci ho messo anni e anni per trasformare il dolore per l’uccisione di mio fratello di 19 anni da parte dei soldati israeliani in motore di riconciliazione. All’inizio pensavo la vendetta fosse l’unica scelta possibile. È stato solo quando ho cominciato a studiare ebraico insieme agli immigrati giunti in Israele che ho compreso di avere altre opzioni. Potevo smettere di somigliare a coloro che avevano ammazzato mio fratello. Potevo decidere io chi volevo essere, così mi sono messo all’opera», racconta Aziz che, da allora, è diventato un attivo costruttore di pace in vari teatri del mondo con il Center for world religions, diplomacy and conflict resolution, con il programma radio All for peace e con Mejdi, una compagnia che offre tour per ebrei, cristiani e islamici interessati a conoscere “l’altra metà della storia”. «La parte mancante. È sempre in questo vuoto che si annida il conflitto cruento. L’ho constatato negli oltre settanta Paesi in guerra dove sono stato. Per questo, credo nel valore cruciale della parola condivisa» sottolinea.

«Aziz è stato uno dei primi palestinesi a farmi le condoglianze. L’ho molto apprezzato. Ha voluto essermi vicino nel momento peggiore. Gli ho chiesto dunque se potevamo parlarci. Qualche tempo dopo ci siamo visti online… Dopo la morte dei miei genitori ero in pezzi. La notte ho fatto un sogno. Vedevo i volti delle vittime del massacro. Erano feriti, sofferenti. Dai loro occhi scendevano grosse lacrime che arrivavano fino alla terra, intrisa di sangue. Al cadere, le lacrime pulivano il sangue, facendo comparire un sentiero. Quando mi sono svegliato ho capito: da tutta quella sofferenza, le atrocità perpetrate, l’angoscia inflitta, doveva nascere un nuovo corso. Una vita per la pace» gli fa eco Maoz.

I due imprenditori sono tra i testimonial di fronte a papa Francesco e al pubblico di Arena 2024 del tavolo su “Economia, lavoro e finanza”, uno dei cinque pilastri per la costruzione di una convivenza nonviolenta – accanto a “Migrazioni”, “Ecologia integrale e stili di vita”, “Democrazia e diritti”, “Disarmo” – individuati da oltre duecento organizzazioni, movimenti e gruppi di cittadine e cittadini di tutta Italia che, per oltre un anno, hanno riflettuto su come “disarmare” il sistema economico. «In realtà, il metodo per fare impresa sociale è il medesimo di quello per portare avanti un processo di pace - afferma Maoz -. Lo so per esperienza. Ogni volta che ho messo su un’attività mi sono basato su cinque principi: avere un sogno, agire in base a dei principi, creare alleanze, elaborare un piano strategico e metterlo in atto. Sono le stesse fondamenta su cui si costruisce la pace. È questa la nostra impresa più urgente ora. Lo devo ai miei genitori. Quando li ho seppelliti, ho compreso che mi avevano cresciuto per questo momento. Sono loro a ispirare i miei gesti e le mie parole. Mia madre era un’artista. Dipingeva soprattutto i “mandala”, l’universo secondo le tradizioni induiste e buddiste. In tutta la sua vita, me ne ha regalato solo uno. E vi ha scritto sopra: “Qualunque sogno può essere raggiunto se abbiamo il coraggio di inseguirlo”».

 
 
 
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