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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Messaggi di Luglio 2014

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Post n°488 pubblicato il 30 Luglio 2014 da enodas

 

 

Ha iniziato a piovere. Così come é iniziata la musica. I tasti del pianoforte ed il ticchettio della pioggia. Tutto il resto é silenzio sui gradoni dell'Arena, un silenzio sospeso come é quello intervallato da note sullo spartito. E' una musica che si imprime come l'acqua tra le pieghe dei vestiti bagnati. Quasi che le due cose non fossero separate.

 

"Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici..."

(Henry David Thoreau)

 

Nasce così "In a time lapse", l'ultimo disco di Ludovico Einaudi, cui é interamente dedicata la prima parte del concerto. Nasce così, dalla lettura di uno scrittore che ha un nome familiare. Immagino proprio queste parole, ora, mentre é l'acqua a scendere irregolare ed infine a bagnarmi il volto. Affondo nel profondo. Di una musica inafferrabile, fatta di semplicità e silenzi. Eppure inafferrabile. Canto ancestrale che assorbe il mio sentire, le mie dita che sfiorano un fascio di capelli, che anelano improvvisamente i tasti di un pianoforte, mentre ombre di musicisti sullo sfondo di un palco illuminato di luci che sembrano un tramonto o una notte stellata si riflettono su un pavimento bagnato che sembra un mare intero, uno di quegli oceani che dipingono l'anima e sussurrano nel silenzio.

 

"I sogni sono le pietre di paragone del nostro carattere."

 

A tratti mi sembra quasi di risalire momenti della mia vita. Salendo scale di note fatte dei tasti di un pianoforte. C'é un'Arena colma, ora, gente venuta anche dall'estero. Ci sono io, una decina d'anni fa o poco più, su una sedia di plastica nel cortile di una villa assieme ad un centinaio di persone. Uno dei ricordi in musica più vividi ed impressi che porto con me. E lui, che suona la propria musica. E gli altri, in un silenzio a cui nemmeno sembra si voglia concedere il respiro. Ecco, ora, solo al pianoforte, canta quella stessa musica, più pura, più bella. E' dentro di me.
Come il canto di un violoncello, che si aggiunge. Un altro disco, un altro concerto. Un altro scalino, un altro di quei tasti bianchi e neri disceso. Un altro angolo del mio cuore. Sotto una notte che inifne non é più pioggia. Rimangono i riflessi sul palco di sparute figure che avvolgono i propri strumenti. Rimane la musica, che fluisce ancora, tra evocazioni e note nuove. Tutto l'amore per il pianoforte, quando lo dimentico, quando rimane ammutolito. Ecco, ascoltando queste note, come quando sfioro le pagin aperte di uno spartito. Ecco, allora capisco quanti sforzi, ogni volta, quanto tempo speso per quelle dita incerti sui tasti. Una cadenza infinita, una musica costante.

 

"La nostra vita più vera e quando siamo svegli nei nostri sogni."

 



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Post n°487 pubblicato il 28 Luglio 2014 da enodas

 

 

 

Lo "spezapreda", così nacque. Così inizialmente si firmava. Il tagliapietra, figlio di uno scalpellino della Verona del Seicento. Nasceva il Veronese, ben presto, quando iniziò a dipingere. Iniziò guardando a Mantova ed all'Emilia, rievocando le forme forti e possenti di Giulio Romano, ed i profili delle donne emiliane. Lo faceva appropriandosi del colore, quel colore vivo e sgargiante, il rosa, il giallo il blu e soprattutto il verde, quel verde che diventerà "verde Veronese". Ed infina, carico dei suoi segreti svelati, del linguaggio pittorico che fondeva la pittura dei maestri emiliani con quella della cerchia romana, lasciò Verona e giunse alla Serenissima. Paolo Caliari, Paolo Veronese. Chiamato dalle più alte committenze, ad affrescare le pareti degli edifici più prestigiosi. Fu allora che divenne "il maestro dell'illusione", quella di fondere spazi architettonici reali con la scena che entrava nel muro, lo apriva su un mondo nuovo che era quello delineato dai suoi pennelli, dai suoi colori. E non poteva essere altrimenti, per quell'artista nato "spezapreda" e che la pietra traslata nell'elemento architettonico compariva già entro le sue prime tele.
Così l'illusione, così l'architettura, organizzava lo spazio delle prime cene, un tema famoso di Paolo Veronese, lungo tutta la sua carriera artistica ed anche oltre, quando le maestranze che lavoravano alla sua bottega cercarono di raccoglierne infine il testimone. Allora comparivano le figure della società veneziana, in un clima disteso ed una scena ricca di particolari in cui niente era laciavto al caso.
Ed accanto alle committenze pubbliche fiorivano quelle private, pronte a contendersi uno dei pittori più apprezzati del momento. Paolo l'illusionista diventava allora l'artista del soggetto mitologico, colmo di sensualità ed un pizzico di ironia, o di episodi tratti dalla Bibbia. Ovunque, le sue donne, belle ed eleganti, un po' ispirate alle bellezze veneziane, esprimevano tutta la loro sensualità.
Oppure traducevano il proprio messaggio d'amore virtuoso attraverso una serie di richiami allegorici, vestite di tessuti preziosi ed elaborati, panneggi che giungevano a San Marco dalle lontane terre d'oriente.
Nella sfera privata il pittore illusionista si cimentava infine coi temi legati alla tstretta devozione religiosa, dando vita a scene di raccolta intensità che parlavano dritto al cuore del committente.
Tutto questo, uno stile proprio di far pittura e di collocarsi in confronto ad una vasta scala di temi trattati rimase trasferito a coloro che si erano formati nella bottega del pittore, con alterne vicende. Il figlio Carlo si spense giovane privando del proprio nome i libri di storia dell'arte, mentre in altri casi la maestria del pittore andava attenuandosi nei pennelli dei suoi allievi. Anche questo, in fondo, é ciò che separa il genio e lo fa emergere oltre l'oblio delle pieghe del tempo.

 

 

Devo dire che questa mostra mi é piaciuta molto, rivelandosi particolarmente interessante. Ben curata, nella scelte, nella suddivisione delle sezioni che allo stesso tempo distinguevano tematiche ed evoluzione artisitica del pittore, e nei dipinti. Paolo Veronese, così apprezzato in vita, per quanto rimasto nell'Olimpo dei grandi della pittura del suo tempo, viene considerato ed appreso a volte come figura leggermente in ombra rispetto i suoi contemporanei, quasi come decoratore che pittore. Questo percorso illumina invece la maestria e l'importanza dei suoi lavori, così come nella vastità dei contesti in cui nascevano le sue opere, nelle affascinanti figure femminili, nella bellezza dei vestiti e nella cura descrittiva degli spazi così come delle figure umane che li popolavano, così come, infine nella bellezza e nell'intensità dei colori. Questa mostra mi é piaciuta perché mi ha fatto apprezzare questo pittore e mi ha guidato tra significati intrinsechi e rimandi incrociati delle opere. Perché Paolo Veronese fuse scuole diverse e filosofie diverse. In questo, sono di straordinario interesse i disegni che corrono paralleli alla mostra, ad ogni tappa, alcune volte addirittura in rapporto univoco coi dipinti esposti alle pareti. Bellissimi, svelavano tutta la bravura di quest'uomo, ma anche l'attenzione che questi dedicava alla fase del disegno, un po' in contrasto alla tradizione veneziana che si concentrava sul colore. Matita, penna, tratti ad acquerello. Rimanevano come modelli, una specie di archivio, nella bottega del maestro, a fungere da rimandi per i soggetti più complicati o per lo studio di figure. Su questi fogli si svelava cosa c'era dietro il risultato finale impresso sula tela. Quella storia nella storia, che rende il cammino lungo queste sale più ricco ed un po' più prezioso, sulle orme di un grande pittore.

 

 

"Scopo della rassegna è di illustrare la grandezza del maestro cinquecentesco che fu antesignano del Manierismo sulla laguna, capace di celebrare con la sua pittura innovativa, fatta di luce, colore, ardite prospettive, il vivere civile di Venezia, l'apertura intellettuale della citta', quando ancora non avevano preso piede i rigidi dettami della Controriforma. Per questo, anche in epoche successive, influenzo' generazioni di artisti, tra cui Van Dyck, Rubens, Watteau, Tiepolo, Delacroix. Figlio di uno scalpellino, Paolo Caliari nasceva nel 1528 a Verona, dove si svolgeva la sua prima formazione artistica nella bottega di Antonio Badile. Ma e' il suo mentore, Michele Sanmicheli, a introdurlo alle suggestioni della 'maniera nuova', sia quella di provenienza tosco-romana, rappresentata soprattutto da Giulio Romano, a lungo attivo nella vicina Mantova, sia il suo versante emiliano, riconducibile all'opera di Correggio e Parmigianino. Una matrice questa che caratterizzera' la sua cifra anche durante tutto il periodo veneziano, nonostante gli innegabili influssi di Tiziano, a cui fu legato da vicendevole ammirazione.
La pittura del Veronese, al contrario della scuola veneta, assegnava un ruolo assolutamente centrale al disegno, mentre al tonalismo spesso preferiva campiture ben definite, caratterizzate da decisi cangiantismi. Eppure, una volta operativo a Venezia, fu proprio il Vecellio a sostenerlo presso le autorita' cittadine, a introdurlo nella cerchia di Palladio che stava rivoluzionando l'architettura del tempo. Tanto che le decorazioni pittoriche di Villa Barbaro sono tra i capolavori assoluti del Veronese. Tra i maestri piu' contesi della Serenissima, Paolo Caliari fu chiamato a dipingere pale monumentali nelle chiese piu' importanti del Veneto. Furono una sua invenzione le scene corali dedicate ai banchetti evangelici, comunemente indicate come 'Le Cene', in cui l'artista trovava il pretesto per raccontare in tutto il loro splendore le sontuose feste dell'aristocrazia veneziana del tempo. Veronese e' quindi famoso per queste straordinarie, complesse visioni delle allegorie, per le storie mitologiche e gli impareggiabili ritratti.
La mostra alla Gran Guardia ne racconta la grandezza in un percorso espositivo suddiviso in sei sezioni: la formazione a Verona, i fondamentali rapporti dell'artista con l'architettura e gli architetti (da Michele Sanmicheli a Jacopo Sansovino a Andrea Palladio), la committenza, i temi allegorici e mitologici, la religiosità, e infine le collaborazioni e la bottega, importanti fin dall'inizio del suo lavoro. Oltre ad un'ampia scelta di capolavori dell'artista, la mostra comprende quindi numerosi disegni di eccezionale qualità e varietà tematica e tecnica, con l'obiettivo di testimoniare il ruolo della progettazione e riflessione grafica non solo nel percorso creativo di Paolo ma anche nella dinamica produttiva del suo atelier."

 

 

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Post n°486 pubblicato il 25 Luglio 2014 da enodas

 

 

Sono arrivato che l'aeroporto era bloccato. Nessun volo per quattro ore. Giusto così, alla fine, che anche in questo secondo giorno non si senta dalla pista il rumore delle turbine mentre da quell'aereo si proceda alla pietosa operazione di scarico. E' un qualcosa che ha colpito profondamente la nazione. E non potrebbe essere altrimenti. Perché la gran maggioranza di persone era olandese, certo, e molti in qualche modo avranno avuto una persona lontanamente conosciuta, fosse anche un collega di lavoro alla lontana, nella stessa azienda, e perché molte erano proprio espressione di questo popolo viaggiatore che prende e parte in continuazione verso ogni meta raggiungibile. Una proiezione di una tragedia assurda che ha inghiottito gente che andava in vacanza e che torna, forse non si sa nemmeno, in condizioni mostruose. Credo che sia anche questo, l'essere toccati in profondità in una routine della nostra vita agiata. Il dolore reclama sempre rispetto. Ho pensato che in questi giorni ci sia stata una grande compostezza, una forte unità ed una grandissima dignità in risposta dal popolo olandese. Un popolo che, per quanto nel mio piccolo quotidiano possa scontrarmi con la cultura a differenti livelli, si é sempre dimostrato un popolo di altissimo senso civico e con più alto senso della società che abbia mai incontrato.

 

"What a terrible wold".

Sì é vero, penso. Non siamo capaci di avere un mondo più bello, di costruire. Ho letto articolo per articolo del volo abbattuto. Ho girato pagina ed ho letto ancora di più della guerra a Gaza. Leggo di un Paese da cui sono appena tornato e penso che ho quasi sfiorato una guerra. Non ha senso. Non ho trovato pagine di chissà quante guerre dimenticate. Quel volo C130 parcheggiato a lato della pista, le bandiere a mezz'asta che vedo dal finestrino mentre infine il mio volo entra in fase di rullaggio sulla pista, sono facce di una sola medaglia che gira vorticosamente. Ne rimaniamo colpiti perché colpisce noi in qualcosa che facciamo, prendere un aereo ed andare in vacanza. Oggi, in questi giorni, che pure un po' di paura ce l'ho sempre, molto di più leggendo i giornali. Eppure, continuiamo ognuno per se stesso, colpiti certo sul momento, dispiaciuti e ci mancherebbe, e poi proseguiamo. Come un aeroporto che torna operativo ed uno sciame di passeggeri viene nuovamente reindirizzato verso i gate, ognuno verso la propria destinazione, qualcuno magari calcolando soltanto il ritardo accumulato. Il mondo non si ferma per nessuno, e forse é questo il prezzo che la vita reclama per sopravvivenre. E' un pensiero triste, ma é la realtà. E tra un po', anche questo rimarrà un interrogativo insoluto. Insoluta é la disputa e lo stallo politico che hanno portato ad abbattere un volo di linea. Perché anche in Ucraina, o quel che ne rimane almeno su una mappa geografica, é una guerra, una guerra civile vera e propria, e che tirassero giù un aereo a ben vedere era solo questione di tempo. Insoluta rimarrà una stupida guerra combattuta sulla pelle di povera gente, da entrambe le parti in nome di fanatismo e disprezzo. Loro sono già più lontani e li sentiamo un po' meno. Insoluti sono i barconi che affondano, in continuazione, nell'indifferenza più vergognosa, la stessa che fa dimenticare lo sterminio enorme che avviene nel loro luogo di origine. Loro non li vediamo nemmeno più, forse per assuefazione, forse non lo so.

Ed é subito sera.

 

 
 
 

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Post n°485 pubblicato il 22 Luglio 2014 da enodas

 

 

 

Pochi passi, dalla banchina attraverso i giunchi. Pochi passi e si scivola sul fondo e le gambe affondano in un fango scuro e pesante. Inizia così. La terraferma che lentamente si lascia alle spalle, mentre ogni passo affonda, precario, quasi inghiottito. Lentamente, é il mare, nel quale cammino, su una strada che si é aperta così, secondo un'arcana magia, laddove normalmente c'é l'acqua, che guide esperte sanno come trovare, in mezzo a questa distesa instabile. Sono ospite di un mondo che normalmente rimane nascosto. Tra acqua e terra, tra cielo e mare. Scorgendo riflessi che abbagliano e che sono talmente pieni da dare la sensazione di camminare in un mondo capovolto. Un deserto di acqua che c'é e non c'é, che sparisce e lascia aperto il passaggio con la stessa rapidità con la quale se ne riappropria. Un deserto che é un luogo dell'anima, sotto un cielo azzurro ed un sole caldo come pochi se ne vedono quassu. Più a nord, ancora, verso le Isole Frisoni, in una terra strappata al mare dall'uomo.
Cammino, per la gioia di camminare. Per l'emozione di attraversare questo deserto, che proietto dentro di me. In un luogo che per me rimane unico, nel quale l'animo stesso trova lo specchio in cui riflettersi. Sfiorando forme di vita nascoste pochi centimetri sotto le suole di scarpe da buttare e conservate apposta per questo, ora colme di fango ed acqua. Una goccia di sudore, un altro respiro. Come quello che sembra il profilo di un'isola, forse é un miraggio, forse é un riflesso senza soluzione di continuità a livello del terreno, proprio come avviene nei deserti. Fata Morgana, li chiamava la mia guida marocchina che parlava soltanto francese.
Ed invece no. Lentamente, attraverso guadi, e terreni soffici tenuti insieme da banchi di cozze, quel profilo si avvicina, assume sembianze reali. Sentendo sempre forte il sapore del mare, in quelle gocce di sudore, sulle labbra, nei vestiti. Tra cielo e mare.
Guadagno una spiaggia bianca e senza fine, nascosta dietro dune di sabbia che in superficie scorrono granellino per granellino, reinventandosi ogni volta in una traccia diversa. Per la prima volta, in quasi otto anni, ho fatto il bagno nel Mare del Nord

 


[...]

 
 
 

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Post n°484 pubblicato il 18 Luglio 2014 da enodas

 

 

7-9 Giugno

 

 

Osservo le molte anime di Nazareth. Non un villaggio, per quanto il centro vero e proprio sia in realtà molto contenuto, attorno a poche strade. Le anime di Nazareth sono nella gente, arabi, innanzitutto, arabi cristiani, israeliani, e mussulmani. Una realtà diversa da quanto posso aver visto finora. Fuse e separate, nella cucina, nelle case dalla disrodinata città vecchia, nel profilo degli edifici. Le anime sono nelle piazze, un po' diverse l'una dall'altra, ma profodamente mediorentali, un po' caotiche e con quell'aria decadente che trasmette un insolubile senso di abbandono a se stesso, al tempo ed all'incuria, e nei cortili delle case, dove può capitare di essere invitati a far parte della famiglia. O familias, come dovrei dire realmente, secondo quel significato più ampio che davano i latini. E' difficile così indugiare su quale sia il giorno di festa, il venerdì, il sabato o la domenica. indugiare sulla persona che hai di fronte. Le anime emergono nei manifesti, alcuni inquietanti, che contrappongono fedi e religioni, come a ricordare che c'é sempre qualcosa di nascosto e mai sopito, una tensione sottintesa, anche laddove tutto può apparire normale e pacifico.
Di tutto questo sembra non rimanere che una traccia oltre un cancello, dove frati francescani si piegano su delle piante ad estirpare un'erba a raccogliere un frutto. Sorgono così, quesi luoghi di culto chiusi ad un esterno caotico e polveroso, due mondi separati da un muro. Nel cuore della città vecchia, di fronte alla Basilica dell'Annunciazione, di fianco alla hiesetta di San Giuseppe. Che anche queste sono anime di un luogo, uomo e donna, un piccolo edificio edificato su vestigia crociate ed un'architetture ardita che si distingue anche da lontano. Che anche il culto mariano é l'anima più intrinseca di Nazareth, nella processione di candele, la sera, fino dinanzi alla roccia da cui sgorga un rigolo d'acqua, e nell'espressione di infiniti ritratti della Madonna, donati e portati da ogni angolo del mondo. E' una galleria così particolare, di colori e tradizioni, unite sotto un filone comune, una galleria che dalle pareti del cortile si avvita, varca il portone scolpito fino a scendere al livello più basso della basilica. Silenziose, come la processione che le osserva.

 

 

E' stato un viaggio molto lungo, anche nei colori e nelle linee del paesaggio che lentamente ha abbandonato il deserto arso e profondo per tramutarsi in colline verdeggianti e campi che si susseguono con regolarità. Eppure, il cartello indica nuovamente una valore sotto il livello del mare, centinaia di metri, per scendere verso Tiberiade e specchiarsi su acque che sembrano un poco più azzurre. Ho la stanchezza con me, nei giorni attraverso il deserto, nel caldo dell'aria e nelle salite che mi tolgono il fiato così facilmente. Respiro... l'aria calda ed umida del vapore, che mi inumidisce la fronte, riempie i polmoni, allenta la tensione della mente.
Risalgo. Su una roccia che pare quasi uno spuntone sospeso. Il lago che si intravede laggiù, dietro una forma aguzza ed il profilo di un albero solitario. Sembra un silenzio che sale dalle acque turchesi, come il vento che arriva, leggero. Un tremore dell'erba secca, un colpo d'ali di una farfalla colorata. Sospeso. Su un paesaggio che si apre nel vuoto.

 

 

Ecco dunque, che questi giorni scivolano su luoghi a volte un po' isolati ma colmi di significato. Anche una barca di pescatori, che oscilla in lontananza, assume un altro significato. E di suggestione. Perché questi sono i luoghi del Vangelo e, indipendentemente dalla fede, fanno parte della propria cultura. Il monte delle Beatitudini, il monte Tabor, quello della Trasfigurazione, la città di Cafarnao ed i luoghi in cui la tradizione vuole si siano compiuti dei miracoli, o dove semplici pescatori sono diventati pescatori di anime. Nel silenzio raccolto di questi luoghi, nelle comunità religiose che li gestiscono, si percepisce una pace ed un tranquillo distacco dall'esterno del mondo. Mondi a parte, appunto, le cui chiavi sono affidate a gruppi che vengono da lontano, sia nello spazio che nella storia. Ogni soglia varcata, ogni albero d'ulivo o ogni fiore scosso dal vento, ogni riflesso di un sole che volge al tramonto e colora le pietre squadrate, sembrano raccontare questa realtà, questo distacco emotivo e della mente.

 

 

 
 
 

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Post n°483 pubblicato il 16 Luglio 2014 da enodas

 

 

16 Luglio 2014

 

No, la data é giusta.
Cosi' si interrompe un racconto di viaggio, con un post che sono due righe e delle immagini, che pure riguardano la stessa terra, le stesse persone.
E che non vuole essere di nessun colore.
E' solo la follia della guerra, secondo l'ennesima declinazione.
Mentre un macabro contatore continua a girare senza speranza, senza logica e senza nessun senso.

 

[...]

 

“Ho una videocamera con me, ma ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman. Non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non ce la faccio. Non riesco perché piango anche io”.

(Vittorio Arrigoni)

 

 

"... Quando le immagini dei bambini innocenti dilaniati dalle “bombe intelligenti” pietosamente annunciate dall’Idf, delle donne anziane disperatamente in fuga dalle macerie delle loro case, dei cadaveri di giovani in jeans e pantofole che nulla hanno dei segni distintivi di un miliziano, diventeranno insopportabili per l’Occidente, allora ci si chiederà se, per quanto fondate possano essere le sue paure, così come i pretesti per colpire duramente un nemico irriducibile, Israele non stia semplicemente cedendo alla falsa quanto diffusa assunzione di poter risolver il conflitto che da 65 anni lo vede contrapporsi ai palestinesi, semplicemente usando la forza.
Quello che il giornalista Gideon Levy ha stigmatizzato come un pensiero ricorrente di una parte dell’estrema destra, purtroppo presente anche alla Knesset e alleata con Netanyahu, che si riassume nell’agghiacciante intenzione di annientare l’avversario (“to kill arabs”, scrive Levy) i suoi ascendenti e i suoi successori. Come ha suggerito, sulla sua farneticante pagina Fb la deputata del partito della Casa Ebraica, Ayelet Shaked: “Dietro ogni terrorista – ha scritto – vi sono decine di uomini e donne senza il cui aiuto non sarebbe potuto diventare un terrorista. Sono tutti nemici combattenti e il loro sangue dovrà ricadere sulle loro teste. Ora, questo riguarda anche le madri dei martiri che hanno mandato i loro figli all’Inferno. Anche loro dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero andare (sottinteso, all’inferno, n.d.r) e dovrebbero andare fisicamente, anche le case dove hanno allevato i loro serpenti…”
Anche nella guerra del 2008-2009 il premier israeliano pro-tempore, Ehud Olmert, ha ceduto all’argomento della forza. Hamas doveva essere cancellata dalla faccia della terra, i sui missili e razzi ridotti in polvere. Eppure, dopo tre settimane di bombardamenti in cui vennero usati anche ordigni al fosforo, dopo 1400 morti palestinesi, la gran parte civili, (13, fa cui 3 civili, le vittime israeliane ) migliaia di case distrutte, Hamas, certamente grazie ad importanti aiuti dall’esterno, forse dall’Iran, o dal Golfo, o dalla nebulosa del jihadismo globale, ha saputo ricostruire il proprio armamento. Non solo, dopo l’Operazione del 2008-2009, il trionfalismo militarista incarnato da Olmert, è stato duramente ridimensionato dal rapporto delle Nazioni Unite, affidato al magistrato sudafricano di origine ebraica, Richard Goldstone, in cui, pur non risparmiando Hamas, si accusa Tsahal di aver commesso crimini di guerra. Sul piano politico, il Movimento Islamico è riuscito a mimetizzare le perdite subite e a mantenere il controllo di Gaza.
L’esperienza del passato dovrebbe, dunque, spingere Israele e i suoi alleati occidentali a non sopravvalutare l’uso della forza contro i palestinesi di Gaza perché questo è un argomento che può ben ritorcersi contro lo Stato ebraico. Una guerra a Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, ma anche uno dei luoghi del pianeta con la più alta densità umana, implicherà sempre e comunque un intollerabile fardello di vittime civili. Ma su questo punto Israele e l’Occidente mostrano di avere la memoria corta."

(tratto da un articolo su Repubblica)

 

 
 
 

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Post n°482 pubblicato il 13 Luglio 2014 da enodas

 

4-6 Giugno

 

 

Direzione sud. Costeggiando il Mar Morto, lungo la strada più lunga del Paese, tra due punti che sono l'estremo di un paesaggio che sa cambiare radicalmente. E man mano il luogo diventa più selvaggio, la costa abbandonata alla bellezza della natura o circondata dagli impianti di estrazione di minerali, e la terra del deserto che dall'altro lato della strada fa da contraltare sempre più friabile e precaria nelle sue sculture di roccia quasi fatte di sale puro, che ovunque, in un posto diverso da questo sarebbero sciolte, letteralmente. Come affondano le scarpe, su una distesa di sale e di fango. Verso sud, agli angoli più remoti di Israele, al confine con la Giordania, dove gli ultimi avamposti sono paesi dietro una cancellata che si frappone sulla strada, una via di mezzo tra l'esperienza dei kibbutz ed i moshav, comunità di cooperative agricole. E' così, in un angolo remoto ed un terreno che sembra un'oasi di pace lontana da tutto, dalle lotte ma anche da una vita freneticamente senza pausa che la terra acquista quel valore così fondamentale di cultura, di lavoro, di fondamento della nazione stessa. Che questi insediamenti sono conquista di una terra impressa nella tradizione, promessa contenuta nelle pieghe della storia, sono conquista dei padri fondatori, pionieri su un suolo dove tornavano dopo generazioni, isolamento ed integrazione, a seconda delle filosofie portanti alla base della comunità e dei gruppi migranti che, dall'Europa e dal mondo, sono giunti sin qui. Variano leggermente secondo differenti sfumature le fondamenta politiche, la divisione dei terreni e dei beni, il concetto, recuperato, di proprietà privata e di entità familiare. Abbracciando una filosofia di lavorazione della terra che rimane ancorato alla genuinità dei suoi frutti, dalla scelta dei semi, quasi della vita stessa, ed al rispetto del suolo attraverso un lavoro duro e semplice. Tanto che il paradosso vuole che siano ormai volontari e stranieri, talvolta proprio arabi, talvolta dall'Asia più lontana e più povera, ormai, a sostentare con la propria forza l'esistenza di queste realtà.
Un esperimento, quello dei kibbutz e dei moshav, tanto legato ed intrecciato alla tradizione ebraica, come rappresentassero per certi aspetti lo sfondo stesso delle storie nelle Scritture, che ho sfiorato, anche solo fisicamente, in superficie. Attraversando luoghi come questo, che per me, in una notte tersa e calda, rimane deserto, una tazza di the caldo ed un fuoco poco lontano. Ma, soprattutto, il silenzio della notte che brilla soltanto di luci lontane, sopra di me.

 

 

Sempre più sud, mi inoltro nel Negev. Costeggiando crateri e formazioni rocciose dall'aspetto imponente e lungo strade ai cui margini si sfilano interminabili reti di protezione, avvisi a non fermarsi, non fotografare, alla presenza di zone di tiro. Nemmeno da immaginare cosa si nasconda, cosa sia tenuto, qui. Un deserto enorme che si spinge fino al Mar Rosso. Un deserto che é l'essenza stessa della tradizione ebraica. E' un'affermazione affascinante, riportata spesso, specie laddove il fondatore del moderno Israele é sepolto. Dinanzi un wadi che si apre spettacolare e curva, poi dietro le montagne. Un tratto di verde smeraldo su una tela arsa dal sole. Il vento sospira, da quassu, smuove la chioma giovane di un alberello ancorato sul ciglio, e le fronde di quelli che, alle mie spalle concedono uno spazio d'ombra. E come gli sprazzi di nuvole che scorrono veloci su un cielo limpido, scorrono gli istanti, la percezione del tempo per come lo conosciamo, per come noi, piccole entità, sappiamo concepirlo.

 

 

E come perso tra le pieghe del deserto, affondo nella storia. Prima di tutto, quando su questo suolo arrivavano le carovane d'oriente colme di spezie e di ricchezze. Un percorso avventuroso, quasi infinito, una sfida che partiva dall'India ed arrivava fino al porto di Gaza. Sulla strada carovaniera sorgevano allora ricche città che fungevano allo stesso tempo da avamposti e luoghi sicuri, sfarzo e ricchezza di un popolo quasi leggendario, quello dei Nabatei. Ecco varcare l'ossatura di un arco significa risalire indietro nella storia. Partendo da quella più recente, quando l'orologio si é fermato per l'ultima volta, ed i Bizantini erigevano chiese e rinnovavano la tradizione Romana, indietro ai Romani stessi che introducevano i loro usi, la cura maniacale del corpo, portata fin ai confini dell'impero, ben curandosi di lasciar prosperare la ricchezza dei commerci, fino alle mura più antiche, fortezze e cattedrali insieme nel deserto, letteralmente. Sulla cima di punti spettacolari e strategici o immerse nel cuore della terra, nella roccia per sfuggire al caldo più atroce, ciò che colpisce maggiormente é l'ingegno e la strenua forza dell'uomo nell'esplorare e nel sopravvivere.

 

 

Ed alla fine sono giunto. Quasi ai confini del mondo, laddove il paesaggio sembra una cartolina della luna. Lungo una propaggine della Rift Vallei si spalanca un cratere che lo sguardo non riesce ad abbracciare. Sull'orlo di un precipizio, su cui si affacciano occhi sognatori e lo sguardo fisso degli stambecchi. E quel senso di vertigine infinita che scaturisce da un dirupo sul quale rimani sospeso, ed allo stesso tempo da un senso di potenza e piccolezza supreme.
Nel centro del Negev, nel centro del cratere, scendo lungo una strada che é attraversamento di wadi, rocce astratte dal terreno e sterpaglie di arbusti. In una giornata in cui il vento alza una foschia diffusa che mi protegge in un certo senso da un sole crudele, ma al tempo stesso limita lo sguardo ed i colori. E' il mio punto di arrivo più estremo, in questo viaggio. Un po' come lungo quella via di ori e di spezie, che passava anche da qui, dove i resti di un avamposto simangono semisepolti dalla sabbia. Una sabbia colorata che si sparpagia a macchie, portate nello stesso punto da ogni angolo del Negev. Mentre poco lontano una distesa interminabile di rocce prismatiche ed annerite affiorano dal terreno in quello che viene soprannominato "il laboratorio del falegname".
Sul ciglio del cratere, ai bordi di Mitzpe Ramon, soge un albergo. Non uno qualsiasi. A fronte di uno spreco assurdo di un albergo superlusso con una piscina d'acqua per ogni appartamento privato, non posso che pensare ai Territori, ai serbatoi sui tetti ed all'acqua razionata.
Il mio ultimo avamposto é una tenda beduina piantata in mezzo al nulla, laddove nemmeno l'elettricità. Esposta al vento che sibila, la sera, ed infine porterà via quella cupola di foschia che avvolgeva il deserto. Quasi gelido. E, per l'ultima volta, ascolterò questo silenzio infinito che mi avvolge e mi sprofonda come l'abisso di un cielo limpido e brillante di stelle.

 

 

 
 
 

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Post n°481 pubblicato il 10 Luglio 2014 da enodas

 

 

1-3 Giugno

 

La strada si apre come una lama dentro il deserto. Tra ali di mura di protezione, scende nel deserto di Giuda, un agglomerato che sembra infinito di colline arse dal sole, drenate d'acqua e piatte sulla cima.  Scendo, come dentro un canyon, seguendo una linea di cemento tracciata in una tela dalle infinite tonalità di giallo, rosso ed arancione. Accecante, come il caldo che ti stringe attorno. Fino al mare, che mare in realtà non è. Forse sarà un miraggio, forse reale, sicuramente uno scherzo della natura, tanto che gli antichi lo avevano battezzato mare di Satana. Ecco, affacciato su questa acque di un blu che appare ancora più intenso, si aprono delle grotte. Un altro scherzo della natura, forse è così. Qualcosa che ha permesso di risalire all'alba dei tempi, della nostra storia e della nostra cultura, affidata a rotoli nascosti alla furia distruttrice dei Romani, a quella lenta ed inarrestabile dei secoli. Osservo i grani di sabia scivolare a pelo sul terreno, coprono un'orma che vi é appena passata. Sono a Qumran.

 

 

Meno quattrocentoventi. Metri. Scendo, anche gli ultimi gradini, fino alla riva. Nel cuor della terra. O almeno, fino al punto più basso del pianeta. Con le mani che affondano nel fango, caldo a contatto con la pelle, sotto il sole cocente. Ed una sensazione incredibile, che a raccontarla uno non ci crede comunque. Resto immerso, per così dire, in queste acque calde ed immobili, i miei movimenti che si fanno lenti, ogni impercettibile ferita esplode sulla pelle e quando stringo le mani ho come la sensazione di smuovere una sostanza oleosa tra i polpastrelli. E' forse questa sensazione, più di tutte, a farmi realizzare che non ci si vita, in queste acque, anche se sento il corpo rilassarsi, lasciar cadere la tensione. Quella dei muscoli e quella accumulata nell'animo, almeno un po'. Che dietro una strada controllata, dietro un kibbutz affacciato sul Mar Morto e dietro l'altopiano frammetato del deserto che si precipita sul Mare, questa terra é, paradossalmente, ancora Palestina.
Affondo la mano sul fondale, convinto di estrarre sabbia, col pugno richiuso, fuori dall'acqua. Rilasso le dita, e non trovo altro che sale.

 

 

Risalgo il wadi, sin dalla mattina. Su un terreno che sale e ridiscende, ogni tanto. Arriva il rumore dell'acqua che sgorga e precipita dalla roccia. L'acqua é vita, é il verde parsimonioso che la circonda, in un luogo che crederesti infernale. Ed invece, nascosta entro canyon che uniscono il deserto al Mar Morto, sgorga la linfa che la nutre. Quella stessa che attraversa le mani immerse nell'acqua fredda dei torrenti. Una sensazione ancora più strana, osservando quel Mare, là dietro, e pensando che qui si incontrano, quasi si scontrano, due elementi estremi. Fuoco. Sulla pietra nuda, e la sommità dell'altopiano che rimane là, sovrastante, dall'alto. E dall'alto io stesso, osservo, precipizi e costoni che spariscono dietro il ciglio friabile di massi e terra arsa. Vertigine. Su una vista che spazia a centottanta gradi, con le montagne della Giordania così vicine, ed una serie infinita di pendii ai miei lati. Aspetta un respiro di vento. Aspetta che una nuvola abbozzata nel cielo copra il sole che già sembra così alto, e si proietti sul terreno come su una tela sconfinata. Vertigine.
Non c'é una descrizione unica del deserto. Credo sia una parola che racchiuda non solo uno spazio immenso tanto da essere indefinito, ma infiniti spazi diversi. Ho camminato arrampicandomi tutta la giornata, rimanendo sul ciglio di qualcosa che non ho realmente visto, irraggiungibile fisicamente e razionalmente. Credo che la bellezza sia anche questo. Come il deserto può essere anche una spiaggia che in realtà é una stradina ripida e sterrata verso l'acqua satura di sali, tanto da vederne i cristalli agglomerati galleggiare in superficie. La spiaggia é un parco, sopra, alberi di palma che lentamente diventano ombre rischiarate dalla luce argentea di una falce di luna e da qualche fuoco acceso qua e là, mentre infine sale un alito di vento quasi a cercare di portare via la stanchezza sfiorando leggermente le immagini ed i pensieri accumulati in una giornata, come a cullarli.

 

 

Quattro e mezza, notte buia. Ed il silenzio che solo il deserto può dare. Placide acque, immobili, poche centinaia di metri in linea d'aria, di un mare che sembra non esistere, tanto è immobile, nella notte come di giorno. E' rossa, nella notte, la roccia. In questo silenzio che sa di viaggio nel passato, e nella morte. Trasuda sangue, questo sembra, illuminata così. Ed ogni passo sembra risuonare del clangore delle armi, delle pietre scaraventate dall'alto, delle urla durante la marcia. Che anch'io sono in marcia, sul sentiero del Serpente. Si avvolge sul costone che dà verso il Mar Morto. Il sentiero del Serpente, più di tutto, sarà il mio deserto. Io, come in una processione che mi toglie il fiato e spezza ogni resistenza. Salita, nella notte che lentamente inizia a scemare. Grondando sudore, dietro ogni gradino che sembra un po' più pesante, su quella roccia illuminata di un rosso vivo e sinistro. Che sinistra è l'eco che attraverso venti secoli giunge da Masada. L'ultima resistenza, l'ultimo orgoglio, l'ultimo gesto estremo. Quando il formidabile esercito romano riuscì infine ad espugnare Masada, non trovò altro che tozzi ardenti e cadaveri. Una storia tetra e commovente di eroismo estremo. Per quanto poco, sono stato in queste terre abbastanza per comprendere che "Masada non dovrà cadere mai più" va ben oltre un motto un po' holliwoodiano da stampare sulle magliette, ma rappresenta l'essenza stessa di questo stato, le uniformi che lo difendono ad ogni angolo, e la fede incrollabile nel ritorno alla Terra Promessa. Ed è un pensiero che fa rabbrividire, lungo questa salita che toglie il fiato pur essendo di prima mattina, agli occhi di questa pietra tinta di rosso.
Respiro, come fosse l'ultimo. Quello che esalavano le anime di coloro che si fecero trovare qui. Ora, invece, un giorno nuovo, e l'alba che appare lontano, ancora solo intravista, dietro le montagne della Giordania. Ecco, oggi, la bellezza del deserto, tutto intorno, come può essere all'alba, ogni giorno, ma per me oggi speciale perchè sono qui, salito fin quassù, e domani sarò già altrove, passato attraverso quella storia di cui questo luogo è intriso. Surreale e magico. Allora, attendo. Come una sentinella dal ciglio di un muro, osservando quel sentiero che ho appena lasciato dietro di me. Che i riflessi sul Mar morto diventino infuocati, e la luce accecante davanti una palla incandescente che inghiotte anche le montagne. Attendo che un alito di brezza salga, chissà da dove, come un sospiro esalato dgli uomini, portando lo stridio delle lame che impattano una contro l'altra. Anche gli uccelli atterrano dal loro volo, si fermano, immobili, sul ciglio delle mura. Come una sentinella.

 

 

[...]

 

 
 
 

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Post n°480 pubblicato il 05 Luglio 2014 da enodas

 

Difficile definire con che stato d'animo mi trovi su questo bus. Un po' per la città ed i giorni che mi lascio alle spalle, un po' perchè è come aprire una pagina bianca. Salito a Gerusalemme Est, direzione un confine che c'è e che non c'è. Tratteggiato sulla mappa, esiste come il muro che lo marca, non per gli occhi di chi questo muro lo controlla...


29-31 Maggio

 


Osservo Betlemme con gli occhi e le parole del mio ospite, un Palestinese cristiano maronita. Anche lui, come tutte le persone che ho conosciuto qui, è un resistente. Racconta, fin dalla sera, porgendomi le mele piccole e leggermente aspre del suo giardino, che mi ricordano quelle della casa a Sano Rocco del nonno, così come le foglie di menta ed i biscotti fatti in casa. Racconta, inseguito dalle mie domande, dai suoi discorsi e dalla storia della sua vita. Che, a mio parere, rappresenta bene ciò che questa terra è. Palestinese, senza passaporto, ed i figli divisi tra la propria terra e l'essere in cerca per il mondo, un'operazione avveniristica allo stomaco fatta nel più importante ospedale di Tel Aviv. La moglie è oroginaria di un luogo che dista meno di dieci chilometri in linea d'aria, un luogo chiamato Gerusalemme, eppure per la legge nessuno dei due potrebbe legalmente fermarsi a dormire nella casa dell'altro, così come non può guidare la macchina dell'altro. La resistenza di quest'uomo, e dell'intera famiglia, sono l'intaglio del legno d'olivo, profumato e nodoso, e soprattutto, a suo modo, la religione. Ancora una volta. Perchè questa è la versione cristiana, della storia. Quella della comunità che sta scomparendo, fuggita, che non si trova riconosciuta nè in una nè nell'altra parte. Che gli scontri ed i dispetti reciproci sono a trecentosessanta gradi, senza distinzione. Che non ci sia acqua, invece, lo sperimento di persona, quando una volta arrivato mi viene chiesto di farne un uso responsabile, che da una decina di giorni si sopravive solo con i serbatoi sui tetti delle case, che i rifornimenti sono chiusi. E' qualcosa che fa contrasto con le piscine nel deserto che intravedo, tra gli insediamenti e che vedrò soprattutto nei giorni a venire, nella torrida caldera del Negev.
Il mio ospite mi prende in simpatia, perchè discute molto, lo fa la sera così come tutto il tempo che si è offerto di portarmi nei dintorni di Betlemme. Dalla collina dell'Herodion, tra spettacolari vedute del Deserto di Giuda, mi indica le colline dalle cui pendici colano gli insediamenti. Non ci sono muri, là, come se potesse davvero esserci una convivenza pacifica. Perchè, esplode ad un certo punto, il muro lo divide da se stesso, il muro lo divide da ciò che ama. Mi domanda come sia possibile pensare che questo fazzoletto di terra, accerchiato da ogni sicurezza possibile, possa approvvigionarsi di armi, quando lui non può fare niente senza che qualcuno dall'altra parte lo venga a sapere. Credo sia un punto delicato, su cui si potrebbe discutere a lungo, anche se è un pensiero anche quello, che una guerra sia qualcosa che fa comodo a molti, ed il business della tensione sia qualcosa da alimentare costantemente. Mi viene in mente la guerra tra stati del romanzo di Orwell... Ed alla fine, insomma, non si capisce bene da che parte stia, in una situazione nella quale la comunità araba cristiana perde comunque, quale possa essere la sua soluzione. Che alla fine tutto ciò che vedo rimane così intrinsecamente allacciato, così complicato ed indivisibile che non ho una risposta, se non quella di un uomo anziano che, per le vie polverose di Jericho mi invita a sedermi e raffreddarmi all'ombra. Dai suoi occhi e dal suo sorriso colmi di vita e di saggezza, mi sussurra che non ha importanza come lo si chiami, noi esseri umani siamo creature di uno stesso Dio e che definirne un nome non serve per fare di un'uomo una buona persona, per determinarne l'amore per la terra o per la propria famiglia.

 

 

Ecco, da una collina fatta erigere e scavare da un re della Giudea, proprio quell'Erode, per la prima volta osservo il deserto. Aspro e montuoso, fatto di wadi scavati sui fianchi delle montagne drenate. Sono sempre profondamente scosso dalla bellezza silenziosa di questa manifestazione della natura. Ecco, la macchina attraversa una strada, supera un incrocio. E già non si capisce più niente di zona A, zona B e zona C, se non fosse per dei blocchi di cemento posti ai lati della strada come i ceppi dlle antiche vie romane, e per i cartelli che proibiscono l'accesso agli Israeliani, a rischio della loro incolumità. Mi ritrovo nel deserto, ad osservare dell'alto un monastero sospeso su un canyon, o sulla strada delle antiche piscine di Re Salomone. Eccomi, in macchina, superare una manifestazione di persone urlanti: perchè è venerdì, e gli uomini sono appena usciti dalla moschea in uno di quei villaggi che sono campi profughi. E nel cielo, tra slogan e proteste non sventolano solo bandiere della Palestina, ma anche quelle verdi di Hamas e quelle gialle di Hezbollah. La tensione è palpabile, come l'aria che respiro.
Ecco, infine, sono per le strade di Betlemme, mi inchino per oltrepassare la Porta dell'Umiltà e scendere infine nel cuore della Basilica della Natività, come un attimo di respiro concessomi oltre un turbinio di immagini e sensazioni. Nella piazza antistante la guida turistica dell'Occupazione mostra lo stesso luogo avvolto nel fumo durante un'azione militare israeliana: un'ombra dietro una cortina impenetrabile, che accompagna le didascalie. Anche se non riesco ancora una volta a tracciare linee così nette, come fanno delle ragazze, volontarie, qui. Me le presenta un omone simpatico che prepara "il thè più buono della Palestina" dentro il suo garage improvvisato a bar, mentre gioco a pallone con due bambini. Uno, tre, sei mesi, vivendo oltra il muro di sicurezza. Io racconto di Hebron, di Gerusalemme, del mio ospite. Una, poi, mi racconta l'esito di quella protesta, cui lei ha deciso di prendere parte. Provocazioni reciproche e fermi. Un po' spavalda, "oltre", in quello che dice, perchè il punto è, mi domando, se sappia sotto quali colori ha urlato la sua protesta portando i diritti umani nel cuore.

 


L'ospitalità di questa gente è incredibile. E si manifesta in cose incredibilmente piccole, una tazza di thè, un bicchiere dell'acqua, una sedia all'ombra. Lungo le strade polverose di Jericho, sembra di vedere la proiezione di uno stato Palestinese che sarà. Un po' lontana dai fuochi, dai muri, dai confini più assurdi, immersa in quella storia che affonda all'alba dei tempi e la renda la città più lungamente abitata senza interruzioni. Sembra incredibile trovare qui, sotto un albero centenario, un uomo che vende spremute d'arancia che torna nella sua terra dall'Olanda. Sì, prorpio pochi chilometri da me. E' un rifugiato palestinese, con passaporto da quasi vent'anni. Eppure le sue vacanze sono qui, tra la polvere a spingere il suo carrettino e parlare in accento brabante di integrazione, di sapore della terra e quello che porta negli occhi goni giorno con sè.
Ecco, sotto il sole cocente, in una città sonnacchiosa che è già deserto sale una strada verso un piccolo monastero incastonato sul fiancone del Monte delle Tentazioni. A me viene in mente un edificio simile, e ben più sospeso che ho visto dall'altra parte del mondo. Asciugo la fronte madida. E l'uomo a cui chiedo la strada insiste, insiste perchè accetti di svuotare la bottiglietta d'acqua che ho perchè l'ha sfiorata con le mani prima che andassi e vuole che prenda acqua fresca. E' un gesto che neel deserto vale un po' più di qualcosa.
E' così. Lungo la strada, dallo stretto balcone che dal monastero si sporge sulla roccia, su uno di quei taxi collettivi, o la sera all'angolo di una stradina di Betlemme. Un uomo si improvvisa un po' panettiere, un po' pizzaiolo, di quelle pizze arabe, focacciose e sovrastate di una salsa di olio d'oliva e sesamo. Con una bombola di gas ed un forno allestito dentro una fornace arrugginita. Un po' come l'altro mio amico qui, che mi invita a prendere il thè più buono dei Territori, buonissimo per davvero, preparato con una ricetta che è un'improvvisazione ed una gioia strenua per la vita.

 

 

Il taxi gira, svolta, si ferma. Quello che ho dinanzi si alza otto metri sopra di me, corre come un serpente e come un serpente si avvita in curvature estreme e si insinua lungo percorsi frastagliati. Quello che ho dinanzi è grigio ed allo stesso tempo una successione di colori ed una linea continua di poster sui quali si raccontano storie. Quello che ho dinanzi è un muro che sembra non finire mai, non tanto nei suoi percorsi in linea orizzontale, dove ad ogni angolo può inframmezzarsi in una torre di guardia, quanto verso il cielo. E' il muro. E' quello che divide Michael da se stesso. Lo stesso che dei quattro lati disponibili attorno una casa ne percorre tre. Quello che non mi fa vedere Gerusalemme, gli olivi e neppure le case nuove che dalla cima di una collina scendono giù come fossero slavina.
E magari si moltiplica in linee di ammortizzamento in alcune zone, tra un campo di cemento e cumuli di mattoni accatastati. Non si sa se siano muri di una casa distrutta, qualcosa di abbandonato o qualcosa da costruire. Magari qualche bambino vi si sta arrampicando, come una metafora ed uno di quei disegni posti là dietro, sul muro vero, quello alto e recintato. 1948-? Come l'indicazione stradale che trovi sulla strada quando entri in un paese. Questo, è un campo profughi.
Sento un senso di oppressione in tutto questo, nel senso di peso al cuore. Lo stesso peso con il quale sono uscito dallo Yed Vashem, a Gerusalemme. Io in questo non avverto distinzioni. E' con questo stato d'animo che torno indietro, risalgo fino alla basilica della Natività, nuovamente mi inchino per attraversare la porta dell'umiltà. E qui, nella sera, tra le impalcature e la nebbia dei fumi di guerra che si vedono nella foto lì fuori e che idealmente sovrappongo, si celebra un matrimonio. Che la vita non si lascia strappare via.

 

 

Il controllo del bus procede liscio come una routine quotidiana. Parcheggio a lato, tutte le persone che scendono e si mettono in fila, aprono una carta, la mostrano, ogni tanto si accenna una mezza discussione ma alla fine risalgono tutti. Subito dopo è la volta del vano bagagli. Io no, non devo scendere. Col mio passaporto in mano ho questo diritto di rimanere seduto sul sedile ed attendere guardando fuori dal finestrino. E' una mattina qualsiasi, di una giornata lavorativa, domenica, ed io mi sento quasi in vergogna. Mentre mi allontano e lascio dietro di me due ali di cemento armato a protezione della strada, guardo fuori, ancora una volta. Il sole che è già caldo, limpido, e non sono nemmeno le nove. Il muro illuminato, dietro, case quasi circondate, disegni spray e poster attaccati. Davanti, invece, si stendono gli olivi, sulla continuazione naturale del terreno. Allora, è vero... Ho letto da qualche parte che i Palestinesi sono tradizionalmente uniti ai loro ulivi da un rapporto simbiotico. E non c'è da dubitarne, considerando la "religiosa" osservanza che le olive rivestono nella cucina arabo-israeliana.
Nella mia mente porto con me una miriade di immagini ed un'infinità di domande senza risposta e senza comprensione. Ma sono molto contento di essere stato qua, di tutto quanto ho visto finora, non potevo richiedere più umana ricchezza da questo viaggio.
E mi viene in mente un foglietto che ho strappato da un libriccino, una specie di mensile sulla vita e gli eventi culturali in Palestina, che in un certo senso risponde a me stesso, a quel poco che ho visto, ed alle mie domande. Ho tenuto questo foglietto strappato pensando a questo post, perchè è una breve testimonianza che mi è piaciuta molto e che riassume alcuni dei miei pensieri. E' scritto da una ragazza americana, volontaria, che immagino simile alle ragazze che ho incontrato a Betlemme. Con tutti gli stessi ma e però.


[...] Much of my time in Palestine has been spent listening and observing. I am here to learn, to serve, and to build relationships with people. As a foreigner, I have a lot of questions. [...]
This is a beautiful land. I continue to marvel at the gnarled strength of the olive trees, as they stand strong and resilient on the terraces of the hillsids. I am intrigued by the multitude of new fruit trees that i have eaten from, and I am fashinated by all of the new insects and landscapes that I have witnessed. Admist the beauty though, I have seen devastating things too, such as the streams of untreated sewage running down from the settlements that are slowly digesting the Palestinian land. I've seen children tossing plastic wrappers out of the windows of the cars, smelled the toxic and unmistakable stench of burning trash, and I have learned to look past the piles of rubbish lining down the streets.
[...]
All that I have seen has inspired anew questions in me. My brain is filled with questions about human rights and the quest for justice, queries about how and when the Occupation will end, why the international community has not come to the aid of such beautiful people, and how we, as fellow human beings, can move forward for a sustainable future. Most of my questions go unanswered, but as I've looked  out at the beautiful wadis and mountains that make up this land, I still have hope.
[...]
I know that no matter how long I stay in palestine, I will always be from somewhere else, that my homeland of origin is an ocean away. Yet, my current home is here. I feel connection to this land, a deep respect for the culture, and a love for the people I have come to know during my time here. As a young woman, a recent graduate college, volunteer, and a foreigner in this country, I might not be able to do a lot in terms of solving some of the extensive and daunting crises facing this land. I cannot end the Occupation, bolster the economy, or restore the Jordan River to its pristine state. What I can do, however, is be conscious of how my behaviours and actions impact the people and the world around me.
Thought I cannot bring the Occupation to an end, I can tell the stories of the people I love here, speaking passionately and honestly about the hope and the faith of my host community, even admist the struggles and the injustices they face. When I return to my own country, I can and must be moved to action, urging the people in postiions of authority to pursue justice for the Palestinian people. I can influence and inform my friends and loved ones at home about the situation here and urge them to come and see for themselves. Environmentally, I can walk rather than take a taxi. I can carry a canvas bag rather than taking a half-dozen plastic bags when I visit my fruit stand. I can pick up the trash I see on the streets, rather than walk around it. None of these actions are going to change the situation overnight, but my behaviour and my actions will have an effect, no matter how small.
Throughout the world, human behaviour shapes the environment in which we live. Your behaviour and your actions tell the story of what you value. This land is filled with so much history, beauty, and culture. Each of us has a role to play in caring and respecting the earth, and I invite all of us to recognise the power that lies in such responsability. Small things make a difference.

(written by Laura Mills)

 


 
 
 
 
 

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