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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Messaggi di Giugno 2014

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Post n°479 pubblicato il 29 Giugno 2014 da enodas


30 Giugno

Non è semplice scrivere quanto avevo in mente oggi. Ho aperto il computer per cercare di scrivere questo post, con un giorno di ritardo. E, come spesso accade, visto che non so mai come iniziare, ho aperto il giornale, per vedere il risultato di Francia-Nigeria. Ancora 0-0. Come erano 0-0 Brasile e Croazia una sera di metà giugno, prima partita del mondiale. Quella sera io era ad Haifa, stralunato per la giornata ma soprattutto per la fatica che avevo appena speso nel trovare un albergo che sembrava inesistente ad un indirizzo inesistente. Boccheggiavo sul letto. Oggi inizia il Ramadam. Nessuna di queste credo sia una coincidenza. Nemmeno che aprendo il giornale la notizia in cima non riguardasse una partita in tempo reale dei mondiali brasiliani, quanto piuttosto il ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi israeliani rapiti nei pressi di Hebron meno di 20 giorni fa.
Mi sono chiesto cosa dovessi allora raccontare, in questo blog, in questo e nel prossimo post che ho in mente di scrivere. Io, ad Hebron ci sono stato, un mese fa. Ora, immagino, sarà inaccessibile, come gran parte della Cisgiordania. Io ci sono stato, e mi sento privilegiato, in un certo senso, per tanti motivi. Questa giornata è stata per me una delle più significative ed intense del mio viaggio in Israele. E' stato anche l'unico giorno in cui mi sono affidato ad un tour, che mi era stato consigliato da una ragazza italiana (Silvia, di Padova) che ho incontrato per caso a Gerusalemme. Promossa da organizzazioni che tramite il turismo cercano di costruire flebilissimi ponti, mi portava nella prima mezza giornata nella parte palestinese della città, per poi passare dalla parte israeliana con un ragazzo israeliano. Perchè Hebron è una città divisa, nel cuore stesso: al centro la Tomba dei Patriarchi, la tomba di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, in parte moschea dedicata al culto islamico, in parte sinagoga dedicata al culto ebraico. Le die parti son ermeticamente divise ed incomunicabili. Non parliamo nemmeno dei cristiani. E' un luogo di primaria importanza per tutte le tre grandi religioni, anche se per me assurge a monumento dell'assurdità umana. Hebron è una realtà particolare, perchè gli insediamenti si spingono nel cuore del centro città arabo e non si limitano a circondarlo nelle periferie.
"Per secoli Hebron ospitò una piccola comunità ebraica, ma nel 1929 un gruppo di nazionalisti arabi attaccò gli ebrei locali - tutti ultraortodossi non sionisti - uccidendo 67 persone e disperdendo il resto della comunità. Dopo il 1967, gli ebrei ortodossi fecero ritorno in città ed una delle caratteristiche che saltano più all'occhio nella Hebron odierna è la presenza di soldati israeliani a guardia di queste enclavi ebraiche - abitate da alcuni tra i coloni più intransigenti della Cisgiordania - in pieno centro. Nel 1994, durante il Ramadam, e nel giorno della festività ebraica di Purim, Buruch Goldstein, un medico nato a Brooklyn, aprì il fuoco sui palestinesi che pregavano nella Moschea di Ibrahim, uccidndo 29 persone e ferendone altre 200. I coloni più moderati, così come l'Israeliano medio, ritengono che Goldstein sia stato uno spietato assassino, mentr agli occhi dei coloni estremisti, che considerano i Palestinesi come intrusi stranieri in Terra d'Israele, è un eroe e la sua tomba continua ad essere meta di pellegrinaggio". (dalle note della guida Lonely Planet)
Nel giro di poche ore ho sentito due storie, in realtà più di due, completamente opposte riguardo Hebron ed i Territori in generale. Ho visto ed ascoltato, sapendo che non tutto quello che mi arrivava era vero. Ho fatto domande, a cui, per quanto chiare, non sono riuscito ad ottenere risposta.
Per questo, questa storia voglio raccontarla, per come ho ripetuto questo racconto nella mia mente, in questi giorni. Raccontando quello che ho visto. Nella tragedia di oggi. Domandandomi cosa ci sia, a pochi giorni di distanza, ancora, di tutto ciò. Dove siano i due ragazzi che ci hanno accompagnato, i negozianti, i bambini. Dove siano i soldati, intravisti dietro i posti di blocco e le basi avanzate, così come le donne che ci hanno ospitato per il pranzo o gli uomini che mi hanno offerto il the su una terrazza polverosa o quelli che lavorano il vetro secondo l'antica tecnica fenicia che li rende famosi in tutto il Medio Oriente, dove siano le donne della cooperativa che tengono aperto un negozio di tessuti nel suq semideserto.

 


28 Maggio

 

E' un viaggio lungo, in bus, malgrado la distanza. L'autobus è rimasto imbottigliato entro una marea di bambini che sfilavano con la bandiera biancoazzurra della stella di David lungo le strade cantando e giocando. E' un giorno particolare oggi, anche se non ne conosco il motivo. Come dubito lo conoscano i bambini grembiulino e zainetto per le strade. Eppure sono in Cisgiordania. Ma l'autobus, partenza dalla stazione centrale di Gerusalemme è un autobus israeliano, che collega la città con gli insediamenti. Ho perso l'orientamento, quasi subito, ovviamente, ma è evidente che mi muovo di insediamento in insediamento, lungo la strada per Hebron.
E così, siamo arrivati. Al vento sventolano fili di bandierine biancoazzurre ed un palco è in allestimento, perchè, a quanto pare, questa sera qui si terrà la cerimonia di consegna da un reparto all'altro dell'esercito israeliano per il controllo della città.

 

 

Poco lontano, infine, due ragazzotti palestinesi ci attendono in una zona ibrida, in cui non è chiaro quali permessi servano loro per poter stare, all'ombra di un chiosco di cartoline, sotto lo sguardo di un paio di militari annoiati. Mentre si avvicina un bambino in sella ad un asino, facciamo pochi passi e siamo di fronte ad un bivio. Un bivio su tre lati, con cancelli e posti di blocco: una strada in salita, chiusa e guardata a vista, l'accesso alla Mosche di Ibrahim e l'entrata lla città vecchia attraverso quello che era fino a qualche anno fa il suq. Oltrepassare questi cancelli è come oltrepassare la porta di una prigione: i tornelli cigolano, il metallo verniciato di bianco mostra i primi segni di ruggine, in teoria potremmo essere perquisiti e si deve esibire un documento di riconoscimento. Prima di noi passano tre bambine ed una pezza di bambola in mano. Il tornello scricchiola ancora. Ed io sono entrato in un mondo. Ora sono in Palestina, non più solo fisicamente, qualunque cosa possa significare. Questo una volta era un suq colmo di vita e di caos, secondo la declinazione classica araba. Oggi invece passa qualcuno, ma i negozi semiaperti e deserti lungo la strada sembrano testimoniare esattamente ciò che non c'è più. Qui sembra si combatta per non soccombere all'oblio, l'oblio di una situazione politica che nell'oblio diventerebbe uno status quo. Qui sorseggiare una spremuta d'arancia mi sembra un gesto che trascende il sapore intenso dei futti del sole, un bambino si muove con il vassoio del thè e delle donne gestiscono una cooperativa che vende tessuti lavorati sul luogo. Qui sembrano essere rimasti soltanto gli anziani, i cui occhi sembrano accompagnare nel tempo le storie che hanno da raccontare e che sembrano testimoniare una rassegnazione mista a saggezza, quella saggezza tipica di chi ha lasciato alle spalle una porzione sufficiente della propria vita per poter raccontare. Ma anche loro, pur nella loro saggezza, si oppongono all'oblio del mondo. E lo fanno mostrando una mappa dei Territori, di quello che dovrebbero essere secondo una linea tratteggiata e di quello che sono, secondo zone di colori diversi che indicano controlli giuridici differenti. Lo fanno puntando il dito verso il cielo, guidando il nostro sguardo: sopra di noi si alternano strati di lamiera e linee di filo spinato. Ed infine, case nuove, squadrate e di pietra bianca di Gerusalemme, alle cui finestre sventolano le bandiere con la stella di David. Da qui, dicono, vengono lanciate immondizie e rifiuti. Per questo motivo le lamiere e le reti. Il dito si sposta e sfiora delle sciarpe pashmine, imbrattate di uova: quest'uomo le tiene esposte perchè lui non lascerà questo posto.

 

 

Questo, dunque, è il cielo di Hebron. A me l'immagine del filo spinato su sfondo azzurro evoca altre silenziose immagini passate davanti ai miei occhi.
Queste sono le case: in continua costruzione. Dicono. Un piano in aggiunta ad un altro, a poco a poco e silenziosamente. Come silenziosamente, immagino, scendano lungo le colline circostanti, le case che compaiono poco a poco, dei nuovi coloni israeliani. Il ritiro degli insediamenti non esiste, anzi. Questo me lo aveva raccontato quella ragazza italiana incontrata a Gerusalemme: agevolazioni ed incentivi, secondo lei. Ed un'industria edile che non si ferma, non si potrebbe nemmeno fermare perchè interromperebbe un flusso circolare di denaro.
Come un labirinto, è impossibile sapere cosa sia in funzione, cosa abbandonato, cosa distrutto, una scuola sequestrata e dismessa, un centro per l'infanzia chiuso. A volte credi ti stiano conducendo in un vicolo colmo di macerie, e spuntano delle scale, saliamo fino ad una terrazza, e pochi metri più in là è un altro stato, un'altra vita. Poi giro lo sguardo nell'altra direzione e sopra di me trovo una torretta di guardia. Ruoto ancora la testa e vedo filo spinato, macerie e, più in là una bandiera di Israele. Non basta lo zucchero a rendere meno amaro questo the alla menta, caldo tra le mani. Che le storie che mi raccontano sono conosciute: le ispezioni senza preavviso, l'ordine di non avere una seratura alla porta perchè altrimenti sarà distrutta. Sono storie di soldi offerti - a cifre poco credibili, in realtà - per la terra e la casa, del rifiuto ad abbandonare la propria terra, e di ciò che è successo in seguito: irruzioni, arresti, ambulanze ferme al posto di blocco e bambini morti nel ventre materno. Sono storie di bambini perquisiti, acqua che manca e fori di proiettili lasciati nel ventre dei silos d'acqua sul tetto, oggetti lanciati, serpenti fatti entrare dalla finestra dove gioca un bambino.

 

 

Dal suq vecchio si sbuca in una piazza affollatissima, ricca di vita, viavai di animali, merci per terra, ai lati, sui carretti. E' un caos organizzato. E' la strada che prosegue verso un portone d'acciaio che sbarra la strada. Sembra di accedere ad un oracolo, lasciando ai lati dei propri passi i blocchi di cemento armato, le pietre sul terreno, mozziconi di oggetti bruciati. Controllo passaporti, delle sbarre che cigolano. Resta il sole, ma piombo nel silenzio. Pochi metri che sembrano terra di nessuno, ed io ch vedo quelle stessa case, da un altro lato. Nel silenzio, leggendo ai muri una storia che segue le stesse date ma racconta qualcosa di diverso, l'attacco che diventa difesa, invasione che diventa resistenza e risorgimento, e viceversa.
Credo che la storia personale del ragazzo che ci ha preso in consegna sia molto esemplificativa: americano, educazione laica da una famiglia ebrea, questo ragazzo ha deciso di visitare Israele alla ricerca delle proprie origini, ha iniziato a studiare la Torah ed ha trovato se stesso e la propria casa. Qui ad Hebron. Si è arruolato, ha preso cittadinanza israeliana (per diritto immediato, in quanto ebreo), e come israeliano ha servito per tre lunghi anni. Barba lunga, ed accento americano. No sa immaginarsi altrove che qui, in un posto sacro che è la Terra dei Padri e la Terra Promessa. Perchè è proprio questo il punto. La gente che vive qui lo fa seguendo una missione alla ricerca delle proprie origini. In questo, non ci sono barriere, da una parte e dall'altra: il significato della terra e l'identificazione con essa sono fortissimi. Ed attorno ad essa ruotano gli scontri più assurdi, come quello di non poter scavare, nella terra e nel passato, alla ricerca dei Padri, perchè questo, in ottica palestinese, sarebbe un permettere agli ebrei di dimostrare la propria presenza nella notte dei tempi. Questo ragazzo non è così semplice da definire. Certo, l'emozione provata nel luogo da dove siamo arrivati non aiuta. Parla dell'orgoglio di aver riportato i Rotoli nella Tomba dei Patriarchi, narra pen nome, per data, per luogo, ogni uomo israeliano caduto. Dietro ognuno di essi c'è il rispetto di un caduto per la patria e per la patria, ed il ricordo della persona. Ma ci sono nomi oscuri, da una parte e dall'altra: quando glielo facciamo notare, lui risponde che una differenza c'è, che se da una parte questi vengono condannati e si esalti sempre la vita, dall'altra per contro questi nomi sono venerati e si esalti pubblicamente la morte, fin ad inneggiarvi. Le sue dita indicano mura con colpi di mortaio e fori di pallottole, le sue mani puntano ad un parco giochi per bambini, recintato di reti e tettoie perchè qui, proprio per la presenza di bambini, piovono le pietre con maggiore frequenza. La nostra guida dice una cosa che ha senso: che la ricostruzione deve avvenire tra persona e persona, da uomo a uomo, seduti ad un tavolo la sera a sorseggiare the, fumare il narghilè e parlare di affari. Solo così si stabilirà la pace. Ma questo ragazzo si chiede, e ci chiede, come possano delle case di famiglie ebree ad Hebron rappresentare un ostacolo alla pace. Questo ragazzo ha eletto l'esercito, le cui basi si sistemano a ridosso dei giardini delle villette, la propria famiglia in cui rifugiarsi il giorno dello Shabbat. I suoi compagni sono ragazzi che vengono da altre parti del Paese, hanno vent'anni e magari oggi, mentre stazionano sotto il sole cocente ed allungano parte della propria razione ad un bambino palestinese, compioni gli anni. Ancora una volta la realtà è indistinguibile, quasi si dissolve e sembra non esistere. Come l'acqua, fornita continuativamente e senza restrizioni, come la comprvendita di terreni e case, che rimane un tema incomprensibile e senza risposta, come la città di Hebron, che ora appare enorme in confronto all'enclave israeliana situata al centro e come le scuole che ora non sono chiuse ma protette.

 

 

Questo è il mio racconto, queste le domande senza risposta. Posso solo raccontare quello che ho visto: il cielo oscurato dalle reti spinate, le porte senza serrature, le pietre sulla strada, i fori nei muri ed i parco giochi recintati. Posso raccontare di quello che non ho visto ma sentito: una tensione palpabile, pronta ad esplodere, covata dietro ingiustizie, lutti e risentimenti a catena. Questo non avrà mai fine. Non lo dicono apertamente, ma si odiano, nel profondo. E tutto ciò che ognuno vede dell'altro sono soltanto un cancello che cigola, soldati armati fino ai denti e pietre che piovono dal cielo. Nessuno conosce l'altro, nessuno comunica, persona a persona. E noi, siamo spettri, a cui magari cercare di acquisire un po' di consenso, che ci spostiamo da una parte all'altra. E nel momento in cui un uomo dice Shalom e porge la mano, l'altro non la accetta, e tace, quando anche il suo saluto sarebbe lo stesso augurio di pace, quasi la stessa parola, Salam. Eppure, ancora una volta, non c'è comunicazione.
Sono tornato a Gerusalemme, la sera. Una sera di festa, perchè oggi si celebra la celebrazione della città. Questo spiega tutte quelle bandiere sventolate al vento, sin dalla mattina. Qui, per la città vecchia, i piu' giovani soprattuto cantano e danzano, si ammantano della bandiera di Israele e cantano salmi. In un certo senso, mi ricorda la festa della Regina, in Olanda, solo coi colori bianco azzurri al posto dell'arancione ed una danza gioiosa al posto della birra. Scendo fino al Muro del Pianto e, forse ancora più che il venerdì prima dllo Shabbat mi trovo di fronte, e dentro, uno spettacolo di grandissima intensità. E' un sentimento che narra la volontà estrema di Israele di esistere, di fronte alla Storia e nel futuro, il sapore della Terra. Eppure, io mi domando se e quanto ognuna di queste persone si chieda quanto costi questo momento di festa: i cecchini appostati tutt'intorno, i posti di blocco, sulla strada, i bambini che giocano col rumore dei tornelli, gli sguardi che non vedranno mai perchè nemmeno possono entrare, gli Israeliani, nei territori di giurisdizione palestinese, le case senza uscio ed il senso di quelle pietre abbandonate per terra. E forse, la risposta mi arriva quasi per caso, da una coppia giovane, giunta da Tel Aviv che mi chiede di scattare delle foto. Lui dice che gli israeliani vogliono la pace, che l'hanno offerta finanche con tutti i territori, ma niente. Dice che sull'Europa soffiano venti antisemiti, che le politiche del mondo occidentale, America ed Europa sono contro Israele. Io credo ci sia una differenza tra antisemitismo e critica politica. Credo che la situazione sia incredibilmente complicata, solo questo posso dire, come complicata ed inestricabile l'ho veduta e vissuta in questa giornata incredibile. Sono giovani, vestono all'occidentale, ma quando porgo la mano alla donna, per salutarla, lei rifiuta il gesto, perchè per una donna non è conveniente stringere la mano ad un uomo sconosciuto.

 

  

 

 
 
 

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Post n°478 pubblicato il 25 Giugno 2014 da enodas

 

23-26, 29 Maggio


Venerdì. Sono appena arrivato, investito di colori e sapori che sprigionano dal mercato. Avvolto dall'aria calda e quell'atmosfera caotica e rumorosa di una città araba. Eppure le persone che animano le strade non sono arabe. Quasi nessuna. Piuttosto, figure vestite di nero, abito lungo ed ampio cappello, una barba lunga e delle trecce ai lati. Improvvisamente, questa immagine che conosco pur senza averla mai veduta in realtà è tutto attorno a me. Mi sento incredibilmente lontano, estraneo. Mancano poche ore, e sui banconi si contrattano gli ultimi shekel. Poi, al tramonto, sarà Shabbat, tutto di colpo si fermerà, calerà il silenzio. Tutto freme, ora, in attesa di quel momento. In attesa di scendere, lungo le vie della città vacchia, una volta superata la porta di Giaffa, attraversare la strade strette traboccanti di oggetti in vendita, infilarsi tra le vie del suq, che sembrano quasi cunicoli. Cristiani, arabi cristiani, arabi musulmani, gente che esce ora dal Monte del Tempio. Venerdì è giorno sacro per l'Islam. Mentre due strade più su sale la Via Dolorosa, le stazioni della Passione a volte scompaiono dentro un caravanserraglio, ed infine terminano nel chiostro in decadimento del monastero copto. Un uomo vestito di nero, la faccia scura, si confonde nella penombra di una finestrella dietro una grata. Il Sacro Sepolcro è poco oltre, passando un cunicolo che conduce alla piazza. Pellegrini ripercorrono su questi passi la Passione di Cristo.
Io, io mi sono già perso. Travolto dai richiami dei minareti, la folla che sale trascinando una croce, e le sagome dei chassidim che si preparano alla preghiera. Penso che questo da solo dovrebbe essere un inno alla pace, invece di essere l'intonazione di un canto di guerra. Stavo scendendo, certo, lungo la città vecchia e mi trovo a risalire, lungo il percorso del Calvario, e camminare nel luogo sacro che vi si erge sopra. Nel silenzio che ispirano i volti contratti, la fiamma ondeggiante delle candele di cera di miele appoggiate contro una parete, nell'oscurita delle arcate di pietra, urtato dal viavai di cerimonie che si alternano quasi salmodiando e quasi sgomitando l'una con l'altra. E qualcosa che aggiunge ed al tempo stesso toglie sacralità al luogo dove mi trovo.
Torno indietro, torno lungo quella strada in discesa. Mentre pervadono l'aria gli ultimi raggi di sole. Seguendo a debita distanza quelle figure nere che a volte nelle strade anguste ed ombrate mi turbano come se fossero spettri. Difficile distinguere, capire, ora che sono appena arrivato. Arrivato, infine, sì, di fronte ad un Muro, alla base del Monte. Il luogo più sacro nel momento piuù sacro della settimana ebraica. E quello che mi colpisce è l'incredibile varietà che confluisce in un unico denominatore: la gioia della festa, forse davvero come dicono loro la celebrazione della vita, attraverso i canti, abbracciati in cerchio, come facevano i pastori del deserto. Altri invece oscillano, poggiando sui talloni, avanti ed indietro, appoggiando una mano sulle pietre enormi del Muro Occidentale, chi anche il capo, chi ergendosi fisso in posizione eratta. Tutto quello che colgo, in un calderone di persone che affollano questo spiazzo, osservando la sera che scende e le innumerevoli immagini di fronte a me, è una sensazione di felicità mista ad un profondo sentire.

 

 

Rieccomi lungo la stessa strada. La mattina è già calda e silenziosa. Come la luce che filtra dalla cupola della Basilica del Santo Sepolcro, sovrapponendosi ai riflessi dei mosaici ed andandosi a posare sulle arcate di pietra. Pietra, appunto. Quella bianca degli edifici della città vecchia, estratti dalle cave mitiche di re Salomone. E quella che scende, nel cuor della terra, trasudando gocce d'acqua e storia. Perchè questa è una delle sensazioni che mi colpisce più intensamente. Imboccare una porta, scendere dei gradini e penetrare nel corso della storia. La storia di Gerusalemme, innanzitutto, della vecchia città di Re David, posta altrove, in realtà, rispetto al Tempio ed alla città vecchia. Tutto ruotava attorno all'acqua, il bene assoluto. Allora una strada scendeva alle piscine di Siloe, e doveva essere magnifica e colma di vita; ora non è altro che un tunnel, lunghissimo che dalle piscine riporta al tempio, e corre parallelo ad un altro tunnel, straordinario ed ingegnoso, che assicurava l'approvvigionamento d'acqua alla città da una sorgente segreta.
La storia del Vangelo, con i luoghi della Passione e del culto. Ancora, si scende, nell'oscurità, per toccare con mano le pareti della prigione, e quelle della sofferenza. Ogni luogo ha un'ubicazione precisa, a volte anche più di una, tra tradizione e testimonianze tramandate che fondono storia e credo. Tutto quello che ci viene tramandato, che fa parte della nostra cultura, lo abbiamo scelto o no, trova riscontro e rappresentazione qui, a Gerusalemme. Non è necessario essere ferventi religiosi per rimanere colpiti da tutto questo, dalla forza di camminare su queste stesse pietre di cui narrano libri sacri, di cui parlano i Vangeli, di cui siamo stati cresciuti.
Toccare con mano la pietra di migliaia di anni, quella che ha visto le distruzioni del Tempio, le rivolte soffocate nel sangue ed il Sangue del Dio fatto uomo, il sangue di coloro che hanno combattuto, distrutto, ucciso e ricostruito nel nome di una o un'altra religione. E' come se tutte queste pagine di storia rieccheggiassero, una sopra l'altra, rumori infiniti che rimbombano, come una goccia d'acqua che dal soffitto di una parete grezza scavata a colpi di piccone cade nell'immensità di una di quelle cisterne sotterranee scavate nel cuore della terra. Perchè gli antichi lo sapevano e lo temevano, non c'è vita senza acqua.

 

 

Sotto un sole cocente sale la strada lungo il Monte degli Ulivi. Attraversando un'immensa distesa di lapidi bianche e piccoli sassi depositati sopra. Uno dei cimiteri più antichi ed utilizzati ininterrottamente al mondo. Perchè qui, per gli Ebrei, avverrà il Giorno del Giudizio. Di fronte, dirimpettaie, le lapidi di un cimitero musulmano. E nel mezzo, appunto, gli ulivi. Quelli del Getsemani, innanzitutto, alcuni di essi hanno davvero vita millenaria. Ulivi, come vita, come profumo. Quello del paesaggio Mediterraneo. Questa parte della città si estende in realtà nella zona araba e, con la valle del Cedron, in direzione dei Territori. Gli ulivi sono storia, ma sono anche vita contesa. Io, invece, risalgo lentamente, lungo questa strada colma di testimonianze e di luoghi ricchi di significato. A volte, calandomi nuovamente entro anfratti e rocce scavate, a volte respirando un alito di vento che sale con me. Gerusalemme appare splendente e pacifica, da quassu, con la cupola della roccia che risplende, sempre più dorata man mano che il sole inizia a scendere, con le sagome degli edifici che ho lasciato alle spalle, in una giornata intera, che si distinuono in ogni direzione. E da questa prospettiva, di attesa, di silenzio e di tranqullità, così differente dal brulicare infinito di cui facevo parte anche io la città appare ancora più bella, più scintillante, più eterna. Perchè eterna l'hanno resa i popoli, i personaggi che l'hanno attraversata, fermandosi o soltanto per sostare, eterna la rendono le persone che la popolano ancora oggi, così come quegli arabi che la osservano con me, con qualche altro turista e qualche altro viso occidentale, da questo punto sacro ai piedi del quale ondeggiano fronde di ulivi antichi migliaia di anni, una sera qualsiasi.

 

 

Sembra incredibile. Eppure è così. Nelle prime ore della mattina sono salito al Monte del Tempio, ho osservato da vicino la Cupola della Roccia e camminato attraverso la Spianata delle Moschee. COme altri luoghi di culto, anche questo enorme spiazzo è in realtà un'oasi di pace e silenzio raccolto entro le sconfinate vie di Gerusalemme. Ho osservato le donne condividere il pane, i bambini correre di qua e là, magari con qualche arma giocattolo in mano, e sbirciato gli uomini che si purificavano prima di entrare scalzi nelle moschee.
E' così. Sono sceso, lungo un'uscita secondaria e dopo pochi minuti le mie mani poggiavano su una di quelle pietre enormi che costituiscono il Muro del Pianto. Con la kippa sul capo che rischiava di essere trascinata via dal vento. Ho chiuso gli occhi e, accompagnato dalle parole incomprensibili di un salmo, ho lasciato in un anfratto del muro la mia preghiera e quella della mia famiglia. Accanto a me un uomo piangeva, letteralmente, addossato al muto, mentre un altro, rosso in volto, sfiorava anch'egli la pietra già calda del sole. Più indietro, un ragazzo leggeva la Torah, per la prima volta, attorniato dalla propria comunità ed abbracciato infine dal rabbino che celebrava la Bar Mitvah.
Tra immensi cordoni di sicurezza, per la visita del Papa, ho girovagato per le strade bianche ed ordinate del Quartiere Ebraico e sono arrivato nella zona più a nord, denominata Quartiere Armeno. Qui, in Armeno, una decina di officianti, seguiti da 50/60 ragazzi, ognuno vestito secondo il proprio ruolo, celebravano la messa completamente in lingua cantata, secondo il rito ortodosso. Avvolto dalla penombra, dall'incenso e dai riflessi che a tratti apparivano e scomparivano, dentro questa chiesa ricchissima, dove tutto in realtà si scorgeva come un contrasto di ombre e rara luce abbagliante che penetrava attraverso il portone. Non ho saputo muovermi di lì per tutta la celebrazione.
Tutto questo in poche ore, senza nemmeno uscire dalla cinta di mura medievali. Come quei canti che si erano mescolati il venerdì, appena arrivato. Questo rende Gerusalemme indivisibile, troppo intricati i percorsi della storia che si sono intrecciati ed hanno piantato radici, troppo intense le emozioni ed il sentire. Questa è l'eternità di una città che raccoglie anche le mie radici, come cultura, come insegnamenti, come uomo. Questo, a mio parere, dovrebbe renderla città libera, inno di pace e luogo da visitare, almeno una volta, nella vita. Questo, non è.

 

 

Da visitare, anche se appesantisce il cuore. Verso la periferia della città, su una collina non strappata alla foresta, sorge il memoriale della Shoah. Attraverso edifici, parti museali e luoghi commemorativi. Attraverso fiamme che non si spengono, nomi di bambini ripetuti senza soluzione di continuità ed altri nomi, terribili, scolpiti su lastroni di pietra. Altrove, un vagone di legno è fermo sulla prima campata di un ponte interrotto sospeso nel vuoto. Perchè sia necessario arrivare sin qui, non è sono per rendere omaggio ad una tragedia immane, ma anche per comprendere un popolo ed una nazione. Quella di Israele, appunto, fondata sul principio che ci sia un luogo dove ogni Ebreo possa trovare rifugio, ma anche la volontà di preservare la vita e la propria identità. Un senso fortissimo di identità, che è missione proteggere e tramandare. Inno alla vita, mi ripetono in molti, durante il mio viaggio, come lo ripetono nelle parole dei salmi stessi. A volte mi riesce difficile combinare questo con l'immagine degli Ebrei ultraortodossi, gli haredim, quelli che ho visto per le strade di alcuni quartieri, abbandonati dal tempo ad un secolo fa, figure a volte inquietanti, avvolte di nero, inavvicinabili per me. Come le donne, col capo coperto, forse rasato, ed i vestiti umili che coprono ogni parte del corpo. Spesso giovani, giovanissime, in compagnia di uomini decisamente più anziani, circondate da uno stuolo di bambini e col pancione in attesa. Sono immagini che si sono impresse subito nella mia mente, così come quelle dei soldati, praticamente ovunque, colti in ogni momento con il kalashnikov in spalla, compagno costante di un servizio che esige due o tre anni, a seconda che sia donna o uomo. Ragazzi armati, in giro per strada, in divisa, e magari con la borsetta o la mano nella mano di un fidanzato o una fidanzata. Anche questo, in quelche modo, ha una chiave di lettura qui, in un senso di accerchiamento, sia reale e fisico, ma anche psicologico, che porta ad una visione della situazione politica secondo una direzione ben precisa, ad un relazionarsi con lo stesso occidente in modo particolare, secondo una sindrome da accerchiamento ed un perenne stato di guerra (come di fatto è in realtà il Paese) che interpretano come antisemitismo in maniera ben diversa, e non sempre condivisibile, gli avvenimenti nel mondo. Quel mondo, diviso, di cui Gerusalemme rimane l'emblema.

 

 

 
 
 

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Post n°477 pubblicato il 23 Giugno 2014 da enodas

 

 

 

Ecco che alla fine sono tornato. Già da qualche giorno, in realtà, che ormai scopro sia passata una settimana. Sembra incredibile la rapidità con cui ci distacchiamo dai nostri ricordi. Sono tornato ed ho guardato velocemente le foto che mano a mano copiavo sul computer. E rivedevo immagini e coloriche ogni tanto già iniziavano a sparire. Come se questo tempo fosse necessario per assimilare e cercare di comprendere tutta la ricchezza del viaggio che ho compiuto e del Paese che ho visitato. E non saprei nemmeno come chiamarlo, veramente, secondo un nome ufficiale che recita "Israele & Territori Palestinesi", come se esistessero da qualche parte, almeno su una carta, due Paesi differenti. Quello che ho trovato, e l'impressione che porto con me è quella di una terra complicata, una situazione complicata, talmente intrecciata lungo i fili della storia, anche e soprattutto quella recente, da non essere più districabile. Questo è il mio parere, per quanto non si debba giudicare, anche se probabilmente credo sia giusto e doveroso avere un'idea. La soluzione dei due Paesi indipendenti è ben lontana dall'essere realizzata. Nella terra, innanzitutto, nelle divisioni laceranti che si perpetuano, ancora ed ancora, ognuna chiamandone un'altra. Nelle menti e nelle anime, tante, infinite voci, che si levano ognuna secondo una propra accordatura, una propria scrittura, una propria prospettiva, tanto che le storie, le versioni e le interpretazioni della stessa storia, rimangono differenti. E ben più di due. Ecco, nel mio piccolo ho cercato di ascoltarne qualcuna, qua e là, ed altre di scriverle da me, attraverso i miei occhi, quello che vedevo, sentivo, ed in un certo senso sperimentavo su me stesso. Pensando e ripetendo tra me e me che ognuno ha una propria storia, interessante, da raccontare. Anche secondo le dclinazioni e le coincidenze più improbabili.
Coincidenze, certo. Come quelle che mi fanno pensare ora che tutto è andato bene, e che sia riuscito ad andare ovunque volessi. Non una cosa tanto scontata, a quanto pare, leggendo i casi che stanno montando, proprio a partire dagli ultimi giorni che io stesso mi trovavo in Israele. Ed io invece, sono passato, giusto in tempo, mi viene quasi da pensare, con la fortuna di poter considerare, per quanto possibile, il mio viaggio completo, e non solo a metà, menomato di territori che testimoniano una cultura ed al tempo stesso un'altra storia, ancora incompiuta.

 

 

E' così che i primi dieci giorni sono stati di un'intensità come poche. Tra Gerusalemme ed i Territori Palesinesi raggruppati come West Bank. Nel sentire dentro e fuori di me, nei miei tentativi di capire e discernere la realtà, ricostruirla ed analizzarla. Negli incontri, in un senso molto ampio del termine, che portano a contatto con culture e tradizioni talmente diverse da far vorticare un mondo davanti agli occhi. Gli stessi di una persona che in un modo o nell'altro, fa parte ella stessa di quella base culturale e spirituale, per quanto molto lontana nel percorso e nel sentire. Che tutto parlava di qualcosa che so, che mi è stato tramandato, che ho sentito ed assimilato. E questo aggiungeva ulteriore intensità al mio sentire, il percorrere questa strada scendendo i gradini della Storia, immergendomi nel profondo dell'animo umano, non solo per quanto riguarda me in particolare, ma per tutto quello che siamo. Tutto questo, unito ad un mondo che sin da subito testimoniava la propria fragile tensione e peculiarità, mi hanno provato molto, anche da un punto di vista mentale. Ne sono uscito pensando, ancora una volta, che ogni fondamentalismo è pericoloso e limitante, ancor più quando dettato dalla religione. In questo, non ho trovato molta differenza. Ne sono uscito chiedendomi cosa fosse Israele, cosa rappresentasse per il suo popolo e cosa significasse allo stesso tempoper gli altri, e quale fosse il prezzo di tutto questo. Rimarrei a scrivere pagine intere di questo, di quanto ogni angolo ed ogni parola aggiungesse una voce, una linea alle mie riflessioni, che spero di saper raccontare prossimamente.
Una volta tornato a Gerusalemme mi sono messo alla guida e sono sceso nel deserto, passando dal Mar Morto. Se precedentemente avevo avuto l'impressione di immergermi nella storia, adesso mi trovavo a scendere nel cuore della terra, in un luogo che rimane un mistero ed una testimonianza selvaggia. I giorni del deserto, sebbene ben meno di 40, mi hanno provato e sono stati impegnativi, anche se mi hanno aperto il cuore su paesaggi ed esperienze di rara bellezza.
Ed infine, mi sono diretto a nord, a volte seguendo le tracce del Vangelo, a volte quelle della Cabala, altre volte infine l'eco dei crociati. Il paesaggio cambiava, tornava il verde, gli alberi, i colori. Sono passato dal Golan, un luogo dove la bellezza dei paesaggi contrasta con la tensione che si nasconde, neanche tanto, dietro un filo spinato ed i campi minati. Ancora una volta, verrebbe da dire in questi giorni, appena in tempo.
Per ritrovare per ultimo il mare, calmare, quasi annegare le emozioni nelle acque del Mediterraneo, azzurro come non avrei immaginato.

 

 

Quello che posso raccontare ora è che non mi sono mai sentito in pericolo. Anzi. Resta una sicurezza altissima, per quanto dietro una tensione palpabile. Sotto molti aspetti probabilmente molti passi più avanti di noi, sotto altri un'incredibile commistione di Paesi occidentali e modo arabo. Dove le differenze ed i contrasti, nella vita delle persone, possono essere più che evidenti, fino a rasentare l'assurdità. E non mi riferisco a popolazioni differenti. Ho visto piscine private nel mezzo del deserto, resort come cattedrali isolate e gruppi senza elettricità e connessione alcuna al mondo moderno, difficile dire quanto per scelta e quanto per necessità. Ho sentito un'incredibile quantità di persone parlare con accento americano, ho guidato una macchina col cambio automatico e passato la carta di credito con la stessa frequenza con cui si lanciano in aria le monetine, pagato lo stesso bigliettto d'ingresso a Parchi molto diversi tra loro, osservato la gente chiedere l'autostop come ordinaria amministrazione e letto prezzi assurdi, quando raramente erano esposti, all'ingresso di alcuni ristoranti. Ma la terra è ricca, ed annusando le spezie al mercato, o intingendo il pane nell'hummus, o ancora gustando la frutta dai colori intensi e succosi, davvero viene da pensare che sia una terra "di latte e miele". Martoriata, certo, ancora adesso. E' una costante da non dimenticare, per non cadere nello stesso errore di chi ritiene Israele uno stato compiuto. Ecco, secondo me, non è così.

 

 

Ma quello che voglio dire, dopo tanto scrivere senza aver realmente raccontato, è che questo è stato un viaggio bellissimo, forse uno dei più belli, e che sono molto contento di essere andato e di ciò che ho visto e vissuto. In questo, mi ritengo molto fortunato, ed un po' caparbio.
Nella marea immensa di foto che mi ritrovo, mi sono chiesto infine quali immagini accompagnare a questo post. Idealmente, avrei dovuto seguire con i luoghi quello strano giro "a otto" che ho compiuto in queste tre settimane abbondanti. Ed invece, alla fine, mi sono fermato ad un singolo giorno, o quasi, almeno idealmente, per le strade di Gerusalemme. Qui, come detto, in tutta la sua massima espressione, si incontrano e si scontrano più o meno silenziosamente, non solo tre grandi culture ma anche tutte le loro varianti. Fondersi in esse, col proprio passaggio, è una sensazione molto particolare e rende, a mio avviso, Gerusalemme una città eterna, uno di quei luoghi che andrebbero visitati e vissuti, almeno una volta nella vita. In questo senso è stato il mio pellegrinaggio, se così si può chiamare. Ma è anche la stessa ragione che mi ha accompagnato ovunque, in questo luogo, ed il mio pensiero più ricorrente nel rimettermi, ogni volta, in cammino.

 

 

 
 
 

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Post n°476 pubblicato il 18 Giugno 2014 da enodas



Quando le porse ciò che aveva portato nella valigia, scorse un cenno di dissenso. Un silenzio dissenso negli occhi, nell'espressione lontana da quanto potesse immaginare ed aspettarsi. Sentì un lontano, fievole sconforto, e tanta insicurezza. Non seppe bene che dire, se non di lasciare tutto, eventualmente, che non aveva importanza. Pensò che in fondo non potesse decidere quella reazione, guidare quel momento. Lui poteva solo fare ciò che sentiva. Si sentì un po' solo ed un po' sconfortato. Senza sapere bene se ne avesse ragione o meno.
Ma si sentì anche in colpa, rivedendo da un'altra angolazione la stessa pellicola. Sentì il peso di altri momenti, di non aver saputo accettare con soddisfazione un gesto, un regalo. Vorrebbe non addossarsi la nostalgia, ed un senso di colpa per tante cose, per i genitori, innanzitutto, per il loro amore, per i ricordi che si intrecciano in un modo e lungo percorsi che rimangono difficili da spiegare. Forse perchè in realtà in fondo alcuni ponti lungo questi percorsi sono stati ricostruiti con la mente, secondo una prospettiva personale e ferita maturata nel tempo. E per i silenzi che lo fanno viaggiare lontano, a volte, chissà quanto lontano.
Affiorano sempre alla mente, appena si alza un alito di vento.

 
 
 
 
 

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