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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Messaggi di Marzo 2014

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Post n°463 pubblicato il 28 Marzo 2014 da enodas

 

 

 

Si chiamava Dominikos Theotokopoulos, ed apponeva la propria firma in originale, in caratteri greci. El Greco, appunto, così é rimasto il suo nome, un soprannome, in una terra lontana dalla sua Candia. E' come se quelle lettere in greco con le quali ostinatamente si firmava, continuassero a testimoniare il sapore della sua terra. E così, dopo Venezia, dopo Roma, approdava nella cattolicissima Spagna, varcava le porte della cinta di Toledo e qui si stabiliva per il resto della sua vita. Nasceva "El Greco", uno stile personalissimo ed immediatamente riconoscibile, tra migliaia di tele, nasceva a contatto con una tradizione secolare, nel solco profondo della Reconquista e della Controriforma, non così lontana. Lo maturava in questa terra, di sole e di riti, sul germoglio impiantato durante l'esperienza italiana, gli incontri con la pittura veneziana, primo tra tutti Tiziano, ed i grandi maestri che aveva osservato a Roma. Le forme plastiche di Michelangelo, i colori delicati di Raffaello. Le opere di questo periodo rispecchiano una fase della vita artistica del Greco, e lentamente iniziano a fondersi in quei tratti tanto peculiari che trionferanno nella seconda metà della sua vita, interamente spesa a Toledo.
Certo, Toledo, la città dove torna, idealmente, attraverso le sue opere, a quattrocento anni dalla morte, Dominikos Theotokopoulos, in una mostra che ne copre e ripercorre tutta la parabola artistica. Anche attraverso le preziose testimonianze rimaste nella città, tesori preservati lungo un percorso di calli, saliscendi e passaggi angusti.
Rosso. Giallo. Verde. Blu. Quasi abbagliano, tanto sono vivi e brillanti. Merito delle pennellate di bianco che formano contrasti vertiginosi, nelle pieghe delle vesti. Sono la prima cosa a catturare l'occhio, a guidarlo. E poi, i volti, non so trovare una parola per descriverli, non belli, non precisi, tratteggiati secondo uno stile unico che li rende così riconoscibili, così legati ad un mondo antico ed impalpabile. Suonano melodie profonde, lente, fatte di buio e di un passato che rimane lontano, distaccato. Così El Greco diventava il pittore dell'invisibile, di quella spiritualità, di quel moto interiore e quel mistero religioso che l'arte cercava di svelare, contrapponendosi al realismo caravaggesco ed alle poderose figure michelangiolesche. Qualcosa che non si vede, come fosse passato un attimo prima di essere impresso nella tela, eppure rimasto lì in qualche modo. Un mondo lontano e visionario, quasi mistico, che racconta in modo originale quella parte più inafferrabile dell'animo umano.

 

 

Aunque parezca sorprendente, nunca se ha realizado una exposición sobre el Greco en Toledo. En 1902 se celebró la primera muestra sobre el artista en el Museo del Prado y, desde entonces, la figura del pintor se ha dado a conocer a través de exposiciones en el mundo entero, pero nunca en Toledo, su ciudad.
El Museo de Santa Cruz es la sede, junto a los llamados Espacios Greco, de la mayor exposición jamás realizada de la obra del pintor: la Sacristía de la Catedral de Toledo, la Capilla de San José, el convento de Santo Domingo el Antiguo, La Iglesia de Santo Tomé y el Hospital Tavera. Estos espacios conservan los lienzos originales, lo que ofrece a la exposición un carácter único e irrepetible fuera de Toledo.

Esta exposición parte de la actividad del Greco antes de llegar a España, de Candía y Venecia a Roma, con la mirada puesta en su primera formación como maestro pintor en Creta y su paulatina apropiación de los modos occidentales italianos, a la sombra de Tiziano, Tintoretto, Giorgio Giulio Clovio, Miguel Ángel y otros artistas italianos de lienzos o estampas.
Pone un importante énfasis en su labor como retratista, la única con la que obtuvo fama y el reconocimiento de sus clientes contemporáneos, incluso a pesar de su contraste con el tipo de retrato vigente en la España de Felipe II.
Se presenta al Greco como pintor de imágenes devocionales en España, vinculándose esta actividad con sus estrategias comerciales y su tendencia a la réplica seriada de sus composiciones, así como a la difusión final de las mismas a través de la estampa, medio que le permitía ampliar su oferta y diversificar sus clientes. Además, en España desarrolló sus capacidades escenográficas evolucionando como artista, de pintor a inventor y pintor de retablos complejos y pluridisciplinares en los que diseñaba su arquitectura y sus esculturas, lo cual le exigió un nuevo aprendizaje, transformándolo en un artista plural. [...]

 

 

[...]

 

 
 
 

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Post n°462 pubblicato il 24 Marzo 2014 da enodas


 

Osservo il paesaggio che scorre oltre il finestrino. Verso Segovia, o Sego, come scrive sul telefonino la ragazza seduta vicino a me. Su un autobus chiamato La Sepulvedana. Ecco, per me basterebbe questo ad aggiungere una tonalità di colore in più ad un paesaggio che si svela così, attraverso un vetro che scivola via. Viaggerò in bus, nel cuore della Spagna. La mattina presto, con i bambini che vanno a scuola da paese a paese, nel primo pomeriggio con una ragazza che studia a Madrid e torna verso casa.
E' un paesaggio dolce, appena lasciata Madrid. Mi fa venire in mente quello del centro Italia. Con un soffio di vento freddo che arriva dalle montagne, intorno, punte bianche che si incuneano nell'azzurro del cielo. Sceso. Mi pizzica il volto, e già mi affanno tra salite e discese. Le prime, soprattutto. Sego. Città medievale, una cattedrale in cima alla collina e le mura che corrono fino al castello, sulla punta di una rocca che precipita nel verde. Clamore di armi e riflessi dorati sulle armature. Eppure, le strade sono silenziose, quasi vuote. Quasi senza presenza, come lo spazio enorme della cattedrale. Mi sembra di calarmi in un angolo di storia che sembra più di un'eco che rimbalza tra i muri delle case, uno sopra l'altro, uno sopra millenni di storia. Che sulla strada, o sotto di essa é tracciato il percorso dell'acquedotto romano, che riforniva quella stessa rocca del castello. Poi, esce fuori all'improvviso, monumentale, di colpo vertiginoso, accompagna scale che scendono e scale che si arrampicano. Una, due arcate, due arcate che potrebbero essere tre, dal basso in alto, sullo sfondo di un cielo blu. Prima di immettermi giù lungo una strada, che scivola, ancora, e si arrampica, non lo so, come una figura, in lontananza, mentre da dietro l'angolo, chissà se per quella via, musicanti itineranti disperdono note avvolti nei loro mantelli.

 

 

Sono partito con l'autobus della mattina. Ho disceso le strade della città deserta quando ancora era buio. A malincuore, le ho lasciate dietro di me. Quasi nel silenzio di una notte che ancora allungava le mani. Assonnato per l'orario, che non ho potuto scegliere. Il bus si ferma attraverso agglomerati di case, tra un punto e l'altro della Castilla y Leon, raccoglie ragazzini che vanno a scuola. Ed io, con loro sono in viaggio per Avila, arrivo che é tutto chiuso, e quell'aria fredda dai monti vicino mi afferra le ossa. E così questa volta la mattina, cammino per una città deserta, entro le navate di una cattedrale buia e silenziosa, unica porta aperta per le funzioni mattutine che mi protegge dal freddo.
Ho la cioccolata calda davanti, il pane tostato ed una bottiglia d'olio d'oliva. Che qui tra l'altro si dice quasi aceto, ma é un sapore, quello dell'olio d'oliva sul pane caldo, che mi entra quasi nell'anima, dove sono ancorate quelle cose che da sempre parlano di noi. Così come la cioccolata, densa, che ho tra le mani, che sale il profumo alle narici, quasi credevo d'averlo dimentiato e risveglia, in me, come l'uomo al bancone di un bar deserto che me la porge, dagli occhi bonaccioni.
E l'aria si scalda, la porta si schiude, e salgo delle scale, in cima alla cinta muraria che corre tutto attorno ad un pezzettino di medioevo racchiuso entro trorrioni merlati, che sembrano troppo perfetti per essere ancora lì. Li scalo uno ad uno, lungo tutto il camminamento, o quanto é consentito, solo metà da nord a sud, sui tetti delle case, sopra i bastioni coperti di verde, tra fronde di pini, rosoni scavati nella pietra e campane silenziose.

 

 

Era la città delle spade, e non lo sapevo. E' la città dei cavalieri, e pure questo non ne ero molto sicuro, Eppure già qui si spalancano le porte della Mancha, e la sagoma del cavaliere che leggeva libri e si lanciava contro i mulini a vento, e quella del suo scudiero compaiono ovunque nelle vetrine. I mulini chissà, saranno là, oltre le colline, oltre la piega del Tago che gira attorno la città. Non immaginavo Toledo così bella. Lo capisco da subito, appena passato sotto la porta senza capire dove fossi e dove dovessi andare. Che queste strade di un altro mondo, vecchio di secoli, tutte in salita, in discesa, formano un labirinto affascinante. Mi colpisce il silenzio, ancora. Quello che improvvisamente si dissolve come si spalanca la piazza di fronte, nel cuore della città. Mi colpisce perché sembra carico di una storia intera, sotto le volte imponenti e la foresta di pilastri della cattedrale, dietro lo scrigno di tesori che sono dispersi tra le calli. Ecco, le spade sembrano quasi tintinnare, incrociarsi una con l'altra e sferragliare, dietro l'angolo, come il lavoro preciso di un artigiano che incide sull'argento o il colpo di pennello sulla ceramica.
Ho deciso che non me ne andrò tanto presto, domani. Ma sono fuori dalla città, la osservo, mentre mi arrampico sulla sponda di fronte, oltrepasso un eremo, scambio due parole con qualcun'altro che mi vede la macchina fotografica nelle mani. La carretera. In salita, neanche a dirlo. Mentre a scendere é il sole, lasciando le luci accendersi, ed un alito di vento a portare fin quassù qualche sguardo sognatore, qualche altro ad osservare il giorno lasciato alle spalle.

 

 

Mi affascina sapere che proprio da questa porta passò il pittore, appena giunto in città. Come quel suono lontano, quasi un'evocazione, di campane, nelle tenebre del tempo. Si fermò qui, e non vide qualcosa di molto differente da ciò che vedo ora. Così, su quelle stesse note, evoco i suoi passi tra le strade illuminate la sera. Scendo giù fino alla Juderia, il vecchio quartiere ebraico, dove peraltro quel pittore visse, e poi ancora fino al ponte, prima di svoltare verso il convento, lasciando l'ultima sinagoga alle spalle, risalendo le scale, sotto il passaggio. Mi immergo nel silenzio di queste strade. Suggestione. Una musica lontana, ed il movimento di un gatto che fa cadere qualcosa, sui ciottoli, la interrompe, un attimo soltanto; le luci delle taverne invece filtrano, così come una voce dietro un portone. Risalgo fino al castello, la Placa Mayor, la stretta strada che gira attorno la cattedrale, tutto questo labirinto che gira attorno ad un centro spirituale e di potere, nel profondo della Spagna, mi perdo una notte d'inizio primavera.

 

 

[...]

 

 
 
 

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Post n°461 pubblicato il 20 Marzo 2014 da enodas

 

Mi sono reso conto che aveva esattamente la mia età. Venti anni fa. E' andata a morire in una terra di nessuno, contesa tra una miriade di capetti locali, sotto il patrocinio silenzioso del mondo civile che non solo se ne stava a guardare, ma entrava e si impantanava in una delle guerre più sporche che possano venire in mente. Sporca anche per noi, lorde le mani, per il nostro Paese, con scandali che sono venuti fuori a poco a poco ed altri che rimangono sepolti. Dagli atteggiamente dei soldati ai commerci di ogni genere. Sepolti, la parola esatta. Proprio come quei rifiuti tossici portati de quel mondo civile che doveva bloccare una guerra e nel frattempo la usava. Non c'é verità, ma anche se probabilmente certe cose rimangono addirittura non immaginabili, non serve troppa fantasia per intuire. Ha scavato, Ilaria Alpi, nella sporcizia, nelle ferite della gente, nel disastro di una guerra. Guerra che continua, dopo vent'anni, insuccessi e chissà quante altre schifezze sepolte. Noi che non sappiamo, noi che la nostra coscienza può decidere cosa credere. Anche lei ha deciso. Faceva un mestiere straordinario e bellissimo, e straordinariamente pericoloso. Ed oggi mi rendo conto che aveva la mia età. Mi fa sentire piccolo piccolo, io che me la vedo dietro lo sguardo meraviglioso di Giovanna Mezzogiorno che ne racconta la storia, io che la conosco attraverso le immagini di questo film e le interviste di una mamma, quella vera, che non dimentica. Lo stesso coraggio nelle vene. Dopo vent'anni. Dopo schiaffi morali ed una di quelle storie italiane inconfessabili. Ma non basta ad oscurare la silenziosa grandezza di persone fatte così, che non si piegano. Aveva la mia età.

 

 
 
 

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Post n°460 pubblicato il 12 Marzo 2014 da enodas

 


Mi ritrovo sulla spiaggia, là nel sud del Marocco, dove uomini lontani si muovono come ombre piccoline avvolte nella nebbia creata dall'acqua di mare sospesa nell'aria. Mi trovo a camminare su una spiaggia deserta di fronte ad un oceano altrettanto deserto, ed il deserto, quello vero, alle spalle. E' l'immagine che più mi avvicina a questa musica, stasera, a questa voce, calda e leggermente roca, ai suoni, contaminati da colori moderni ma ancora legati alle tradizioni. E' l'Africa che più posso immaginare, quella che ho visto, almeno. Un fascio di luce azzurrognolo che si disperde nella sala verso il palco, ad illuminare una voce. Lontana, come le onde del mare, come le coste del Mali, da cui questa cantante proviene. Alterna ritmi danzanti a melodie struggenti, francese, spagnolo ed una lingua sconosciuta. Seguo i movimenti convulsi del corpo, quasi ancestrali. Sento il ritmo battere nelle vene. Eppure continuo a vedere quella spiaggia, gli archi di roccia, la sabbia candida, la foschia tutto attorno. Come questa voce che scende ed ha nel timbro, una punta sempre nascosta di un non so che che non so descrivere, se sia malinconia, silenzio, nostalgia, o canto profondo nella notte.

 

 

La guardo ed ho questo pensiero strano. Se solo si potesse isolare una cosa, far sì che altro non esistesse, far sì che... non lo so neanche io cosa intendo. Forse vorrei soltanto isolare questo momento, immaginare che sia una cosa diversa. Vorrei isolare i capelli neri, lisci, e gli occhi scuri. Come un'immagine che racchiude una persona buona. In realtà sono tutte le mie paure che pesano come macigni. Tutto quello che mi fa dire che no, non andrebbe bene. Credo sia la voce che intona questa musica a portarmi lontano, su questi pensieri. Ho sempre temuto la mia timidezza, la temo e la soffro, perché da sempre mi limita oltre ogni ragionevole misura. Questo penso, adesso. Eppure, credo non sia più nemmeno questa la pietra più pesante che mi porto dietro. La paura più grande é il disprezzo. Sì proprio così. E' una parola che mi buca lo stomaco anche solo a pensarla. Che ti fa sentire solo anche quando non lo sei. Ed ora mi fa togliere, togliere, togliere. Senza senso, ovviamente.

 

 
 
 

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Post n°459 pubblicato il 04 Marzo 2014 da enodas

 

 

 

Stendi il trucco. Colori vivaci, sul viso, come sui vestiti, come per le strade. Dipingi la pelle, gli occhi nascosti. Bambino o adulto, per qualche giorno sarà così. Una maschera emerge sul volto, con cui diventa un tutt'uno il doppio che nasconde. Certo, ci sarebbe molto da scrivere sulle maschere. Ma queste sono gioiose, dichiaratamente sfacciate, ostentatamente un gioco di partecipazione collettiva. Ed allora, forse un po' strano, ma all'obiettivo quei volti sembrano più vicini, più semplici a lasciarsi catturare, anche se poi la storia che raccontano é trasformata dai loro stessi colori. Come a dire che una storia c'é sempre, anche quando si tratta di un sogno. Alcuni nella bellezza semplice e straordinaria che emerge anche dietro uno sguardo ed un telo di trucco, altri nella bellezza del sorriso largo che li illumina. Sfilano, volti illuminati da sorrisi e sguardi un po' corrucciati un po' perplessi dei più piccoli. In un mondo rovesciato, come vuole la tradizione. Sentita da tutti, ma tutti letteralmente, da queste parti, tanto che gli occhi estranei fanno fatica a comprendere, almeno fino in fondo. Almeno, anche per me, che da qualche anno osservo questa carrellata itinerante di un mondo onirico che sfila per la strada sulla quale cammino. E d'improvviso mi immagino dentro una cornice dai bordi sfocati, colori di seppia ed un alito di vento che porta alle orecchie il rumore di quest'armata in lontananza. Si avvicina. Forse é per questo, per fermare nella realtà almeno alcuni dei suoi protagonisti, che con il teleobbiettivo puntato scruto i volti alla ricerca di uno sguardo che mi illumini o di un gesto semplice che mi sfiori l'animo.

 

 

 

 
 
 
 
 

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