Creato da coluci il 05/09/2010

L'onda è il mare

Viaggio del cuore e della mente

 

 

Natale 2018

Post n°198 pubblicato il 23 Dicembre 2018 da coluci
 

QUESTO, NON È IL MIO NATALE

Il Natale, per secoli, ha rappresentato in Occidente un Evento di fede! Ora non più, raramente.

Anche le Metafore vengono svuotate dal tempo e dalla crudezza della realtà!

Metafore disabitate di Valori,

Evento delocalizzato nel Passato.

Il Natale, un prodotto avariato! La sua etichetta riporta ingredienti opposti a quelli del marchio d’origine: sicurezza, non più accoglienza; orrore e violenze, non più rispetto, mediazioni e armonia; sensibilità e dolcezza, non più, ma sopraffazione e bullismo socio-culturale-politico; il vero, non più, ma parole desautorate, incoerenza mistificata, ipocrisia; consolazione e misericordia, non più, ma addobbi presepiali sulla pelle, nera o bianca che sia, dei disperati.

Il Natale, la Metafora, pensavo anni fa, avrebbe avutola forza di cambiarCi, di farci scoprire ciò che di grande l’Evento nascondeva e trasformarCi in “Eventi di vita solidale”, invece è rimasto solo metafora, statuine del presepio senza vita, insignificanza, sfoggio, esibizioni, apparenze, interessi di parte e di pancia.

Quel tempo non c’è più e gli “eventi” sono rimasti, senza Metafora, drammatici “eventi” di ingiustizie, violenze, sfruttamento.

Questo Natale, non lo chiamo più cristiano, perché di cristiano non ha nulla; ha i connotati del rifiuto, dello sproloquio, dell’ego-ombelicale che, con ignorante ampollosità, alcuni, non tutti, definiscono “identità culturale nazionale”, con venature razziste!

Qui e ora, come secoli fa a Betlemme, non c’è posto, per l’Altro, per chi è diverso, straniero!

Qui c’è solo la nostra approssimativa impronta, non so se ancora nobile, di popolo-casta sulle difensive e che, miseramente tronfia, si autocelebra.

Si sproloquia con prosopopea di “Cultura Cristiana, Diritti dell’Uomo, Solidarietà tra i Popoli, Aiuto Mutuo delle Nazioni, Interscambio Culturale” e intanto si ergono Muri, si chiudono vie di accesso, si abbandona ad un tragico destino chi bussa, stremato da chilometri di atroci sofferenze o da campi di detenzione e tortura. Bussano per un possibile e sperato approdo umano.

Non c’è posto!

Che tornino a casa loro, e non ultimo, con cinismo ammantato di legalismo, che riposino in pace nei fondali di un mare di disumanità!

Diciamocelo fuori dai denti, gli addobbi, il presepio, l’alberello, le liturgie augurali sono metafore vuote, perché dietro alla metafora c’è il nulla, ci sono un cuore e una mente malati, plagiati se non malvagi.

Questo non è il mio Natale!!!

Non può esserlo!

Il Natale, quello dell’Evento, velato dalla semplicità della Metafora, non lo voglio confondere con lo schiamazzo che mi circonda.

Del mio Natale, semplice, fragile, indifeso, ma pieno di speranza, non mi vergogno! Lo custodisco gelosamente nel profondo.

 
 
 

Pagine di diario

Post n°196 pubblicato il 17 Ottobre 2017 da coluci
 

LA PAZZA CON LA VIOLETTA
postilla alla bruttezza egocentrica

(Agnes)

"Si disse: quando un giorno l'assalto della bruttezza fosse diventato del tutto insostenibile, si sarebbe comprata dal fioraio una violetta, una sola violetta, quello stelo delicato col suo minuscolo fiorellino, sarebbe uscita in strada e tenendolo davanti al viso l'avrebbe fissato spasmodicamente, per vedere solo quello, per vederlo come fosse l'ultima cosa che voleva conservare, per se stessa e per i suoi occhi, di un mondo che aveva ormai smesso di amare. Sarebbe andata così per le strade di Parigi, la gente presto avrebbe cominciato a conoscerla, i bambini l'avrebbero rincorsa, derisa, le avrebbero tirato oggetti addosso e tutta Parigi l'avrebbe chiamata: la pazza con la violetta..."

Milan Kundera, da L'immortalità, 1990.

Non se ne può più di inconsistenza, di egocentrismo.
Ognuno si crede il TUTTO.

L'IO che vuol divorarsi il NOI.

Questo IO famelico che si gonfia ridicolmente e ruba la scena ad ogni pluralità.

Il contenuto, tutto bianco o nero, nulla di sfumato.
Lo riscontriamo in primo luogo nel protagonista della scena domestica: il grande comunicatore, quel marchingegno inanimato che si anima e ci parla del mondo intero.

A chi, che cosa sarà funzionale a chi, a che cosa?
Al teatrino o agli attori?

Quali valori? I contenuti o la patina scenica, le fattezze genuine o la cosmesi, il reale possibile o l'effetto speciale?

Non c'è dibattito, interpersonale, di gruppo, televisivo, talk show (il teatrino della parola!) in cui si abbia l'onestà se non l'umiltà di riconoscere una parvenza di verità nell'interlocutore.
No, l'Altro va distrutto, questa la legge dell'arroganza.

Un'ideuzza, partorita dall'ignoranza o da luoghi comuni, viene riciclata e venduta come Logos.
Cicaleccio, paroloni infondati, retorica gratuita, frasi senza capo né coda, proclamati come Oratio ciceroniana.

Sorrisetti furbi, sventolìo della testa come diniego, finto ascolto, gestualità ben studiata e mirata per il consenso: tutto funzionale al proprio narcisismo e dogmatismo discorsivo, nonché a salvaguardia del proprio interesse economico e professionale.
Rientrano in questa categoria di facciata oramai anche alcuni ben noti giovani giornalisti di parte (parte negata, come da consuetudine, perché la parte supporrebbe un NOI, mentre è il loro IO che deve spiccare!).

Ma si sa, meno si è veri, attenti e interessati ai bisogni degli altri, più si è ossessionati dalla propria faccia.

Tutti a pontificare.

Minaccia o promessa, il FUTURO?

Voglio continuare a sognare un mondo abbellito dalla follia di donne e uomini che abbiano il coraggio di uscire per strada stringendo in mano un minuscolo fiorellino, una violetta.

 
 
 

Pagine di diario

Post n°195 pubblicato il 25 Agosto 2017 da coluci
 

Verbo in disuso

S E R V I R E

Liberamente servi e non sarai servo.
Menandro

C'è più gioia nel dare che nel ricevere.
Atti 20,35

Se uno vuol essere il primo,
sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti.

Mc 9,35

Il vocabolo "Servo" è un vocabolo per nulla gradevole e gradito. Abominevole.
Porta scritto nel suo codice genetico memorie odiose di sottomissione, sfruttamento, maltrattamenti, prevaricazioni,
oltraggi. Sangue e pianto.
Memoria di ingiustizie.

Essere "cosa", "proprietà" di un padrone.
Annullamento di ogni soggettività.

La vergogna della schiavitù, le sue brutture ripugnanti.

Un fenomeno che ha percorso in modo spregevole secoli di storia.

Ma è l'uomo che fa la storia e le parole ne narrano, colorano, definiscono solo alcuni segmenti. E la storia non sta ferma.
Nuova consapevolezza origina nuova esperienza.
Un significato inedito si svela.
La parola ri-sorge, ri-vive, si adorna di sfumature sorprendenti, perché la storia è sorpresa.

Anche la parola "servizio" ha avuto un suo svelamento, un sussulto di significato.
Inaspettatamente entra in scena un certo Gesù di Nazareth, per alcuni profeta, per altri figlio di Dio, per altri un saggio, per altri ancora un folle. Provocatoriamente e all'apparenza senza scossoni nobilita ciò che il potere ha deturpato.

Servire non è più atto indegno di sottomissione, schiavitù, possesso, ma può trasfigurarsi in premura, sollecitudine, disponibilità, dono, solidarietà, libertà, Amore.
Al dominio della minaccia subentra la libertà della scelta, alla sofferenza della costrizione la serenità d'animo del dono.
Il Servizio travalica, fugge dai suoi lugubri, atroci e cruenti significati e si esalta come regalo di vita.
Tensione unificante e non divisiva. Unire è di chi vuol condividere, amalgamare, dividere è di chi vuol salvaguardare, conservare.

Empatia prima, scelta dopo.
Cuore prima, mente dopo.
Le ragioni degli altri prima, le mie ragioni dopo.

Si tratta di arrivismo? Certamente no! Meritocrazia? Certamente no! Sopraffazione? Certamente no!  Razzismo? Certamente no! Successo? Certamente no! Privilegi? Certamente no! Tornaconto? Certamente no! Prepotenza? Certamente no! Orgoglio? Certamente no! Violenza? Certamente no!

Forse si tratta di auto-consapevolezza dei propri limiti, umiltà, semplicità, intelligenza e nobiltà d'animo.

Che sia RISPETTO?
Che sia GENTILEZZA?
Che sia STIMA?

Che sia AMORE?

 
 
 

Pagine di diario

Post n°194 pubblicato il 24 Luglio 2017 da coluci
 

NON FATE DELL'AMORE
UN LACCIO

Ma vi siano spazi nella vostra unione,
e fate che i celesti venti danzino tra voi.

Amatevi reciprocamente,
ma non fate dell'amore un laccio:
lasciate piuttosto che vi sia un mare in moto
tra le sponde delle vostre anime.

Riempia ognuno la coppa dell'altro,
ma non bevete da una coppa sola.

Scambiatevi il pane,
ma non mangiate dalla stessa pagnotta.

Cantate e danzate e siate gioiosi insieme,
ma che ognuno di voi resti solo,
così come le corde di un liuto son sole,
benché vibrino della stessa musica.

Datevi il cuore,
ma l'uno non sia in custodia dell'altro,
poiché solo la mano della Vita
può contenere entrambi i cuori.

E restate uniti,
benché non troppo vicini insieme,
poiché le colonne del tempio
restano tra loro distanti,
e la quercia e il cipresso
non crescono l'una all'ombra dell'altro.

Kahlil Gibran

Ogni legame "istituzionalizzato" può ACCECARE, o almeno, ANNEBBIARE la vista.

Un legame è fatto di infiniti fili, o interessi velati, che spesso inficiano una valutazione equilibrata, serena del partner. Soprattutto in contesti di interscambio con altri o altre coppie.

Partner che si difendono vicendevolmente.
Non hanno il coraggio dell'oggettività fuori dal proprio guscio.
Le emozioni che filtrano le esperienze passate, la solidità del ruolo, gli interessi latenti, le paure affettive influiscono sulla mente; ne consegue una visione-valutazione non completa, a volte miope e difforme di chi vive con noi.   

Non esiste la coppia perfetta,
esiste la coppia che si CREDE perfetta.

Di fronte agli altri!

Dicono di non pensarlo, ma lo pensano, e gli altri lo constatano.

La difesa vicendevole tra conviventi, meglio la cecità protettiva sui limiti vicendevoli, è condizione di accordo.
Di fronte agli altri!
Si vivacchia per convivere.

Se gli altri si permettono di svalutare questa presunta, esagerata autostima, si trasformano in vittime, schiavi della situazione, si sentono emarginati. E nel lamento cercano la propria rivalutazione.
Le colpe sono sempre fuori!
Sono le coppie, ombelico del mondo!

Non si riconoscono difetti in chi rientra nella cerchia del PROPRIO POSSESSO affettivo. Ne andrebbe della personale onorabilità!
Ogni eventuale comportamento discutibile della persona legata istituzionalmente è pur sempre giustificabile, per nulla criticabile.

Di fronte agli altri!

La propria moglie o compagna è la più bella, intelligente, indefessa, delicata, intuitiva, capace... e l'uomo che mi sta accanto è il più instancabile lavoratore, forte, intelligente, amorevole, protettivo, onesto.

I difetti albergano fuori casa. Una sorta di castrazione preventiva del discernimento per salvaguardarsi come coppia.

Di fronte agli altri!

Nelle apparenze!

Ma, nell'intimità della propria mente non ci si può imbrogliare... compatire, sì!

Non fate dell'amore un laccio...

 
 
 

Pagine di diario

Post n°193 pubblicato il 16 Giugno 2017 da coluci
 

AMORE PLATONICO
giocare all'amore

Il primo bacio non viene baciato dalle labbra bensì dagli occhi.
Bernhardt

Amore... egli indugia tra i fiori, poiché Amore non resta dove non v'è cosa in fiore o che sia avvizzita, sia essa corpo o anima o altro, ma dove tutto è fiorito e olezzante, là si posa e dimora...

... solo a chi ama è concesso, quando giura e poi non mantiene il giuramento, di ottenere il perdono degli dei perché, a quanto si dice, in amore non c'è giuramento che valga...
Platone, Simposio

Vi sono amori che alla lunga si squagliano, finiscono, svaniscono nel nulla, oppure sopravvivono unicamente nell'immaginario: i cosiddetti AMORI PLATONICI. Amori angelicati. Amori idilliaci, immaginifici. Senza coinvolgimento sensuale.

La letteratura ha celebri esempi: Beatrice e Dante, Laura e Petrarca, Silvia e Leopardi.

Sentimento amoroso romantico che occupa la mente in ogni momento, fatto di emozioni, sensazioni, sogni, sguardi, parole, foto, sms, whatsapp ... e lì si ferma.
Amore virtuale, aereo, immaginario, esangue, salvaguardato dalla distanza fisica.
Chimerico, utopico, idealista. Che non disturbi eccessivamente l'intimità, soprattutto il cuore.

Amore che si prende la licenza di essere in fase di innamoramento perenne. Gode dell'impressione di essere innamorati.
Il gioco dell'innamoramento.

Mai espresso significativamente in gesti, mai agito. Un amore lontano dalle passioni terrene.

PAURA della compromissione, PAURA del proprio corpo, PAURA della propria nudità, PAURA della propria identità? PAURA di abbandonarsi all'amore.

Un amore senza coinvolgimento espressivo è destinato a non aver futuro.

Ma, perché "amore platonico"?

Il riferimento è ad uno dei Dialoghi di Platone, Symposium (anche Convito, Convivio) dove il filosofo in una specie di agone oratorio espone la sua teoria su Eros, Amore.

Un gruppo di amici, tra cui Eressimaco (il medico), Socrate, Pausania, Fedro e altri amici si trovano per una cena in casa di Agatone. Decidono di dialogare su Eros, Amore.

Ne escono spaccati diversificati e interessanti (per esempio, sulla bellezza, sul bene, sul desiderio, sulla ricerca di immortalità, sulle modalità multiformi degli amanti...) attorno al tema in discussione: alcuni di origine mitologica, altri di costume, tutti ascrivibili alla concezione filosofica di Platone, per la quale il reale, la fisicità non sono che volgare ombra delle essenze autentiche, universali, eterne dei modelli ideali, le idee, che abitano il sopramondo, l'iperuranio.

Materialità, corporeità, fisicità non sono che infinite forme imperfette delle Idee Perfette, modellate dal divino artista, il Demiurgo.

Per cui il percorso conoscitivo, esperienziale, AMOROSO, deve superare l'illusoria, ingannevole materialità del contatto fisico, dei sensi ed elevarsi nella contemplazione delle Idee.

Lo stimolo è Eros (amore), che trascura le bellezze particolari per assurgere alla visione dell'unica, eterna Bellezza, il Bene.

Non è che Platone neghi che Amore sia anche espressione corporea, ma lì non si deve fermare per innalzarsi verso l'amore spirituale, universale.

Questo secondo aspetto, che è più consono al suo impianto filosofico, chiaramente lo predilige. E, Socrate, nel dibattito lo dirà chiaramente per bocca di Diotima: "la bellezza spirituale ha pregi assai maggiori di quella fisica", dando ad intendere che il corpo, la sessualità, l'erotismo, la passione intorbidiscano l'anima, i sentimenti veri e profondi.
Dualismo che nel corso dei secoli segnerà la concezione occidentale-cristiana: Anima e Corpo.

Ricordiamo Dante: "amor, ch'a nullo amato amar perdona", recita Francesca per giustificare il suo amore per Paolo, fratello del marito.
E Dante, dove la mette? All'Inferno.
Se l'avesse amato solo spiritualmente il suo destino sarebbe mutato.

Ma, tornando a noi, se l'amore tra due persone non impasta il legame amoroso, fatto sì di slancio interiore, ma anche di scambio sensuale, tattile, prima o poi sfuma e svanisce.

Perdersi nel mondo dell'incanto, dell'utopico, dell'illusorio, dell'inattuabile, flirtare romanticamente può essere di sollievo e sostegno in certe fasi della vita, ma alla lunga lascia insoddisfatti e, alla fine, sfianca.
Rimane AMORE PLATONICO.

 
 
 

Pagine di diario

Post n°192 pubblicato il 20 Maggio 2017 da coluci
 

IL SELFIE

... sono proprio figo...


La vanità è a tal punto radicata nel cuore dell'uomo
che un soldato, un attendente, un cuciniere,
un vessillifero si vantano e vogliono degli ammiratori.
E anche i filosofi li vogliono,
e quelli che scrivono contro tutto ciò
vogliono la gloria di avere scritto bene,
e quelli che leggono vogliono la gloria di averli letti,
e anch'io che sto scrivendo ho forse questo desiderio,
e forse quelli che lo leggeranno...

Blaise Pascal

L'uomo ama tanto se stesso
anche per il timore
che gli altri non lo amino abbastanza.

Roberto Gervaso

Uno dei fenomeni di moda è il selfie, autoscatto di se stessi con smartphone o tablet (eppure la lingua italiana è ricca di meravigliosi vocaboli e sinonimi!!!).
Un modo di attrarre l'attenzione dei followers (seguaci, devoti, ammiratori, spasimanti).
Probabile etimologia "self=auto + -je= esattamente).

Come dire: "signori, eccomi... guardatemi, sono proprio figo, speciale, non trascuratemi!"

Con un click "posto" la mia presenza, mi automanifesto. Mi autocongratulo per la mia avvenenza, esibisco le mie singolari fattezze, la linea perfetta, l'acconciatura (helfie), il lato B (belfie), l'estroso look, l'ambiente in cui sto agendo (welfie, se in ufficio), in situazione di ebbrezza (drelfie).

Si vuol fissare nel tempo un pezzo di presente, rendere noto il proprio stato d'animo in relazione a eventi o incontri emozionanti che ci fanno sentire importanti.
In questo ambito, buon gusto e maggior riservatezza non guasterebbero (soprattutto in circostanze delicate e riguardose).

Certamente chi si fa un selfie occasionalmente non è configurabile in tutte le molteplici forme che ho elencato, ma l'una o l'altra certamente se la può ascrivere.
Se non altro, come un vezzo di simpatico narcisismo, se entro certa misura. Ma più mi guardo attorno è più mi sembra di constatare che si sconfini verso espressioni maniacali (selfite acuta).

Perché questa moda?

Faccio semplici (forse semplicistiche???) ipotesi per cercare di interpretare il fenomeno.

- Il semplice bisogno di apparire, di mettersi in mostra. In fondo la nostra è una società dell'immagine.

- La paura di essere sottostimati, sottovalutati. Il selfie è un modo di gratificazione autocelebrativa, l'offrire un'immagine di sé attraente, apprezzabile se non eccellente, diversa da quella sfocata, ordinaria se non modesta, che pensiamo gli altri immaginano, ma che non vorremmo immaginassero.

- Una certa insoddisfazione per la propria vita sentimentale, relazionale, per cui si sente il bisogno di "regalarci-esporci", per lo meno, allo sguardo, al contatto "solo virtuale" con chi ci è legato o ammira.
Non manca una certa carica di esibizionismo, voglia di suscitare reazioni sorprendenti e favorevoli.

- L'ambiente che ci circonda (famiglia, gruppo) è poco accogliente, poco attento al bisogno di "raccontarci", ci stima relativamente, non ci soddisfa nelle aspettative; si sente il bisogno di straripare, di fuoriuscire e offrirsi senza velature. "La mia narrazione è per te che liberamente mi vedi e ascolti!"

- Un modo per esorcizzare le proprie insicurezze, paure, ansie, moti di imitazione in una società fortemente competitiva e invasa dal gossip e dal vippismo. "Non sono l'ultima/o arrivato. Anch'io conto e non sfiguro. Vedete un po' le/gli rassomiglio... vero?"

- Una forma di spassosa goliardia, per divertirsi, giocare, dimenticare i problemi.

Concludo osservando che un modello di comportamento (soprattutto se diventa di massa e circoscritto in alcune fasce di età) esprime nuove esigenze relazionali, originate da un malessere.

Certamente il bisogno di distinguersi, un'ansia di differenziazione, una ricerca di identità (?!?!?).

 
 
 

Pagine di diario

Post n°191 pubblicato il 21 Aprile 2017 da coluci
 

MULTA PAUCIS

molte cose in poche parole

Nil est dictu facilius (Terenzio)
Niente è più facile che parlare

Noli tu quaedam referenti credere semper:
exigua est tribuenda fides, qui multa locuntur
(Catone)
Non credere sempre a chi ti dà notizie:
bisogna avere poca fiducia in chi parla molto

Vasa inania multum strepunt
I vasi vuoti fanno un grande rumore

Nescit vox missa reverti
La voce, una volta emessa, non può più tornare indietro

Spesso in questo mio diario mi soffermo su aspetti che toccano la relazionalità.
I rapporti fanno le persone, le stabilizzano o le destabilizzano.
Ci si muove nella quotidianità come ragni in una ragnatela. Si secernono fili di collegamento, alcuni viscosi, altri no a seconda dei nostri bisogni, affettivi e/o di altro tipo.
Una tela molto impegnativa, perché la dobbiamo giorno dopo giorno ricucire e ritessere.
Fili sottilissimi che, se non sempre si spezzano, rischiano però di rimanere notevolmente tesi e appesantiscono il nostro convivere.

Qualcuno arriva a dire che ci si ammala per correlazioni indigeste o poco azzeccate.
Può essere, certamente non si sta bene con persone pesanti e il buonumore fatica a risvegliarsi.

Oggi va di moda un certo psicologismo colpevolista che attribuisce il malessere sempre ad una personale mancata rettifica relazionale. In certe situazioni è incontestabile, ma in altre è il tipo di ghiandola (analogia col ragno) che secerne il filo che è malata.

Una tipologia di persone che appesantiscono i rapporti è quella di chi parla troppo.
Un continuo cicaleccio. Sempre pronte a dire qualcosa su tutto e su tutti. Esimi tuttologi, a parole. Esasperanti, nelle loro approssimazioni.
Parlo e straparlo, quindi esisto.
Un "estroversismo" caratteriale nella comunicazione e gli ismi, qualsiasi ismo, rompono un equilibrio, generano nervosismo in chi li deve digerire.

Quale bisogno si nasconde sotto questo atteggiamento?

- Ottenere attenzione e approvazione da parte degli altri, dato che si è insoddisfatti di se stessi. Presenzialisti, sempre concorrenziali con qualcuna/o. Poco consapevoli che proferire parole su parole non sempre è comunicare pensieri, conversare, dialogare, ma spesso monologare, e, a volte, spettegolare.
Infatti il parlare compulsivo può rappresentare un modo per riempire il proprio vuoto interiore.
I vasi vuoti fanno molto rumore.
Un "parlarsi addosso", e chi ha la pazienza di ascoltare lo percepisce a pelle.
Molte volte, le troppe parole più che chiarire, confondono, creano diffidenza e poco apprezzamento.

- La parola, uno dei più nobili strumenti di comunicazione (dopo il silenzio), dovrebbe unire e non dividere, intessere rapporti sinceri, armoniosi e non di noia, sopportazione o tolleranza.
Mi è capitato di leggere a proposito del loquace: "... la maggior parte dei tuoi interlocutori non ti dirà la verità... si sentono stanchi, risucchiati e intrappolati in tua presenza, e sono annoiati dai tuoi discorsi. E non volendo offenderti stanno zitti e ti evitano".
Concordo. Difficilmente accettiamo di "essere usati" per riempire il vuoto interiore altrui. Ognuno può fare ricorso ai propri silenzi di riflessione.

- L'esigenza di chiacchierare in continuazione manifesta anche un senso di PAURA, ABBANDONO, SOLITUDINE. Faccio secernere alla ghiandola un filo che mi aggrappi verbalmente in modo indelebile ad un affetto, un'amicizia, perché mi fa paura rimanere solo, non essere considerato importante.
Ci sono anch'io! E ho bisogno di dirlo, ho bisogno di parole per farmi notare, perché gli altri sono distratti nei miei confronti.
In alcune situazioni questa esigenza sconfina in presenzialismo ed è facile che la parola scada in strumento di imposizione. Persone che per sentirsi vive si ritagliano un loro ruolo predominante.
La parola, veicolo di potere. Emerge un senso di esagerata autostima e perfezionismo (il solito "ismo").

- Inoltre, chi è uso a sovraprodurre parole in continuazione è facile che finisca senza accorgersi in contraddizioni, che, a volte, possono manifestarsi anche in comportamenti incoerenti.
Infatti, i peggiori avversari sociali o ideologici che spesso si condannano a parole, possono trasformarsi in utili alleati se favoriscono i propri interessi di bottega e familistici. Verba volant!

Chi chiacchiera troppo o è temuto o è sopportato,
certamente è poco ascoltato,
alla lunga poco credibile.

 
 
 

Pagine di diario

Post n°190 pubblicato il 15 Febbraio 2017 da coluci
 

IL DUENDE

Il folletto che abita nel profondo


"Il DUENDE agisce sul corpo della ballerina come il vento sulla sabbia. Trasforma con il suo magico potere..."

"La virtù magica del componimento poetico consiste nell'essere sempre intriso di duende... perché con DUENDE è più facile amare, comprendere, ed è certo essere amati, essere compresi..."

La definizione del duende è come la definizione del tempo di Sant'Agostino: "Se non mi si chiede che cos'è, lo so. Se me lo si chiede, non lo so".

Nell'ultimo romanzo di Raffaello Mastrolonardo, La scommessa, al cap. 10 vi è uno stralcio sul "duende". Poche righe, svolte con acutezza e passione letteraria. Uno dei miei romanzieri viventi preferiti.

"... Non capii cosa fosse quella presenza oscura e dionisiaca... Talvolta avevo avuto la fortuna di incrociarla in una poesia, nell'esecuzione d'un canto, d'una danza gitana o in altre molteplici forme che l'arte assume.
...

La ricerca è inutile, benché ogni emozione sia impossibile senza il duende. Occorre attendere che arrivi.

Sceglie lui il momento e si manifesta all'improvviso in forme e modi imprevedibili; t'assale e s'impossessa di te un potere occulto che non puoi fugare.

... avevo percepito quel demone tellurico che ascende le viscere della terra, s'impossessa del tuo pathos, lo permea e possiede per intero. È un potere che tormenta, senza il quale non è possibile creare.

Il duende è molteplicità e distruttività delie forme. E non si ripete.

Ero stregato, perduto..."

Del DUENDE parla Federico García Lorca in "Gioco e teoria del Duende", titolo di una sua memorabile conferenza - si racconta - tenuta a Cuba nel 1930. In seguito, edita in un libretto.

Perché penso al duende? Perché ai nostri giorni, abbiamo a che fare con personaggi in vista, in vari ambiti, che pensano, per età, per fortuna o favori, di essere detentori di caratteristiche per imporsi, sputare sentenze, ritenersi degli eletti per diritto divino.

Ma... non hanno DUENDE.
Mediaticamente si usa dire: non hanno l'X-Factor. Para-religiosamente: non hanno carisma.

Il DUENDE non lo si conquista ("non c'è mappa né esercizio"), non lo si compra al supermercato, non lo si può elemosinare con opportunismo, non lo si modella attraverso marchingegni metodologici.

Il duende non si può averlo
se non lo si ha.

Parafrasando don Abbondio: se uno il duende non ce l'ha, non se lo può dare.

"Un potere misterioso - scrive Garcia Lorca - che nessun filosofo spiega".
Infatti, è impossibile spiegare, convertire in pensiero ciò che si sente, perché la mente interpreta, vede solo ciò che viene a galla. Il sentire è prima.

Il duende, nel dizionario spagnolo e nella letteratura popolare, è folletto indescrivibile, uomo in miniatura, un po' giovane o un po' vecchio, fantasma, abita luoghi misteriosi, zone oscure.

"Il DUENDE non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi. Vale a dire, non è questione di capacità, ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura, e, al contempo, di creazione in atto".
Un flusso che si sprigiona dalle profondità del proprio essere, dal magma genetico, storico, culturale che è in ognuno.

E, all'improvviso, si libera,
appare e CREA.

Energia oscura ("tutto quello che ha suoni neri ha duende"), fluido misterioso, impulso, sussurro, folgorazione, incantesimo, vibrazione.

Il DUENDE è dentro, solo chi lo sa ascoltare e risvegliare è artista (e artisti si è, non si diventa).
Tu artigiano, tu ricercatore, tu insegnante, tu scrittore, tu poeta, tu danzatore, tu musicista, tu cantante, tu pittore, tu scultore, tu fotografo, tu politico, tu donna o uomo che ami...  se il duende non ce l'hai, non cercare di ingannare, perché al massimo darai la sensazione di averlo, ma trasmetterai, anche se con buona tecnica, solo indifferenza.

"Il duende nell'arte è quel fluido inafferrabile che ne è il sapore, la radice, una sorta di serpentina che lo immette nella sensibilità del pubblico".
Ebbrezza dionisiaca, fascino seducente, fiamma sfavillante che attraversa le vene e scalda i cuori. Come corpo sinuoso di ballerina, voce poetica, melodia inebriante che fondono in unica palpitazione artista e ammiratori. 

Quando c'è, il duende
accende EMOZIONE,
eccita PASSIONE,
scatena ENTUSIASMO.

A volte lo si chiama, AMORE.

 
 
 

Pagine di diario

Post n°189 pubblicato il 22 Gennaio 2017 da coluci
 

GIGANTI
DAI PIEDI DI ARGILLA

C'è una specie tra gli uomini vana, che spregia ciò che ha
e scruta lontano, in traccia di fantasie, con speranze inani.

Odi Pitiche di Pindaro

L'accecamento dell'uomo è frutto non più dell'invidia
ma della giusta indignazione degli dei per la hybris,
l'arroganza, la tracotanza generata dal successo,
che provoca la perdita della coscienza dei propri limiti.

Eschilo-Eumenidi

Sembra che oggi non ci si possa concedere il lusso di esser fragili: sempre prestanti, potenti, imbattibili, secondi a nessuno, perfetti.
Poi, improvvisamente, un imprevisto, uno scossone, a volte tragico, ci porta a dubitare dell'ONNIPOTENZA dell'IO, della sproporzionata fiducia nella tecnica, nella scienza o in presunte "scienzucole" che vanno tanto di moda.
Ma si sa, questo è il mantra in voga: tutto mi è possibile se lo voglio.
La MEGALOMANIA, da forma patologica a teoria comportamentale.

All'uopo spuntano come funghi profeti dell'enfatizzazione, scaltri incantatori, che abbagliano con tecniche verbali mirate, capziose, magiche: nulla è irrealizzabile e irraggiungibile, basta volerlo! Scritti, palcoscenici, podi mediatici, web, nulla sfugge alla loro oculatezza... e al loro portafoglio.   

Tuttologi in gran spolvero: la salvezza, la felicità, la guarigione, tutto è a portata di mano.

Vuoi essere felice? Io ho la ricetta! Vuoi riuscire economicamente? Io ho la ricetta! Vuoi stare bene fisicamente. Io ho la ricetta! A volte "con", altre "senza" un dio di supporto. Anche lui, orpello funzionale al mio benessere egoico!

La ricerca scientifica, ora giustamente meno presuntuosa, ma pur sempre meritevole di aver fatto trionfare la ragione sull'oscurantismo della magia, convive, oltre che con i cammini di salvezza ispirati dalle grandi religioni e filosofie dell'Oriente e dell'Occidente, con credismo, esoterismo, astralismo, stregoneria, ufologismo, spiritismo, metamedicina, esopolitica, contattismo, vegetarismo, animalismo... ognuno, nello specifico campo propone soluzioni e terapie per il benessere fisico, psichico, morale e sociale.

E invece
NON TUTTO È POSSIBILE.

Per gli uomini di ogni epoca vi sono stati, ci sono e ci saranno sempre limiti valicabili e limiti invalicabili. Ognuno lo sa bene, anche se non lo vuol ammettere.

Prima o dopo il sipario si chiude. Si muta.

E se si muta è perché si è FRAGILI, LIMITATI, IMPERFETTI, INCOMPLETI.

La debolezza, la carenza, la vulnerabilità, l'instabilità sono COSTITUTIVI di ogni ESSERE.

Ognuno è destinato a divenire
ciò che ancora non è.

Ogni IDENTITÀ porta il nome del proprio LIMITE.

Non siamo automi indefiniti, come vorrebbe certa cultura e certa moda.

FRAGILITÀ e IMPERFEZIONE richiamano e invocano l'ALTRA/O.

Chi è CONSAPEVOLE di non essere perfetto

... accosta con tatto e delicatezza, non invade, non si impossessa, non domina.

...  non chiacchiera a sproposito, è incline al silenzio e ascolta con partecipazione.

...  non si gonfia di orgoglio, è umile, accogliente, disponibile.

... non si crede perfetto, sa che può sbagliare.

... gioisce nell'aiutare chi è nel bisogno, e non si vergogna di chiedere aiuto.

... piange con chi piange, si immedesima con le paure e le pene di chi soffre, senza farglielo pesare.

... non sta seduto sulla riva del fiume, ma considera la propria debolezza come stimolo per aprirsi a nuovi orizzonti.

... cerca senza sosta, procede con lungimiranza, verifica con saggezza.

... se apprende, è per la gioia di apprendere.

... se si relaziona è per la gioia di relazionarsi.

... se ama, è per la gioia di amare.

 
 
 

Pagine di diario

Post n°188 pubblicato il 14 Dicembre 2016 da coluci
 

CONFLITTUALITÀ

Give peace a chance

Tutto ciò che noi diciamo è:
date una possibilità alla pace!

Aggiunta libera al testo di John Lennon

Senti! Molti parlano di
democrazia, costituzione, riforme, elezioni,
immigrati, lavoro, sicurezza, muri,
verità, giustizia, uguaglianza:
in realtà, c'è chi pensa solo al proprio interesse!!!

Senti! Pochi parlano
di bimbi, mamme, papà
crimini di guerra, genocidi, bombe,
regimi reali, carneficine, sfollati:
in realtà, c'è chi fa solo conti di bottega!!!

Senti! Molti brandiscono
vaniloqui, intolleranze, ingiurie,
trasformismi, ideologismi, doppiezze, ottusità.
Tutti parlano di Europa,
governi, dialogo, rispetto?!?

 
 
 

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