Creato da thallullah il 29/04/2006

Carina, la poesia.

...la cosa che fai con gioia,come se avessi il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo.

 

 

Ti voglio, ti desidero, ti lego alla mia volontà.

Post n°171 pubblicato il 24 Gennaio 2012 da thallullah

“Ti voglio, ti desidero, ti lego alla mia volontà”

di Carina Spurio - Il vecchio borgo sorge intorno alle rovine di un vecchio castello di fronte al mare Adriatico. Da bambina quella spiaggia la consideravo mia. Giocavo con il rastrello e la paletta, e riempivo di continuo il secchiello di acqua salata. Non erano tanto i castelli di sabbia il mio obiettivo, quanto scavare a fondo per cercare l’acqua e andare sempre più giù, senza una ragione. Molte ore dopo la prima colazione arrivava il momento del bagno. Le uniche raccomandazioni dei genitori erano quelle di non affogare. Nel pomeriggio il sole calava come a ricordare l’ora della cena, tra il melone sudato, le fette di prosciutto e una lattina di coca-cola. Dopo una lunga passeggiata fino al porto, di corsa a dormire. Negli anni seguenti, mentre sulla spiaggia dell’Adriatico iniziavano i miei primi amori, a Sarajevo, dall’altra parte del nostro mare, si sparavano le bombe. Arrivo a casa di Maria persa nei miei pensieri. La via è stretta, profuma di cantina. La vernice della porta è scrostata. Non c’è campanello. Busso. I contorni del viso della donna fanno capolino tra la folta capigliatura bianca nell’anta a metà. Maria improvvisa un sorriso e si sposta per farmi entrare. Un cane ed un gatto arrivano festosi. Mi annusano. Gli animali intrecciano il solito giro di valzer con cui accolgono i nuovi arrivati. Maria si siede, mi invita con un cenno ad imitare il suo gesto. Il candore dei suoi capelli genera un senso di rispetto. Ripenso a mia nonna, mentre la stanza si riempie di uno spesso silenzio. Le chiedo in che anno è nata. Mi risponde:<< a Natale del 1926>>. Lo stesso giorno del Bambino che ogni anno rinasce senza mai andare a scuola, deduco ironicamente. La semplicità della donna che ho di fronte non è opportuna per le mie domande troppo pretenziose. Maria non conosce gli elfi, gli gnomi e le fate, né Nostradamus e Cayce. Ignora l’esistenza di Sai Baba e di Osho. Non conosce il mondo delle idee di Platone, immutabili e perfette che vivono nell’iperuranio, al di là del cielo. Maria è una strega per discendenza. Venne iniziata da sua nonna all’età di nove anni. Imparò da bambina l’arte di preparare unguenti magici, filtri e polveri per avvelenare, allenandosi negli anni a plasmare le effigi in cera. Ho davanti una vecchia donna, vittima in giovanissima età di qualcosa che forse non voleva realmente ma che si era imposta su di lei. Maria conosce solo le fasi della Luna. La Luna Nuova per i riti da iniziare, la Luna Piena per quelli da interrompere. La sua specialità è preparare “annodamenti” d’amore. Il concetto di magia a distanza di questi tempi lascia interdetti. Senza dubbio, resta un aspetto affascinante della magia operativa che andrebbe sviscerato e studiato a fondo, malgrado sia difficile accettarlo e comprenderlo. Esorto Maria a descrivermi un “annodamento” comprensibile al lettore che si appresterà a leggerci e ad entrare nel regno della magia a distanza. Mi racconta di una pratica antica realizzata mediante un nastro rosso di 123 centimetri da annodare per 48 notti consecutive e da riporre sotto il materasso. Il nastro, bruciato il 49° giorno presso un incrocio di strade, andrà disperso in cenere al vento. Il rituale contempla una seconda fase: il successivo venerdì di Luna crescente, un minuto dopo la mezzanotte, si dovrà invocare per 99 volte il nome della persona amata e visualizzarla mentalmente recitando la seguente frase: “Ti voglio, ti desidero, ti lego alla mia volontà”. Questo rito, minuzioso ed elaborato, ma assai efficace (precisa) si dovrà ripetere per tre volte. Mi spiega che i rituali sono molti e che per la loro complessità, necessitano della massima cura nel rispetto di ogni piccolo particolare. Aggiunge che le correnti di energia magica dirette verso “la vittima” si propagano avvolgendo il bersaglio in un circuito chiuso e se per una ragione “oscura”, l’obiettivo non sarà raggiunto, la corrente energetica (non avendo la possibilità di essere assimilata) può tornare al punto di partenza colpendo l’operatore. Questi procedimenti, secondo Maria, sono complessi e difficili da realizzare, ecco perché, per essere eseguiti richiedono la massima competenza e precisione. Prima di salutarla le chiedo se esistono degli accessori specifici per operare. Mi spiega che non si può intraprendere un’azione magica senza un altare, gli incensi, l’incensiere, il “pugnale dell’arte”, l’olio per le unzioni, il sale, l’acqua, la Bibbia, la conoscenza delle dimore lunari e un accendino. La curiosità mi possiede anche durante l’ultimo secondo e pretendo di sapere se c’è una frase ricorrente come motto di ogni vero occultista. “Ex tenebris ad Lucem”(“Dalle tenebre conducimi alla luce”) risponde, con un tono meravigliato al cospetto della mia ignoranza. Torno a casa, ormai è sera. La realtà mi saluta come uno schiaffo in pieno viso. Mia madre mi guarda con gli occhi incantati. La bradicinesia l’ha sorpresa poco dopo il suo pensionamento. Questa malattia è molto di più di un film al rallentatore, chissà se Maria possiede un rito adatto al suo caso, un cerchio magico in cui incensarla per guarirla. C’è pochissima dignità nel soffrire del morbo di Parkinson. Da un angolo della stanza mia zia con il rossetto scolorito, tenta una posa come una diva senza Oscar. A differenza di Maria possiede un cellulare (che non suona mai) ed ha il campanello sulla porta. Intanto, in ogni angolo del mondo, il tempo continua a trascorrere sui volti di tante Marie intente ad attirare l’amore di un uomo o di una donna attraverso “il rituale”, eseguito categoricamente nella fase lunare che dinamizza il fine nei giorni di Venere. Eppure, l’elemento magico nasce per sfuggire al limite della condizione umana e per cambiare il corso degli eventi secondo il proprio vantaggio. Il rituale, alimentato dell’impotenza, genera l’illusione di manipolare un fallimento sul quale non si ha nessun controllo. Il fascino dell’occulto non deriva forse dall’ esigenza di cambiare la sorte avversa, modificandola secondo i propri bisogni, piuttosto che rimanere in balia degli eventi? Dal racconto di Maria si evince che la magia esiste, è praticata ovunque, a prescindere dal grado di sviluppo, dal progresso e dalla posizione geografica dei richiedenti. Coloro che frequentano gli occultisti, non sono persone ingenue e illetterate come si potrebbe ipotizzare per eccesso di logica, ma sono individui che scelgono una via misteriosa e all’apparenza più facile per raggiungere l’obiettivo desiderato: nessuno di loro testimonierà mai di aver pagato per eseguire un rito, né se lo stesso ha funzionato. Spesso è l’amore l’impulso che spinge ad assoggettare la volontà di un amante perduto, poiché tale sentimento, nelle sue accezioni nobili e meno nobili, è di fondamentale importanza nel destino di ogni uomo e di ogni donna. Il riflesso condizionato mi accende l’ultima Camel della giornata.                                                                                                           

di Patrizia Di Donato -Patrizia Di Donato è una scrittrice di Giulianova (Te) autrice di diverse opere narrative:Il romanzo "Il gesto" ha ricevuto una segnalazione di merito al Premio Letterario Nazionale “Nuove Scrittrici” (Pescara 1996); il racconto “L’uovo di Colombo” è stato segnalato nell’edizione 1999 del Premio Teramo e inserito nella raccolta di racconti Ventagli, edito dalla casa editrice Sovera.Nel 2005 ha vinto il Premio Teramo, nella sezione dedicata allo scrittore abruzzese Mario Pomilio, con il racconto “Che bel dono” che apre la presente raccolta. Di recente ha publicato "La neve in tasca", Edizioni Duende. 

Dopo aver letto l’ articolo di Carina Spurio è entrata fantasticamente nell'intervista nel seguente modo:

MARIA   DONNA

E' l'ultima volta. Farò riparare quel maledetto campanello e me ne starò così, ferma, in attesa dell'alba. Mi è mancato il tempo per osservare il suo passo dondolare sullo scricchiolio della ghiaia stretta. Ha bussato ed è entrata, senza che la fessura della persiana mi rivelasse l'odore acre della sua fragilità. Era accaldata, le gote accese di chi ha o avrà. Nella tasca un telegramma urgente e sconosciuto. Veloce perché un malato arriva all'orario del male. Io ho girato la mia testa canuta e i nostri sguardi si sono trovati. Lulù e Pastos ad annusare le urine di strada, incollate alle sue scarpe altissime. Scale che la portano lontano dalla sua altezza immatura. Le faccio cenno di sedere, lei poggia il tenero delle sue cosce sulla paglia stuccata come una chitarra senza giri di do. Mi fissa. E' un animale notturno e resta immobile spiando ogni angolo della casa. Quanta paura ti fa Maria la Maga? Apre un piccolo blocchetto con una penna senza tappo. Finge una professionalità distaccata come se fossi un terremoto, un uragano, un incidente stradale. Cosa cerchi bella? Mi chiede in che anno sono nata. Associa il mio tempo ad un tempo che le è familiare. Ha un bolo maligno nella gola, seduto fra le sue corde vocali. Sta tentando di convincersi per convincermi. Le rispondo. La sua mano imprime segni tremolanti. Scrive largo, crea spazi di ghiaccio. Si allontana da se. Forza ragazza. Abbandona il cappotto e il cappello. Metti ad asciugare quegli abiti intrisi di grandine. Hai fame di creta con cui annerire le tue unghie ma sei vena di basalto nero, e riposo sulla tua selce. Pretende i miei anni ora. Le sue gambe tintinnano, e il suo ventre sussulta sotto le gonna nera di colore che si ribella alla luce. So dove vuole arrivare. La sento. Maria la maga conosce il suo mestiere. E' un animale da carrozzone un orso lunare, la donna cannone, la medicina miracolosa. Maria la maga ubbidì a sua madre e sputò sui pennelli. Le da ciò che cerca. Annodamenti. Cercavi questo vero signorina? Ti rivelerò come fare. Le parlo delle Lune nuove, degli incantesimi, dei rituali, dei numeri,dei bersagli. Lei mi guarda estasiata con il candore e il timore con cui si fissano i fuochi d'artificio. E io lancio in aria i miei colori, lascio che esplodano nel cielo. Nastri neri, sarai mio, sarai mio, bersagli oscuri e ripeti ancora. Lei ride ora. Vede una luce e ride. Il taccuino rotola sotto il marmo del tavolo. E' felice. Maria la donna no. Piange e cede al vento. Maria la Donna ha visto entrare una bambina che profumava di onde. Ha notato i suoi graffi di conchiglie maligne. La vede scavare, in cerca di un'acqua che l'accolga, un utero spalancato in cui affogare. Una madre a cui urlare: eccomi. E lenzuola da stendere, e profumo di gesso, e spalle di gigante, e camini da scaldare, e pigiami e lacrime e denti e..un nodo. Un filo da tendere nell'attesa dell'altro capo. Un uomo su cui cadere, un albero forte a cui mostrare il bianco delle radici. Ti desidero. Ti lego. Tienimi stretta a te. Un amore per forza, un nodo acido. Un cappio in cui morire. Qualche incantesimo presto Maria, prima che mia madre dimentichi il mio nome e io non abbia il tempo per maltrattarla e amarla. Ma io sono Maria la Maga e così resto. La ragazza esce. Va via con l'illusione della potenza che la segue. Un Dio che non delude. Non dico nulla. La vedo allontanarsi. Un lago di grano ondeggia sulle sue spalle. I suoi tacchi di cielo. Una scia di fumo si dissolve dietro di lei. Abbasso gli occhi e serro le imposte. E' già notte ormai.

 

 
 
 

Cronaca di una farfalla in lutto Beniamino Biondi

Post n°168 pubblicato il 06 Novembre 2011 da thallullah

Intervista a Beniamino Biondi, autore di "Cronaca di una farfalla in lutto"




di Carina Spurio

“Cronaca di una farfalla in lutto” è il titolo del suo ultimo libro che raccoglie scritti sul Nuovo Cinema Giapponese. Da dove nasce l’idea del titolo?
 


In realtà Cronaca di una farfalla in lutto è il titolo di un breve film sperimentale di Shuji Terayama, un autore di cui mi sono occupato nel mio ultimo libro (Giappone Underground. Il cinema sperimentale degli anni ’60 e ’70, ndr). Ma al di là del suo riferimento concreto, questo titolo ha assunto un valore simbolico in quanto ho tentato di fare la cronaca di un cinema in lutto. La farfalla, anche in riferimento all’effetto farfalla, che non è altro che una parte della Teoria del Caos per cui anche il battito d’ali di un piccolo insetto può provocare disastri anche dall’altra parte del pianeta, si confonde e si maschera col cinema. Un cinema d’urto, atroce e radicale, il cinema giapponese degli anni ’60, che oggi contempla il lutto della sua fine, la sua memoria che non ha saputo resistere al consumo, la sua sostanziale marginalità in un universo che ha fagocitato il senso della differenza.

Il Nuovo Cinema Giapponese sembra iniziare dagli anni ’50, dopo la pubblicazione dei romanzi di Ishihara Shintaro (Scrittore e politico giapponese), parte dei quali, vengono adattati per il grande schermo e nei quali, si visualizza una gioventù inedita, spregiudicata...

Esatto. Siamo negli anni di Gioventù Bruciata di Nick Ray e de Il Selvaggio di Benedek, insomma gli anni ’50, e come per miracolo il cinema giapponese racconta quello stesso malessere, in qualche caso addirittura lo precorre, pur entro termini assai differenti, generando un fenomeno di costume e la riprovazione sociale di un intero paese che crolla sotto i miti della sua stessa grandezza imperiale. Non è secondario, poi, che tutto questo accada per il tramite della letteratura; nel romanzo, del resto, la contaminazione fra tradizione e modernità si attesta ai primi del ‘900 con l’opera di Ryunosuke Akutagawa e prosegue con risultati inquietanti per tutto il dopoguerra.

Nel suo libro, sia nella premessa che nella quarta di copertina si legge: “Il libro è composto da uno sguardo critico su una serie di autori che, ognuno a modo loro e col proprio percorso, hanno contribuito ad affermare una sostanziale politica della creazione artistica nel segno del culto della forma.” … 

Come chiarisco nel breve testo cui Lei si riferisce, il libro non è un’analisi organica e storicizzata del fenomeno del Nuovo Cinema degli anni 50’ e ’60, ma piuttosto una raccolta di profili critici di alcuni autori che mi hanno interessato e che, in una visione retrospettiva e d’insieme, costituiscono il corpo fondamentale di una rivoluzione linguistica che ha agito organizzando in maniera non convenzionale il rapporto fra le immagini al cinema. Il Giappone come impero dei segni, per impiegare un’acuta ma non del tutto corretta definizione di Roland Barthes, a mio parere rileva quell’attitudine iconica della cultura orientale che nel cinema ha trovato una sua definizione ossessivamente geometrica – pure laddove si tratta di dare ordine al caos – che chiamo culto della forma. Il punto di non ritorno della forma finisce con l’essere il suo contenuto autentico, la sua sublimazione. Un regista come Yoshishige Yoshida, di cui mi sono occupato in un altro mio volume (Eros + Massacro. Il cinema di Yoshishige Yoshida, prossima uscita, ndr), ha radicalizzato sino al limite questa esperienza segnica convertendola in una sua complessa poetica di opposizione tra rarefazione e rigore materico. 

Il primo dei 15 autori da lei tratteggiati è Ko Nakahira (1926-1978) colui che cambia completamente le caratteristiche del cinema tradizionale. Nelle sue pellicole scorrono i conflitti psicologici, l’irrazionalismo omicida, le paranoie, quasi e sicuramente, con l’intento di generare scompenso nello spettatore, abituato ai languori edulcorati dei vecchi film, persuasivi certo, ma ancorati ad una logica ormai sorpassata …

Il cinema di Ko Nakahira ha oggi un valore meramente filologico in quanto a lui si deve il primo film che inaugura la nuova stagione del cinema giapponese del dopoguerra. Un film senza precedenti, lodato da quei giovani critici che poi sarebbero diventati i maestri della nouvelle vague nipponica, fra tutti Nagisa Oshima, e che purtroppo rimarrà un episodio isolato nella parabola complessivamente anonima del suo autore. Ma per un felice paradosso, il valore filologico assurge a valore simbolico poiché quel film condensa e comprende temi e sviluppi che apparterranno alla generazione successiva dei cineasti d’autore. Anche nel rapporto col cinema americano,l’opera di Ko Nakahira si segnala per un’interpretazione assai differente del fenomeno del cinico ribellismo della gioventù non facendone un semplice atteggiamento esistenziale, che tutto sommato fa salva la società e le sue norme acquisiste, ma cogliendo la concatenazione d’effetto tra il dato politico e il dato comportamentale, dunque anticipando di molto i discorsi sul condizionamento sociale e sulla relazione fra storia e identità personale. Il Giappone, del resto, ha scontato il fortissimo trauma della bomba atomica, dunque ha vissuto nell’angoscia dolorosissima dell’estinzione di massa, del progetto di un nulla ontologico. 

Sulla scena cinematografica esplode la meteora giovanile preda di una nuova esigenza in contrapposizione con scene caratterizzate da forti drammi sociali come per forzare la mano verso un’interpretazione virata all’eccesso della società, rappresentando la primordiale pulsione di violenza nell’animo umano e l’imporsi costante e crudele del mondo adulto nei confronti dell’anarchico orizzonte adolescenziale fino al cambio di paradigma degli anni ‘80 …

La rappresentazione di un Giappone arcaico ha ceduto il posto all’immagine di un paese nervoso, irrisolto, dimidiato fra tendenze contrapposte; un’immagine che il nuovo cinema ha veicolato in modo sublime e trasgressivo. Tuttavia, il fondamentale ritualismo di quella cultura non viene affatto alienato dai nuovi cineasti ma viene risemantizzato quale condizione di una nuova sensibilità che lo adopera come strumento di una visione del mondo pessimistica ed essenzialmente fondata sulla rappresentazione del quotidiano come labirinto di riti che nascondono la cieca violenza dell’istinto e dello spirito primordiale arcaico. 

Nel 1956 Susumu Hani e il suo rapporto con il mondo dell’infanzia … 

Susumu Hani è uno dei cineasti più interessanti nel panorama del rinnovamento degli anni ’60. Come ha sostenuto il critico Donald Richie, Hani è il più nuovo cinema di tutti. L’unico autore davvero indipendente nel sistema della major nipponiche, l’unico ad avere esplorato territori inconsueti e sotto il profilo esistenziale (l’infanzia) e sotto il profilo geografica (l’Africa, l’America Latina, la Sardegna). Hani è forse il maggiore documentarista del Giappone, o quantomeno il primo ad avere coniugato senso artistico e rigore di documentazione umana. In Italia, se volessimo trovare un cineasta simile dovremmo pensare al siciliano Vittorio De Seta. A Susumu Hani si deve, poi, un bellissimo e controverso film sull’adolescenza che è un capolavoro di stile e di analisi sociale; mi riferisco a Primo amore, versione infernale (1968), su una sceneggiatura di Shuji Terayama, opera che irrompe con prepotente genialità nel ’68 giapponese usando il sesso come metafora politica e facendo frutto dell’esperienza del documentario e del genere del pinku eiga. 

Qual è uno dei 15 cineasti ai quale si sente particolarmente attratto?

Direi proprio Susumu Hani o Hiroshi Teshigahara, famoso in Occidente anche per il suo La donna di sabbia (1964) che vinse un premio a Cannes. Ma il mio autore, nel libro, è Akio Jissoji, cineasta sconosciuto che quasi nessuno ha voluto includere tra i maestri del nuovo cinema a causa di una carriera altalenante che lo ha visto autore di un serissimo cinema di pensiero e insieme di opere minori e biecamente commerciali. Eppure i suoi primi film, provocatori nel contenuto e inquietanti nella loro sperimentazione stilistica, sono tra le cose più interessanti del cinema giapponese, soprattutto in riferimento a Mujo (1970) che si ispira manifestamente al principio buddista dell’impermanenza, un concetto che fonda e sostiene l’estetica giapponese e di fatto tutto il suo cinema.

Cosa ha voluto comunicare ai suoi lettori attraverso “l’interpretazione radicale dell’immagine come luogo del visibile”?

Parlando di immagine come luogo del visibile si attesta una verità di natura fotografica cui sfuggono le componenti metonimiche del cinema come arte. Sulla necessità del luogo del visibile, l’interpretazione radicale del nuovo cinema equivale ad un rovesciamento dello statuto filologico di quella sua stessa necessità, dunque ad un’attitudine al simbolico, all’occulto, al metaverbale e al metafotografico.

Le immagini contengono il potere di conservare se stesse nel futuro bloccando la realtà …

Le immagini non contengono altro che la loro assenza di vita, in quanto non sono che sempre immagini di qualcosa che è già accaduto, trascorso, passato. Il cinema non è altro che un processo di conservazione della morte.

Lei è poeta e saggista, contemporaneamente, si occupa di teatro e cinema: come nasce la sua passione per il Nuovo Cinema Giapponese?

Credo si tratti semplicemente di affinità elettive. Ad ogni modo, volendo tentare un’anamnesi culturale, il mio primo interesse verso il Giappone sorge per effetto dell’amore verso gli scrittori di quel lontano paese. Akutagawa, soprattutto, poi Abe e Mishima (autori in qualche modo tutti legati al cinema, nel caso di Abe addirittura in maniera organica). Da lì un approfondimento verso la narrativa meno nota in Occidente, l’attrazione per lo Shintoismo e il Buddismo (come filosofie morali e non come pratica quotidiana, come accade emulativamente e in modo improprio), e l’attitudine primigenia verso un cinema formalista e trasgressivamente rigoroso – dunque ossimorico - com’è appunto quello del Giappone. 

Che rapporto ha con il Cinema Italiano?

Un rapporto intenso, soprattutto per autori come Pasolini e Antonioni, per fare due nomi. Col cinema attuale il rapporto è invece assai distante e ai limiti dell’indifferenza. 

Un regista a cui si ispira?

Citarle un solo nome equivarrebbe a far troppo grave torto ai non citati, tuttavia mi viene fatto di dirle che molto autori hanno pesato, e molto, nel mio percorso: Rainer Werner Fassbinder, Ingmar Bergman - che ho personalmente conosciuto in Svezia – Glauber Rocha, Russ Meyer, Jean-Marie Straub, Carlos Saura, Jerzy Skolimowski, Koji Wakamatsu, e alcuni altri. 

Il Cinema è un lavoro molto duro che non tutti sono in grado di fare …

Oramai, per la maggior parte, il cinema è un cinema di consumo destinato non ad un pubblico di individui critici e consapevoli ma ad una massa di consumatori ingordi e incoscienti di qualunque valore culturale. La dimostrazione di ciò è proprio la massiccia presenza di multisala all’interno dei centri commerciali, dunque la parificazione simbolica tra il cinema e un qualunque altro bene di consumo pomeridiano. A complemento di ciò, e per suo effetto, il cinema è opera di chi sa fare impresa di se stesso, capitalizzando il consumo e minimizzando l’impegno intellettuale. Gli autori sono ai margini e vivono solamente in cinematografie minori o di frontiera. Pensiamo a Sharunas Bartas in Lituania, a certo cinema africano o latinoamericano. Essendomi occupato di cinema messicano in un mio recente libro (Messico! Cinema e rivoluzione, ndr) ho avuto modo di vedere un film geniale dal titolo Sangre (2005), regia di Amat Escalante. Una radiografia desolata della precarizzazione dei sentimenti umani. In Italia non se ne è saputo nulla. 

Come addetto ai lavori e come spettatore, come vede l’attuale situazione cinematografica nel nostro paese?

Il cinema italiano non mi interessa; non mi attrae il suo minimalismo familista né la cauta critica sociale di certo cinema orrendamente socialdemocratico. Trovo assai mediocre il cinema di Moretti e di Garrone, sono fuori dal coro e con severità anche rispetto alle opere di Crialese. Mi interessano le esperienze apparentemente minori come il cinema di Ciprì e Maresco, Michelangelo Frammartino, gli indipendenti di valore che sono molti e coprono l’intero arco temporale del cinema italiano (in proposito, ho di recente presentato uno straordinario mediometraggio di un intellettuale agrigentino, Diego Romeo, dal titolo Informazioni Sensoriali (1979), un’opera sperimentale che anticipa la crisi del politico attraverso un discorso sulla malattia mentale oggi straordinariamente moderno nei suoi più complessi precipitati simbolici). 

L’ultimo libro che ha letto …

I lettori si distinguono sostanzialmente in due categorie: chi legge un solo libro per volta, chi ne legge tanti. Io appartengo alla seconda. Tra i libri appena terminati un romanzo di John Updike, un volume di poesie di Durs Grunbein, tutto il teatro di Bulgakov, i corsi al Collège de France di Michel Foucault, un volume di critica letteraria sul romanzo inglese del novecento. E cose sparse di cinema per i miei studi.

Qualche anteprima sui suoi progetti futuri?

E’ appena uscito per i tipi de Il Foglio, mio editore di fiducia, un lungo saggio sul cinema sperimentale giapponese dal titolo Giappone Underground. Nei prossimi mesi saranno pubblicati un volume monografico sul cinema di Yoshishige Yoshida e un testo sulla nouvelle vague greca dal titolo Prometeo in seconda persona. Mi ero già occupato di Grecia col mio primo volumetto di cinema su Nikos Koundouros e sono molto fiero del risultato di questo nuovo libro, il primo in Italia ad affrontare una cinematografia immensa e sconosciuta come quella greca, che, essendo una cinematografia povera, non interessa nessuno. Per un siciliano come me, nato e cresciuto alla Valle dei Templi, le ragioni di orgoglio si fanno ancora maggiori. Il libro cui sto lavorando, invece, è la monografia di un altro giapponese, Yasuzo Masumura, ed avrà per titolo Giganti e giocattoli.

Nasce ad Agrigento, che rapporto ha con la sua città?

Come tutti i rapporti d’amore è una relazione conflittuale. Ho vissuto per alcuni anni fuori ma non ho mai perduto la malinconia della Sicilia. Non sono affatto riconciliato con Agrigento e spero di non esserlo mai; è il solo modo per amarla davvero con rabbia e devozione. 

Quale domanda avrebbe desiderato le venisse posta?

Lei pone una scelta e, di conseguenza, pone anche una condizione. Solitamente le interviste ai critici di cinema si concludono con una domanda banalissima che lei, con intelligenza e garbo, ha evitato di porre: si chiede quale sia il film più importante della vita. Mi autoinfliggo questa domanda solamente perché mi mette nelle condizioni di citare un film che quasi nessuno conosce di un autore invece piuttosto noto; parlo di Illuminazione (1972) del polacco Krzysztof Zanussi. In questo caso il valore è del tutto emotivo e privato, ma è certo il film della mia vita.

 
 
 

Verrai a trovarmi d'inverno

Post n°167 pubblicato il 17 Aprile 2011 da thallullah
Foto di thallullah

Cristiana Alicata

Verrai a trovarmi d’inverno

Edizioni Hacca, 2011

 Intervista di Carina Spurio

D:“Verrai a trovarmi d’inverno” non è un romanzo autobiografico ma un romanzo alla ricerca della propria identità. Lo scrive nell’epilogo intitolato “cose che si scrivono alla fine”. Dentro le pagine del suo libro ci sono le donne coraggiose e diverse: Elena, Gina e Liz che a Pantelleria aspetta due cose “Il coraggio di presentare la richiesta al tribunale per il cambio di sesso. E il grande amore.” Da secoli ciò che è diverso ci spaventa. Ed è attraverso la paura che si inizia a ragionare per “luoghi comuni”. Così, il siciliano diventa un mafioso. Il milanese uno snob. L’uomo di colore rimane sporco e cattivo. L’omosessuale un malato …

R: …il problema oggi è che si governa con la paura. Si sposta il problema della propria incapacità, da quella politica a quella emotiva, su qualcosa di diverso. Si alimenta un feticcio, un nemico. Farlo significa tenere protetto e pulito un intorno. Illudersi di farlo. Dobbiamo ricominciare ad infilare le dita nella vita. Credo che i protagonisti del mio romanzo imparino questo alla fine.

 D: Cristiana lei è ingegnere, vive a Roma ed è militante del Partito Democratico perché vuole un’Italia diversa. Inoltre, é un'attivista del movimento lesbico, gay e transessuale. Nel nostro paese si continua a difendere la famiglia tradizionale formata da un uomo e una donna ma ancora non si riconosce, né si tutela, quella omosessuale …

R: Mi viene da sorridere. In Italia si difende la parola famiglia. Le stesse persone che difendono la famiglia tradizionale poi privatizzano gli asili, non ne aprono di nuovi, non muovono un dito per aiutare le donne italiane a fare più figli, tolgono soldi alla scuola. Parliamo di numeri. Nei Paesi meno omofobi c’è più scuola pubblica e si fanno un sacco di bambini. Persino nelle nostre regioni dove le politiche sociali sono più attente alla famiglia le coppie gay sono più protette da strumenti di welfare. Come l’Emilia Romagna per esempio.

D:Sullo sfondo del suo romanzo, i luoghi: Pantelleria, “il dammuso, il carico di abitudini e di odori, un’insieme di consuetudini.” E poi Roma e Amelia, in Umbria, luogo in cui ci informa sia avvenuto il parto del suo romanzo …

R:Si dimentica di Torino. Viaggio molto. E la scrittura viaggia con me. Si succhia i luoghi attraverso i miei occhi. Pantelleria una vacanza, Torino una latitanza, Roma la casa, Amelia un luogo dell’anima.

D: Di donne che l’hanno sostenuta ce ne sono molte: Silvia Greco, Francesca Melandri, Concita De Gregorio, Francesca Chiappa e Caterina Morgantini 

R:Credo che sia cominciata una nuova era. Quella in cui le donne si riconoscono, si leggono, si sostengono. Non sono più in competizione. E’ come la cultura. Viviamo in un mondo competitivo, ma l’unica cosa che non dobbiamo mai mettere in competizione è la produzione culturale: possiamo leggere centinaia di libri, vedere film, andare a teatro. La stessa cosa vale per le discriminazioni. Tra donne e tra omosessuali. Fare squadra fa bene a tutti. Ognuna di loro ha messo un pezzo di cuore, di competenza, di dolcezza per farlo nascere. Devo loro molto. Non solo a loro. Ovviamente.

D:Afferma: “dovrei scrivere un altro libro per raccontare la storia di Verrai a trovarmi d’inverno” eppure, in questo libro, lei ha graffiato il buio per vedere affiorare la luce. Cosa manca?

R: A volte si arriva in un luogo partendo da tutt’altro presupposto.

Quando ho cominciato a scrivere non sapevo dove sarei andata a finire.

 

D:Cosa vuol dire essere donna oggi, in un tempo in cui le immagini subiscono il culto della forma, allargandola, anche chirurgicamente, nei punti consacrati alla libidine e riducendola obbligatoriamente nello spazio restante?

E’ difficile. Siamo bombardati da un modello che sembra l’unico accettabile e vale anche per i maschi. Siamo imbevuti di conformismo nascosto negli eccessi del nostro tempo. Guai a discostarsi.

D:Chi è Cristiana Alicata?

R:Una donna di 35 anni che si incazza per le ingiustizie e che scrive da quando ha 6 anni e che fatto quasi 20 traslochi in giro per l’Italia e adesso si  fermata. Finalmente.

D:Penna a sfera o matita?

R:Matita. 2B e con un temperino di metallo sempre vicino.

D:Che libro sta leggendo attualmente?

R:“Mia madre è un fiume” di Donatella Di Pietrantonio, edizioni Elliot. Il rapporto con la madre malata, con una malattia degenerativa. E’ ambientato in Abruzzo, che poi è il mio luogo di lavoro attuale. C’è tanta Italia dentro, l’Italia dei nostri nonni. E’ molto poetico anche nella descrizione della difficoltà con cui la figlia si relazione “fisicamente” alla madre.

D:Cos’è per lei l’amicizia?

R:La mia vera famiglia.

 D:Si sente mai sola?

R:Sì, quando sono in compagnia di persone con cui non sono in sintonia.

D:Pensa di regalarci un nuovo romanzo in futuro?

R:Spero più di uno.

D:Vive a Roma, che rapporto ha con la sua città?

R:Quando ero piccola e vivevo a Bergamo mi ricordo che a 6 anni ne provavo nostalgia. Diciamo che malgrado abbia sangue siciliano vecchio di 700 anni, è la mia città e la amo. Però a volte mi fa incazzare di brutto, così come accade con le passioni forti. A volte vorrei andarmene in una città del nord Europa, pulita, sistemata, distribuita in modo diverso, con i teatri fruibili, i locali allegri, le domeniche calme, poco traffico, la vita più lunga insomma. Poi Roma, che ti trattiene sul GRA anche per ore, ti regala le passeggiate sul Tevere (sulle banchine) che sono da mozzare il fiato. O il caldo che sale dai sanpietrini del centro. O gli odori di sugo delle trattorie dei quartieri popolari. Vorrei solo che tutto questo fosse più accessibile a tutti. Roma non è più una città per giovani, né per bambini, né per vecchi.

D: <  avere un cane sulla porta>> (dalla sua quarta di copertina). Lei è innamorata?

R:Sì.

D: Una domanda che non le ho fatto?

R:Una risposta che non le ho dato?

 Cristiana Alicata (1976) è ingegnere, vive a Roma. Milita attivamente nel PD e combatte per il riconoscimento dei pieni diritti della comunità lesbica, gay e transessuale. Ha pubblicato il romanzo Quattro (Il Dito e La Luna, 2006) e un racconto nell’antologia Principesse Azzurre da Guardare (Mondadori, 2007).

 
 
 

Narciso Carina Spurio di Alessia Mocci

Post n°166 pubblicato il 30 Aprile 2010 da thallullah
Foto di thallullah

Narciso – Carina Spurio
di Alessia Mocci
La raccolta di poesie “Narciso” si apre con la lirica omonima per spezzare la linea di confine tra il nostro presente, la nostra vita, e ciò che è dato sapere ai poeti. Un estro antico, tramandato sin dai primordi dei pensieri percepito dalle anime altre, rivive nel versificare dell’autrice del libro Carina Spurio. La Spurio intrattiene un personalissimo rapporto con il figlio di Liriope e Cefiso, uno scavare incessante (“Raccontami di te/…Dimmi/…Parlami…”) verso la verità di ciò che accadde allo sventurato, uno scavare logorato dai misteri del tempo e dai flussi delle acque che rapirono la sua illibata immagine. Non si percepisce una forte contrapposizione tra il presente ed il passato. I versi, nel loro incedere, si riempiono di mattiniera foschia e l’io diviene una benevola controparte dell’altro. Si può sussurrare che la tematica portante della raccolta di poesie è proprio questa illuminata comprensione verso l’altro, il diverso, un profondo interesse da parte della Spurio nei confronti della comunicazione, della trasmissione dell’ istante che ripete ciclicamente il suo mutare da attimo a “senza principio né fine”. La Spurio palesa questa sua presa di posizione anche nella struttura della raccolta, infatti, le liriche si susseguono trascinate da un filo conduttore diatropico, il titolo. Non è stato il caso, né l’ordine alfabetico né l’ordine temporale a determinare l’ubicazione delle liriche nella raccolta. Ci troviamo davanti ad un ingegnoso telaio che racconta una storia parallela ed, allo stesso tempo, obliqua. Leggendo, infatti, i titoli delle liriche, “Narciso”, “Assenze”, “Sequenze”, “Libera”, “SS80”, “Fly On caffè”, “Un attimo”, “Il sapore di un bacio”, “Montagna Madre”, “Tempo”, “Dilemmi”, “L’eterna storia”, “Euritmia cromatica”, “Respiro”, “Selene”, “Petali di pensieri”, “ad Alessandra”, “Il sacro e il profano”, “Nasco da…”, “Sesto senso”, due liriche senza titolo, “Incanto”, una lirica senza titolo, “Ritmo inquieto”, “Lacca di garanza”, “Sogni preziosi”, “Osservando Kandisky”, “Pregno antico”, “Verso il futuro”, “Metafore”, “Noi”, “Percorsi”, “Vocazione”, “Seta”, “Brama”, “Ieri”, scorgiamo una musicalità ed una geometria strutturale e semantica che l’autrice, forse, voleva tenere nascosta così come Narciso, per troppo amore, celò il suo viso agli altri stringendolo solo a se. L’ultima poesia, “Ieri”, (“Ti ho sognato,/ le mie dita fra le tue dita/ nessuna distanza./ In un istante ho immaginato/ di chiedere alle stelle/ di fermare il tempo,/ per allungare l’attimo in cui/ ti avrei dato un nome,/ un colore, un motivo.”) vede l’armonia tra presente e passato, tra tempo ed attimi, tra “io” e “tu”; quasi si può scorgere l’angelica forma del “Narciso” iniziale mentre il sogno diviene realtà e l’“io” intrattiene una conversazione con l’altro, un lucido e circolare procedere verso la Pura Poesia senza il completo estraniamento dalla realtà.

Leggendo diverse recensioni sulla tua nuova raccolta di poesie, ho notato una parola associata al tuo versificare che si ripete: “urgenza”. Sapresti darmi una spiegazione? E’ la chiave di lettura per le tue opere?
“Urgenza”, la parola ricorrentemente associata al mio versificare è “una” delle tante definizioni contenute nella forza tentacolare che assale il poeta e si insinua in ogni angolo del pensare e del vivere. Per questo, penso che il termine “urgenza” non sia l’unica parola-chiave per le mie opere, malgrado scrivere spesso sia una “necessità”. “Necessità” non intende cedere, non può farlo: ne + cedere. “Notwendigkeit” (ciò che non potrebbe essere altrimenti) avrebbe detto Kant se fosse stato in vita. Eppure, non fui preda del fascino di questa inflessibile dea all’inizio. Il mio verso, come hai ben scritto, esplose dal piacere, affidato ad “un lucido e circolare procedere”. La mia prima Poesia nacque dall’ “assenza”, dall’attimo in cui la consequenzialità della sillabe si arrese al gesto mosso dalla privazione. Senza quel vuoto dentro non avrei potuto catturare quel fiato sinistro in cerca di uno spazio. Versai: “Cosa ho se non ti ho?” (da “Noi”). Un verso, una domanda! Avevo racchiuso un istante in un grumo che perse calore prima della finitura. Da quel giorno Poesia fu comunicazione dei sensi, per non costringerli al silenzio affinché il binomio “io/tu” potesse diventare “noi”. Oggi so che Poesia non è una formula. Piu’ che un profitto è una perdita e non si avvale di strumenti logici. Ci sono giorni in cui ancora mi tenta, soprattutto quando proviene dall’immobilità, dal vuoto di me, dalla gioia e dal dolore altrui e come una spettatrice decide di testimoniare. Continua a resistere sgorgando dalla mia mano, mentre labbra serrate conservano il senso deglutito nelle tenebre. “Senza il completo estraniamento dalla realtà” la imprimo nel candido niente, invaso da pericolosi enjambements, innocui come una farsa teatrale e adagiati come le bugie automatiche sul mio fiato e resto a “guardarla” come un atto d’amore che non merita i miei brividi.

La tua raccolta ha una struttura inusuale, infatti, la maggior parte delle poesie sono seguite da un commento critico e stilistico. E’ stata una scelta che muove prettamente dal bisogno di diverso ed originale?
“Narciso” è un’antologia poetica che contiene liriche selezionate dai miei precedenti quattro libri di versi pubblicati nel seguente triennio: 2005 / 2008. Nei capitoli scanditi anno per anno i relativi commenti critici e stilistici sono rimasti invariati, non per un bisogno di originalità o di differenziazione, ma per legittimare quanti avevano collaborato attivamente alla realizzazione del testo.
In foto: Alessia Mocci
 
 
 

Post N° 165

Post n°165 pubblicato il 21 Aprile 2010 da thallullah
Foto di thallullah

Alessio Pelusi - Moleskine nera di Carina Spurio

Nel 2008 ha pubblicato il racconto dal titolo “Ana non può baciare” sull’antologia “Una storia sbagliata” della casa editrice “Mediando” ed ha frequentato un Master in Giornalismo e Giornalismo Radiotelevisivo presso la Società Eidos Communication di Roma. Nel 2009 con la vittoria del Concorso per Giovani Autori della Fondazione Pescarabruzzo, ha potuto pubblicare il suo primo romanzo dal titolo la “Moleskine nera” che presenterà in Via Piave a Roma il 28 maggio 2010 alle 18:10 presso la libreria Mondadori. Saranno presenti il relatore Plinio Perilli, poeta e critico letterario e L'autore Alessio Pelusi.


Alessio, l’atto materiale dello scrivere cos’è per te; catarsi, momento di riflessione, piacere, narcisismo, ribellione, o cosa?
Scrivere mi da soddisfazione, mi fa sentire utile, mi offre la possibilità di esserci, di sentirmi reale, sebbene conquistato da una dimensione completamente fantastica. Scrivere è la mia personalissima euntanasia, una morte dolce, un sonno ristoratore ed un bagno tiepido.
La cosa più importante, però, quella che più delle altre mi fa apprezzare questa folle passione è la dimensione del sogno che la include. Per me scrivere è la speranza di essere qualcosa d’altro.

Pensi che chiunque possa essere uno scrittore o una scrittrice?
Si, basta sentirsi tali. Per diventare un professionista, invece, e scrivere per lavorare c’è bisogno del riconoscimento sociale. Io per adesso lavoro per scrivere, vale a dire… affinché mi lascino in pace.

Quali sono gli autori a cui ti sei ispirato?
Kerouac, Bunker, Bukowski, Marquez, Hemingway e molti altri che si sono sedimentati nel fondo dei miei pensieri come detriti sul letto di un fiume.

Per emergere conta essere innovativi e sperimentali, oppure è meglio ripercorrere strade classiche per mettersi al sicuro?
Non lo so, probabilmente basta avere una buona casa editrice o, meglio, un grande gruppo editoriale che ti sostiene. Il problema è trovarlo, avere la fortuna che qualcuno si accorga di te. In Italia si pubblicano centinaia di libri ogni giorno, ci sono una selva impressionante di piccole e piccolissime case editrici che vivono grazie ai soldi degli stessi autori e non delle vendite, dunque è molto difficile farsi notare, emergere, perché se pubblicano tutti allora non pubblica nessuno. Se scrivono tutti non scrive nessuno. Forse la cosa migliore e aspettare, aspettare di essere veramente bravi e meritevoli di una pubblicazione, aspettare che qualcuno in una casa editrice di cui abbiamo stima ci risponda, aspettare di vincere qualche concorso, aspettare, insomma, che valga la pena prima di disboscare una foresta per dar forma cartacea alle nostre storie.

Credi che il mondo dell’editoria sia aperto a nuovi talenti?
Il mondo dell’editoria nella sua accezione più ampia del termine (Vd selva impazzita di piccole case editrici) è apertissimo a chiunque voglia essere l’imprenditore di se stesso ed autofinanziarsi il libro, ma l’accesso alla grande distribuzione e alla promozione è chiuso, non dipende dal talento, ma dal proprio nome od, in alternativa, dalla fortuna od, in alternativa, dalle proprie conoscenze.
Quanti libri di personaggi più o meno famosi escono ogni settimana? Basta farsi un giro alla Mondadori o alla Feltrinelli e si trovano più biografie di calciatori e veline che libri di poesie. Insomma, molti di questi VIP un libro non l’hanno mai aperto, nemmeno durante la scuola dell’obbligo.

Nel 2008 hai pubblicato il racconto dal titolo “Ana non può baciare” sull’antologia “Una storia sbagliata” della casa editrice “Mediando” ed hai frequentato un Master in Giornalismo e Giornalismo Radiotelevisivo presso la Società Eidos Communication di Roma. Racconta…
Non c’è molto da dire, ho partecipato ad un concorso e non ho vinto, però, ho meritato la pubblicazione su un’antologia di questo racconto su Ana, una prostituta. Sono molto affezionato a questa storia, perché Ana è parte di me, di quello che sono: una prostituta masochista a volte, altre un pappone, altre ancora solo un cliente innamorato di una puttana.
Per quanto riguarda il Master, era doveroso provarci. Dovevo avvicinarmi al giornalismo della Capitale, almeno sbirciarlo dalla serratura. Da anni scrivo per piccole e medie testate giornalistiche qua in Abruzzo, ma non sono mai riuscito ad entrare, cioè, a farmi assumere. Penso di darmi qualche altra possibilità con questo Master.

Nel 2009 con la vittoria del Concorso per Giovani Autori della Fondazione Pescarabruzzo, hai potuto pubblicare il tuo primo romanzo dal titolo la "Moleskine nera”. Partiamo dal titolo. Che cosa significa?
La moleskine è un diario con le pagine bianche che anni fa comprai con un amico a Pescara, alla Feltrinelli e che mi ripromisi di riempire con i miei pensieri. Invece di quelle pagine, ho riempito i files Word del mio computer.
L’idea, però, del ritrovamento di un diario con cui ho cominciato il romanzo, viene grazie alla moleskine, che un giorno dal divano di fronte alla scrivania, fissavo inebetito, stordito dal vino.
Vedevo questo libricino nero e non mi ricordavo che cosa fosse, allora l’afferrai e dall’interno cadde una foto…

La storia è ambientata in parte a Chieti e in parte a Roma e comincia con un ritrovamento fortuito. C’è un messaggio che vuoi far arrivare attraverso il tuo romanzo?
Il messaggio l’ho trovato dopo aver finito il libro, prima di una presentazione.
Mentre cercavo qualcosa d’intelligente da dire, capii che avevo scritto quel romanzo per alcuni motivi. Il primo riguardava l’ipocrisia, volevo combatterla, sia quella rivolta verso gli altri, sia quella rivolta verso me stesso. Poi, volevo dimostrare che dentro un uomo c’è tutto. Può starci un assassino, un omosessuale, un poeta, un intellettuale, un genio, una capra, un misantropo ed un benefattore dell’umanità.

L’ultimo libro che hai letto?
“Le cose dell’amore” di Galimberti

Cos’è l’Abruzzo per te?
Non lo so, forse un rifugio, forse una galera.


Alessio Pelusi Vive a Chieti ed ha 30 anni. Ha studiato e lavorato a Roma per 5 anni, laureandosi in Scienze della Comunicazione presso l’Università degli Studi “la Sapienza”. E’ tornato in Abruzzo e si occupa di qualità, sicurezza, finanziamenti pubblici ed organizzazione aziendale. Collaboro con alcuni giornali locali. Ha lavorato per la “Cronaca d’Abruzzo” . Scrive per due mensili: “Buono e bello” e “Abruzzo sport”. Nel 2008 ha pubblicato il racconto dal titolo “Ana non può baciare” sull’antologia “Una storia sbagliata” della casa editrice “Mediando” ed ha frequentato un Master in Giornalismo e Giornalismo Radiotelevisivo presso la Società Eidos Communication di Roma.Nel 2009 con la vittoria del Concorso per Giovani Autori della Fondazione Pescarabruzzo, ha potuto pubblicare il suo primo romanzo.

Alessio Pelusi
Moleskine nera
Edizioni Tracce, 2009
Fondazione Pescarabruzzo
Giovani Scrittori
Narrativa
pp. 160
€ 10,00
ISBN 978-88-7433-594-7
Dimensioni cm. 21x13

 
 
 
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