Un saggio sulla poesia di uno fra i più significativi letterati abruzzese.
“Giornale di bordo”. Così ci piace definire la raccolta antologica “Di ogni cosa detta” da Vito Moretti data alle stampe per i tipi delle edizioni Tracce, con una nota nel risvolto di copertina a firma di Ubaldo Giacomucci, che di poesia s’intende per antica ed assidua frequentazione.
Giacomucci c’informa, con un incipit quanto mai funzionale alla nostra interpretazione, che «La poesia di Vito Moretti ha attraversato (il corsivo è nostro) una lunga stagione culturale (…) e ha discusso i temi più rilevanti che la civiltà del secondo Novecento ha proposto nel suo complesso…» Ed è, allora, proprio su questa attraversata che ci pare imprescindibile incentrare la nostra attenzione.
“Giornale di bordo” - se è vero, come è vero che “il naviglio è la dimora”, lo confessa lo stesso Moretti – non espressamente, dunque, nel senso di un’arida, maniacale sequela di rilevazioni alla capitano Bligh del quotidiano svolgersi e consumarsi di sequenze ripetitive inerenti al più o meno corretto concorso di azioni disciplinate a che la navigazione persegua la migliore rotta, alle indicazioni di coordinate geografiche basate su determinazioni astronomiche, né tanto meno dell’alternarsi metodico dei quarti di guardia, dell’insopportabile durata delle calme di vento o della straziante agonia delle bonacce. Niente di quanto citato s’accorderebbe al significato che invece ci deriva nel leggere la successione poetica che Vito Moretti ci destina.
“Di ogni cosa detta” è il titolo di questa sorta di “giornale” in cui la riflessione intima dell’Autore, talvolta pacata talaltra inquieta ed appassionata, ferma i transiti dei ricordi, proietta il pensiero in avanti: «Mi domando che sarà…», valuta il presente nelle molteplici espressioni in esso stipate, si sofferma con sguardo lungo verso l’esterno ad individuare il particolare, consapevole che d’ogni particolare (o segno), persino del più irrilevante, si costituisce il mondo, interrogandosi di quale “quotidiano ordine di gesti” s’intrama l’esistenza a formare il reticolo dei giudizi, benché il suo giudizio resti sospeso ad attendere (per onestà) il sopraggiungere del successivo indizio, il nuovo svelamento per non uscire dal cerchio della meditazione che in “Oggi dodici del mese” convoglia in sé tutte le possibili, talvolta anche impossibili, forme dell’essere.
Il resoconto del poeta ha, quindi, la metodicità speculativa del filosofo, poiché non esclude nulla della creazione: «Il poeta penetra nelle sembianze nascoste delle cose, e la poesia adempie ad una vera conoscenza…», come ebbe a scrivere Dante Cerilli nella sua introduzione alla poesia di Vito Moretti (“L’enigma e la forma”), anche «esplorando gnoseologicamente la realtà che vive al di sotto delle apparenze».
E’ insito nella definizione di Cerilli che tralasciare qualcosa varrebbe quanto una perdita di senso, uno smarrimento pericoloso. L’esistenza non è fatta di numeri, come qualche matematico al fondo burlone vorrebbe indurci a credere con la sua teologia in opposizione alla casualità, all’eziologia della parola. Ed è qua che sbaglia. No, non solo di numeri, ma vieppiù sulle parole è stata architettata la creazione. Il silenzio di Dio è parola. La sequenza espressiva delle parole va interpretata, e se ognuna di esse è specchio del mondo e della rappresentazione della sua storia (la letteratura è il racconto del mondo e ne è testimonianza, come afferma R. La Capria, delle gioie patimenti e pene), l’omissione o la “manomissione” di una soltanto porterebbe inevitabilmente all’incomprensione, ad una confusa verità, al conflitto.
Ecco perché occorre affidarsi al pensiero che è misura, interpretazione, oculatezza, penetrazione. Il poemetto 2Oggi dodici del mese” ce ne offre un esempio mirabile già inciso nel primo verso: «il tempo è lama». Se il tempo è lama, giacché è perfettissimo, anche il pensiero che ne è il contenuto, sarà esso stesso lama per la perfezione nella realizzazione del sostrato della coscienza, dell’elaborazione dell’agire, foss’anche della più insignificante delle conclusioni o delle derive.
Il poeta se ne sta là, in veglia, sulla balconata del cassero di poppa ad osservare, e l’occhio, si sa, è la porta aperta del pensiero che va, raccoglie, scandaglia, scheda, soppesa, ricrea, via via convincendosi che il tempo è identico ed i cambiamenti sono tali solo nelle nuove meccaniche del fare: in realtà, è piuttosto un rifare con meno fatica, avvalendosi di ciò che la tecnica ha aggiunto all’esperienza. Il resto non cambia, o meglio, il dentro non cambia, poiché il pensiero torna sempre alla memoria di se stesso, non avendo un altrove ad ospitarlo.
Per intrinseca natura il poeta esercita un pensiero inarrestabile, sua prigione e libertà, sua croce sublime. Lo dichiara l’Autore stesso: il poeta è pellegrino e la sua identità è di «risalire di nodo in nodo/all’origine del filo». Per cercarla l’origine del filo, egli attraversa l’attraversabile: le terre, e i paesi, e le fedi, e i bivi, e i ricordi, e gli amori, e i dolori, ma vivendoci (si vive navigando verso isole lontane) che è l’unica forma possibile per capire i significati, dopo averli sottoposti al vaglio della ragione che, solitaria insaziabile dea, domanda dopo domanda, li ridiscute e li riconsidera per assegnarci i motivi necessari e giusti per la nostra sopravvivenza di uomini, per compiere le nostre liturgie quotidiane.
E’ evidente, ad essa dobbiamo tutto. Il poeta ne è toccato fin nel profondo. Sa che persino per accedere alla soglia delle spiritualità, quando non addirittura per entrarvi e sedervi alla sua mensa, deve fare i conti con essa. In questa certezza, il pensiero del poeta pare affiancarsi alla proposta di Benedetto XVI, non a caso il più teologo ed intellettuale dei papi.
Non si nasconde nulla d’artificioso in questa conclusione, basta reclinare la memoria all’indietro, ad un passato ancora recente, a quella cospicua porzione di lupesca umanità che ha deliberatamente ignorato la ragione e se ne è fatta beffa praticando altre ignobili idolatrie, non solo annientando se stessa, ma trascinando con sé nel baratro i destini di coloro che o, indissolubilmente ancorati alla propria cultura e fede, hanno accettato che si compisse una volontà superiore o hanno, impotenti, subito sino alle estreme conseguenze la follia distruttrice o, se per sorte benigna sono scampati alla tragedia, hanno rinsaldato la memoria, testimoniando ed avvertendo che l’infedeltà alla ragione si paga duramente.
L’uomo Moretti ha raccolto questa lezione, convincendosi che la vita e la poesia sono inscindibili, tutt’al più seguono un percorso parallelo, in tal caso sarà una navigazione a vista di costa: un lento scorrere lungo i profili della terra incisi dall’ostinazione corrosiva delle maree e dal ritorno implacabile delle correnti che di quel pensiero poetico sono chiara metafora: un progredire dell’inesausto bisogno di riportare sulla carta millimetrata del tempo (giornale) la sconsolante eco della vicenda umana ancora una volta, scelleratamente, tutta presa dal sottrarsi al giudizio della ragione. Al poeta, che è «custode di venti e di vele», basta poco per cogliere le «ambigue coincidenze/sui terrapieni della memoria», «l’ambiguo e cinico/presente», «un altro inganno/nel chiasso che non dà forza ai verbi giusti e veri,/un armamentario di comodi sotterfugi», «i portatori del fatuo,/il giorno blasfemo dei nocchieri e dei delatori».
E lui annota annota da benedettino su quelle carte il proprio sconforto nello scorgere «la vita che talvolta ci pare/una rasa terra di monsoni/e di negre lune», le amarezze appena appena consolate dal prodigioso ordine della natura o dal ricordo dei giorni buoni di fioriture di idee e sogni impollinati dall’ardore della giovinezza, con tutte le parole possibili, con tutte le parole che hanno accompagnato le età delle storia nel loro evolversi, consumarsi e scomparire: una similitudine impressionante: un calco già visto d’imbrogli, un riecheggiare di monete, uno zoccolio di cavalli nei mercati, un rincorrersi cruento di opposti sulla parola Dio, il mascherarsi dei circensi dietro promesse di rinnovamento. Quanto poco gli occorre per testimoniare la perdita dell’innocenza, della misura, del sentimento, dei «segni mansueti e benedetti dell’anima».
Quale prodigio poetico è la mente del navigatore che pur nell’angusto ambito del suo “quartiere” con la vista profonda dell’intelletto, e con orecchio divino, e con olfatto animalesco ci riporta, risistemandole sulla pagina, segmento dopo segmento, ciò che la vicinanza ci sottrae, la nebbia della quotidianità ci offusca, il gorgo dei mutamenti ci risucchia, i perimetri del nostro egoismo ci isola, la follia dell’avere ci allontana, al fine, il quadro che ne scaturisce è desolante, per dirla con lo stesso verso implacabile di Moretti, «di mediocrità da caporali».
Pur tuttavia, lui che conosce il retrobottega delle vicende terrene, i corpi infettanti dentro le sue vene, le ignobili compromissioni dell’essere con l’avere, del prendere col donare, della menzogna con la verità, della politica con il potere, ci ricorda che esiste l’anima: «…se rammenti, l’anima/che ci fece giurare di non camuffarci//all’incontro della sventura (ai compiti/della ragione e dei doveri) è tenace abitudine,/è bagaglio che erediteranno i figli/dopo le ostili dimore…»; ribadisce altresì, con la levità mistica della parola poetica, trascrivendone tutta la bellezza, «le laiche virtù dei traghettatori del vero,/e a sottrarre le maschere ai falsi circoncisi,/a fischiare gli ipocriti liberali/in camicia di lino e doppiopetto». La realtà sotto la sua penna si fa carne e sangue: vive.
La luce delle simbologie, poste sempre al centro della sua ottica cartesiana, illumina il nero inchiostro dei quotidiani televisivi o stampati, delle prodighe tresche mediatiche (preoccupate della loro sopravvivenza) di affidare ai lutti, ai disordini delle giovani coscienze, ai seminatori di morte in nome di Dio, agli irrisolti casi giudiziari, alle intercettazioni calcistiche o finanziarie, alle vite private di soubrette & boys il compito di testimoniare la realtà, mentre altrove risiedono le fonti della speranza che i veri eroi, quasi mai nominati, tengono in vita con la beatitudine, la rettitudine e l’operosità delle api, così come tengono alto il nome dell’uomo, della parola Uomo ancora carica delle risonanze di pietà e dignità e comprensione che gli appartengono pur apparentemente disperse tra le foschie del presente, pur nel turbine delle meccaniche economiche che forzano, adulterandoli, i comportamenti a cedere alle lusinghe che quanto proposto dai «nuovi bottegai», dai «merciai del tempio», dai «padrini bugiardi» sia necessario, vitale ed imprescindibile.
E’ uno spaccio di moneta falsa. E’ inesorabile avvelenamento del “dentro”. E’ occulto progetto di dissoluzione.
Come è profondo in Vito Moretti il senso morale che non è, o non solo, indignazione verso ogni forma di sottrazione – il peccato in sé è sottrazione – ma anche dato da quello sguardo pietoso, meglio, impietosito per quanto raccoglie di buono passo a passo, lega a lega d’acqua, per quante parabole si compiono e gli toccano il cuore. Davanti alla “visione” del «giusto che toglie il freddo ai risvegli», si ritrova marcata l’effige spirituale della sua condotta di uomo e di poeta, di quel senso morale, già citato, che è scelta ineccepibile nella direzione di una navigazione che ha come meta la verità se si aspira a che la propria coscienza non venga devastata dai rimorsi o che la ragione si arrenda al dominio degli ingiusti dal poeta implacabilmente sorpresi a barattare astuzie affinché non si perda la memoria di se stessi nella mente dei “fessi”.
Il navigatore sa che «la storia ha vele sue», come a dire che nulla le impedirà di percorrere le sue rotte; inesorabilmente marcerà in avanti fino alla fine a ristabilire una sorte degna, oltre ogni confine limite opposizione, e nulla le impedirà senza distinzione di fare giustizia di tutto e tutti: l’elenco è lungo, nutrito di dettagli, date, circostanze, atti, mancanze, abusi, poiché a qualcuno non è sfuggito nulla, a lui, al navigatore non è sfuggita la più esile scaglia di vissuto, perché ha provveduto a registrare meticolosamente l’insieme fitto di quanto ha visto ed ascoltato: cosa mai potrà essere nascosto ed omesso? Le sue parole avranno il peso micidiale della verità, il taglio affilato del tempo, la perfetta curvatura della lente. Nessun Caino troverà rocce dietro cui celarsi, né i silenzi più riposti avranno scampo dinanzi alle domande.
La salvezza sarà di chi avrà ancora rami sul tronco della propria vita una volta che saranno state potate le disubbidienze, le avarizie del cuore, le perversioni dei desideri, le umiliazioni inflitte, la crudeltà delle negazioni, la manipolazione dei sentimenti. E’ tutto scritto, annotato. Verrà il giorno che ogni azione avrà il suo presente, quando al navigatore verrà chiesto di mostrare il “giornale di bordo” in cui, pagina dopo pagina, la testimonianza della realtà – nei riguardi della vita, dell’agire, del destino e dell’essere dell’uomo, nella sua concretezza ed interezza (D. Cerilli) – assurgerà solo a prova e documento, il giudizio finale e la condanna saranno affidati a colui che chiederà a ciascuno conto particolareggiato di ogni cosa detta e fatta, ovvero delle proprie azioni, e dei significati sottostanti: ma qui, quanti sapranno rispondere?
Creato da alfredofiorani il 05/01/2008
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Voglio ringraziarvi per le numerose visite e sono lusingato del successo che questo blog va riscuotendo per l'interesse che manifestate sugli argomenti proposti.
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