EnodasIl mio mondo... |
... " Non si conoscono che le cose che si addomesticano", dissela volpe." gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!" ...
... "Ma piangerai!" disse il piccolo principe.
"E' certo",disse la volpe.
"Ma allora ch eci guadagni?"
"Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano".
soggiunse: "Va a rivederele rose. Capirai che la tua è unica al mondo". ...
... "Addio",disse la volpe. "Ecco il mio segreto. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".
"L'essenziale è invisibile agli occhi", ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
"E' il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".
"E' il tempo che ho perduto per la mia rosa…" sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…"
Tutte le foto contenute in questo blog, se non specificato diversamente, sono mie e come tali sono protette da diritto d'autore. Rappresentano un momento, un istante, un'idea un'emozione.
Ho costruito un sito per raccoglierne alcune, e condividere una passione nata e cresciuta negli ultimi anni. Il sito é raggiungibile cliccando l'immagine qui sotto:
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ultimo aggiornamento: 20 Febbraio 2014
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Messaggi di Luglio 2014
Post n°488 pubblicato il 30 Luglio 2014 da enodas
Ha iniziato a piovere. Così come é iniziata la musica. I tasti del pianoforte ed il ticchettio della pioggia. Tutto il resto é silenzio sui gradoni dell'Arena, un silenzio sospeso come é quello intervallato da note sullo spartito. E' una musica che si imprime come l'acqua tra le pieghe dei vestiti bagnati. Quasi che le due cose non fossero separate.
"Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici..." (Henry David Thoreau)
Nasce così "In a time lapse", l'ultimo disco di Ludovico Einaudi, cui é interamente dedicata la prima parte del concerto. Nasce così, dalla lettura di uno scrittore che ha un nome familiare. Immagino proprio queste parole, ora, mentre é l'acqua a scendere irregolare ed infine a bagnarmi il volto. Affondo nel profondo. Di una musica inafferrabile, fatta di semplicità e silenzi. Eppure inafferrabile. Canto ancestrale che assorbe il mio sentire, le mie dita che sfiorano un fascio di capelli, che anelano improvvisamente i tasti di un pianoforte, mentre ombre di musicisti sullo sfondo di un palco illuminato di luci che sembrano un tramonto o una notte stellata si riflettono su un pavimento bagnato che sembra un mare intero, uno di quegli oceani che dipingono l'anima e sussurrano nel silenzio.
"I sogni sono le pietre di paragone del nostro carattere."
A tratti mi sembra quasi di risalire momenti della mia vita. Salendo scale di note fatte dei tasti di un pianoforte. C'é un'Arena colma, ora, gente venuta anche dall'estero. Ci sono io, una decina d'anni fa o poco più, su una sedia di plastica nel cortile di una villa assieme ad un centinaio di persone. Uno dei ricordi in musica più vividi ed impressi che porto con me. E lui, che suona la propria musica. E gli altri, in un silenzio a cui nemmeno sembra si voglia concedere il respiro. Ecco, ora, solo al pianoforte, canta quella stessa musica, più pura, più bella. E' dentro di me.
"La nostra vita più vera e quando siamo svegli nei nostri sogni."
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Post n°487 pubblicato il 28 Luglio 2014 da enodas
Lo "spezapreda", così nacque. Così inizialmente si firmava. Il tagliapietra, figlio di uno scalpellino della Verona del Seicento. Nasceva il Veronese, ben presto, quando iniziò a dipingere. Iniziò guardando a Mantova ed all'Emilia, rievocando le forme forti e possenti di Giulio Romano, ed i profili delle donne emiliane. Lo faceva appropriandosi del colore, quel colore vivo e sgargiante, il rosa, il giallo il blu e soprattutto il verde, quel verde che diventerà "verde Veronese". Ed infina, carico dei suoi segreti svelati, del linguaggio pittorico che fondeva la pittura dei maestri emiliani con quella della cerchia romana, lasciò Verona e giunse alla Serenissima. Paolo Caliari, Paolo Veronese. Chiamato dalle più alte committenze, ad affrescare le pareti degli edifici più prestigiosi. Fu allora che divenne "il maestro dell'illusione", quella di fondere spazi architettonici reali con la scena che entrava nel muro, lo apriva su un mondo nuovo che era quello delineato dai suoi pennelli, dai suoi colori. E non poteva essere altrimenti, per quell'artista nato "spezapreda" e che la pietra traslata nell'elemento architettonico compariva già entro le sue prime tele.
Devo dire che questa mostra mi é piaciuta molto, rivelandosi particolarmente interessante. Ben curata, nella scelte, nella suddivisione delle sezioni che allo stesso tempo distinguevano tematiche ed evoluzione artisitica del pittore, e nei dipinti. Paolo Veronese, così apprezzato in vita, per quanto rimasto nell'Olimpo dei grandi della pittura del suo tempo, viene considerato ed appreso a volte come figura leggermente in ombra rispetto i suoi contemporanei, quasi come decoratore che pittore. Questo percorso illumina invece la maestria e l'importanza dei suoi lavori, così come nella vastità dei contesti in cui nascevano le sue opere, nelle affascinanti figure femminili, nella bellezza dei vestiti e nella cura descrittiva degli spazi così come delle figure umane che li popolavano, così come, infine nella bellezza e nell'intensità dei colori. Questa mostra mi é piaciuta perché mi ha fatto apprezzare questo pittore e mi ha guidato tra significati intrinsechi e rimandi incrociati delle opere. Perché Paolo Veronese fuse scuole diverse e filosofie diverse. In questo, sono di straordinario interesse i disegni che corrono paralleli alla mostra, ad ogni tappa, alcune volte addirittura in rapporto univoco coi dipinti esposti alle pareti. Bellissimi, svelavano tutta la bravura di quest'uomo, ma anche l'attenzione che questi dedicava alla fase del disegno, un po' in contrasto alla tradizione veneziana che si concentrava sul colore. Matita, penna, tratti ad acquerello. Rimanevano come modelli, una specie di archivio, nella bottega del maestro, a fungere da rimandi per i soggetti più complicati o per lo studio di figure. Su questi fogli si svelava cosa c'era dietro il risultato finale impresso sula tela. Quella storia nella storia, che rende il cammino lungo queste sale più ricco ed un po' più prezioso, sulle orme di un grande pittore.
"Scopo della rassegna è di illustrare la grandezza del maestro cinquecentesco che fu antesignano del Manierismo sulla laguna, capace di celebrare con la sua pittura innovativa, fatta di luce, colore, ardite prospettive, il vivere civile di Venezia, l'apertura intellettuale della citta', quando ancora non avevano preso piede i rigidi dettami della Controriforma. Per questo, anche in epoche successive, influenzo' generazioni di artisti, tra cui Van Dyck, Rubens, Watteau, Tiepolo, Delacroix. Figlio di uno scalpellino, Paolo Caliari nasceva nel 1528 a Verona, dove si svolgeva la sua prima formazione artistica nella bottega di Antonio Badile. Ma e' il suo mentore, Michele Sanmicheli, a introdurlo alle suggestioni della 'maniera nuova', sia quella di provenienza tosco-romana, rappresentata soprattutto da Giulio Romano, a lungo attivo nella vicina Mantova, sia il suo versante emiliano, riconducibile all'opera di Correggio e Parmigianino. Una matrice questa che caratterizzera' la sua cifra anche durante tutto il periodo veneziano, nonostante gli innegabili influssi di Tiziano, a cui fu legato da vicendevole ammirazione.
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Post n°486 pubblicato il 25 Luglio 2014 da enodas
Sono arrivato che l'aeroporto era bloccato. Nessun volo per quattro ore. Giusto così, alla fine, che anche in questo secondo giorno non si senta dalla pista il rumore delle turbine mentre da quell'aereo si proceda alla pietosa operazione di scarico. E' un qualcosa che ha colpito profondamente la nazione. E non potrebbe essere altrimenti. Perché la gran maggioranza di persone era olandese, certo, e molti in qualche modo avranno avuto una persona lontanamente conosciuta, fosse anche un collega di lavoro alla lontana, nella stessa azienda, e perché molte erano proprio espressione di questo popolo viaggiatore che prende e parte in continuazione verso ogni meta raggiungibile. Una proiezione di una tragedia assurda che ha inghiottito gente che andava in vacanza e che torna, forse non si sa nemmeno, in condizioni mostruose. Credo che sia anche questo, l'essere toccati in profondità in una routine della nostra vita agiata. Il dolore reclama sempre rispetto. Ho pensato che in questi giorni ci sia stata una grande compostezza, una forte unità ed una grandissima dignità in risposta dal popolo olandese. Un popolo che, per quanto nel mio piccolo quotidiano possa scontrarmi con la cultura a differenti livelli, si é sempre dimostrato un popolo di altissimo senso civico e con più alto senso della società che abbia mai incontrato.
"What a terrible wold". Sì é vero, penso. Non siamo capaci di avere un mondo più bello, di costruire. Ho letto articolo per articolo del volo abbattuto. Ho girato pagina ed ho letto ancora di più della guerra a Gaza. Leggo di un Paese da cui sono appena tornato e penso che ho quasi sfiorato una guerra. Non ha senso. Non ho trovato pagine di chissà quante guerre dimenticate. Quel volo C130 parcheggiato a lato della pista, le bandiere a mezz'asta che vedo dal finestrino mentre infine il mio volo entra in fase di rullaggio sulla pista, sono facce di una sola medaglia che gira vorticosamente. Ne rimaniamo colpiti perché colpisce noi in qualcosa che facciamo, prendere un aereo ed andare in vacanza. Oggi, in questi giorni, che pure un po' di paura ce l'ho sempre, molto di più leggendo i giornali. Eppure, continuiamo ognuno per se stesso, colpiti certo sul momento, dispiaciuti e ci mancherebbe, e poi proseguiamo. Come un aeroporto che torna operativo ed uno sciame di passeggeri viene nuovamente reindirizzato verso i gate, ognuno verso la propria destinazione, qualcuno magari calcolando soltanto il ritardo accumulato. Il mondo non si ferma per nessuno, e forse é questo il prezzo che la vita reclama per sopravvivenre. E' un pensiero triste, ma é la realtà. E tra un po', anche questo rimarrà un interrogativo insoluto. Insoluta é la disputa e lo stallo politico che hanno portato ad abbattere un volo di linea. Perché anche in Ucraina, o quel che ne rimane almeno su una mappa geografica, é una guerra, una guerra civile vera e propria, e che tirassero giù un aereo a ben vedere era solo questione di tempo. Insoluta rimarrà una stupida guerra combattuta sulla pelle di povera gente, da entrambe le parti in nome di fanatismo e disprezzo. Loro sono già più lontani e li sentiamo un po' meno. Insoluti sono i barconi che affondano, in continuazione, nell'indifferenza più vergognosa, la stessa che fa dimenticare lo sterminio enorme che avviene nel loro luogo di origine. Loro non li vediamo nemmeno più, forse per assuefazione, forse non lo so. Ed é subito sera.
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Post n°485 pubblicato il 22 Luglio 2014 da enodas
Pochi passi, dalla banchina attraverso i giunchi. Pochi passi e si scivola sul fondo e le gambe affondano in un fango scuro e pesante. Inizia così. La terraferma che lentamente si lascia alle spalle, mentre ogni passo affonda, precario, quasi inghiottito. Lentamente, é il mare, nel quale cammino, su una strada che si é aperta così, secondo un'arcana magia, laddove normalmente c'é l'acqua, che guide esperte sanno come trovare, in mezzo a questa distesa instabile. Sono ospite di un mondo che normalmente rimane nascosto. Tra acqua e terra, tra cielo e mare. Scorgendo riflessi che abbagliano e che sono talmente pieni da dare la sensazione di camminare in un mondo capovolto. Un deserto di acqua che c'é e non c'é, che sparisce e lascia aperto il passaggio con la stessa rapidità con la quale se ne riappropria. Un deserto che é un luogo dell'anima, sotto un cielo azzurro ed un sole caldo come pochi se ne vedono quassu. Più a nord, ancora, verso le Isole Frisoni, in una terra strappata al mare dall'uomo.
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Post n°484 pubblicato il 18 Luglio 2014 da enodas
7-9 Giugno
Osservo le molte anime di Nazareth. Non un villaggio, per quanto il centro vero e proprio sia in realtà molto contenuto, attorno a poche strade. Le anime di Nazareth sono nella gente, arabi, innanzitutto, arabi cristiani, israeliani, e mussulmani. Una realtà diversa da quanto posso aver visto finora. Fuse e separate, nella cucina, nelle case dalla disrodinata città vecchia, nel profilo degli edifici. Le anime sono nelle piazze, un po' diverse l'una dall'altra, ma profodamente mediorentali, un po' caotiche e con quell'aria decadente che trasmette un insolubile senso di abbandono a se stesso, al tempo ed all'incuria, e nei cortili delle case, dove può capitare di essere invitati a far parte della famiglia. O familias, come dovrei dire realmente, secondo quel significato più ampio che davano i latini. E' difficile così indugiare su quale sia il giorno di festa, il venerdì, il sabato o la domenica. indugiare sulla persona che hai di fronte. Le anime emergono nei manifesti, alcuni inquietanti, che contrappongono fedi e religioni, come a ricordare che c'é sempre qualcosa di nascosto e mai sopito, una tensione sottintesa, anche laddove tutto può apparire normale e pacifico.
E' stato un viaggio molto lungo, anche nei colori e nelle linee del paesaggio che lentamente ha abbandonato il deserto arso e profondo per tramutarsi in colline verdeggianti e campi che si susseguono con regolarità. Eppure, il cartello indica nuovamente una valore sotto il livello del mare, centinaia di metri, per scendere verso Tiberiade e specchiarsi su acque che sembrano un poco più azzurre. Ho la stanchezza con me, nei giorni attraverso il deserto, nel caldo dell'aria e nelle salite che mi tolgono il fiato così facilmente. Respiro... l'aria calda ed umida del vapore, che mi inumidisce la fronte, riempie i polmoni, allenta la tensione della mente.
Ecco dunque, che questi giorni scivolano su luoghi a volte un po' isolati ma colmi di significato. Anche una barca di pescatori, che oscilla in lontananza, assume un altro significato. E di suggestione. Perché questi sono i luoghi del Vangelo e, indipendentemente dalla fede, fanno parte della propria cultura. Il monte delle Beatitudini, il monte Tabor, quello della Trasfigurazione, la città di Cafarnao ed i luoghi in cui la tradizione vuole si siano compiuti dei miracoli, o dove semplici pescatori sono diventati pescatori di anime. Nel silenzio raccolto di questi luoghi, nelle comunità religiose che li gestiscono, si percepisce una pace ed un tranquillo distacco dall'esterno del mondo. Mondi a parte, appunto, le cui chiavi sono affidate a gruppi che vengono da lontano, sia nello spazio che nella storia. Ogni soglia varcata, ogni albero d'ulivo o ogni fiore scosso dal vento, ogni riflesso di un sole che volge al tramonto e colora le pietre squadrate, sembrano raccontare questa realtà, questo distacco emotivo e della mente.
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Post n°483 pubblicato il 16 Luglio 2014 da enodas
16 Luglio 2014
No, la data é giusta.
“Ho una videocamera con me, ma ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman. Non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non ce la faccio. Non riesco perché piango anche io”. (Vittorio Arrigoni)
"... Quando le immagini dei bambini innocenti dilaniati dalle “bombe intelligenti” pietosamente annunciate dall’Idf, delle donne anziane disperatamente in fuga dalle macerie delle loro case, dei cadaveri di giovani in jeans e pantofole che nulla hanno dei segni distintivi di un miliziano, diventeranno insopportabili per l’Occidente, allora ci si chiederà se, per quanto fondate possano essere le sue paure, così come i pretesti per colpire duramente un nemico irriducibile, Israele non stia semplicemente cedendo alla falsa quanto diffusa assunzione di poter risolver il conflitto che da 65 anni lo vede contrapporsi ai palestinesi, semplicemente usando la forza. (tratto da un articolo su Repubblica)
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Post n°482 pubblicato il 13 Luglio 2014 da enodas
4-6 Giugno
Direzione sud. Costeggiando il Mar Morto, lungo la strada più lunga del Paese, tra due punti che sono l'estremo di un paesaggio che sa cambiare radicalmente. E man mano il luogo diventa più selvaggio, la costa abbandonata alla bellezza della natura o circondata dagli impianti di estrazione di minerali, e la terra del deserto che dall'altro lato della strada fa da contraltare sempre più friabile e precaria nelle sue sculture di roccia quasi fatte di sale puro, che ovunque, in un posto diverso da questo sarebbero sciolte, letteralmente. Come affondano le scarpe, su una distesa di sale e di fango. Verso sud, agli angoli più remoti di Israele, al confine con la Giordania, dove gli ultimi avamposti sono paesi dietro una cancellata che si frappone sulla strada, una via di mezzo tra l'esperienza dei kibbutz ed i moshav, comunità di cooperative agricole. E' così, in un angolo remoto ed un terreno che sembra un'oasi di pace lontana da tutto, dalle lotte ma anche da una vita freneticamente senza pausa che la terra acquista quel valore così fondamentale di cultura, di lavoro, di fondamento della nazione stessa. Che questi insediamenti sono conquista di una terra impressa nella tradizione, promessa contenuta nelle pieghe della storia, sono conquista dei padri fondatori, pionieri su un suolo dove tornavano dopo generazioni, isolamento ed integrazione, a seconda delle filosofie portanti alla base della comunità e dei gruppi migranti che, dall'Europa e dal mondo, sono giunti sin qui. Variano leggermente secondo differenti sfumature le fondamenta politiche, la divisione dei terreni e dei beni, il concetto, recuperato, di proprietà privata e di entità familiare. Abbracciando una filosofia di lavorazione della terra che rimane ancorato alla genuinità dei suoi frutti, dalla scelta dei semi, quasi della vita stessa, ed al rispetto del suolo attraverso un lavoro duro e semplice. Tanto che il paradosso vuole che siano ormai volontari e stranieri, talvolta proprio arabi, talvolta dall'Asia più lontana e più povera, ormai, a sostentare con la propria forza l'esistenza di queste realtà.
Sempre più sud, mi inoltro nel Negev. Costeggiando crateri e formazioni rocciose dall'aspetto imponente e lungo strade ai cui margini si sfilano interminabili reti di protezione, avvisi a non fermarsi, non fotografare, alla presenza di zone di tiro. Nemmeno da immaginare cosa si nasconda, cosa sia tenuto, qui. Un deserto enorme che si spinge fino al Mar Rosso. Un deserto che é l'essenza stessa della tradizione ebraica. E' un'affermazione affascinante, riportata spesso, specie laddove il fondatore del moderno Israele é sepolto. Dinanzi un wadi che si apre spettacolare e curva, poi dietro le montagne. Un tratto di verde smeraldo su una tela arsa dal sole. Il vento sospira, da quassu, smuove la chioma giovane di un alberello ancorato sul ciglio, e le fronde di quelli che, alle mie spalle concedono uno spazio d'ombra. E come gli sprazzi di nuvole che scorrono veloci su un cielo limpido, scorrono gli istanti, la percezione del tempo per come lo conosciamo, per come noi, piccole entità, sappiamo concepirlo.
E come perso tra le pieghe del deserto, affondo nella storia. Prima di tutto, quando su questo suolo arrivavano le carovane d'oriente colme di spezie e di ricchezze. Un percorso avventuroso, quasi infinito, una sfida che partiva dall'India ed arrivava fino al porto di Gaza. Sulla strada carovaniera sorgevano allora ricche città che fungevano allo stesso tempo da avamposti e luoghi sicuri, sfarzo e ricchezza di un popolo quasi leggendario, quello dei Nabatei. Ecco varcare l'ossatura di un arco significa risalire indietro nella storia. Partendo da quella più recente, quando l'orologio si é fermato per l'ultima volta, ed i Bizantini erigevano chiese e rinnovavano la tradizione Romana, indietro ai Romani stessi che introducevano i loro usi, la cura maniacale del corpo, portata fin ai confini dell'impero, ben curandosi di lasciar prosperare la ricchezza dei commerci, fino alle mura più antiche, fortezze e cattedrali insieme nel deserto, letteralmente. Sulla cima di punti spettacolari e strategici o immerse nel cuore della terra, nella roccia per sfuggire al caldo più atroce, ciò che colpisce maggiormente é l'ingegno e la strenua forza dell'uomo nell'esplorare e nel sopravvivere.
Ed alla fine sono giunto. Quasi ai confini del mondo, laddove il paesaggio sembra una cartolina della luna. Lungo una propaggine della Rift Vallei si spalanca un cratere che lo sguardo non riesce ad abbracciare. Sull'orlo di un precipizio, su cui si affacciano occhi sognatori e lo sguardo fisso degli stambecchi. E quel senso di vertigine infinita che scaturisce da un dirupo sul quale rimani sospeso, ed allo stesso tempo da un senso di potenza e piccolezza supreme.
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Post n°481 pubblicato il 10 Luglio 2014 da enodas
1-3 Giugno
La strada si apre come una lama dentro il deserto. Tra ali di mura di protezione, scende nel deserto di Giuda, un agglomerato che sembra infinito di colline arse dal sole, drenate d'acqua e piatte sulla cima. Scendo, come dentro un canyon, seguendo una linea di cemento tracciata in una tela dalle infinite tonalità di giallo, rosso ed arancione. Accecante, come il caldo che ti stringe attorno. Fino al mare, che mare in realtà non è. Forse sarà un miraggio, forse reale, sicuramente uno scherzo della natura, tanto che gli antichi lo avevano battezzato mare di Satana. Ecco, affacciato su questa acque di un blu che appare ancora più intenso, si aprono delle grotte. Un altro scherzo della natura, forse è così. Qualcosa che ha permesso di risalire all'alba dei tempi, della nostra storia e della nostra cultura, affidata a rotoli nascosti alla furia distruttrice dei Romani, a quella lenta ed inarrestabile dei secoli. Osservo i grani di sabia scivolare a pelo sul terreno, coprono un'orma che vi é appena passata. Sono a Qumran.
Meno quattrocentoventi. Metri. Scendo, anche gli ultimi gradini, fino alla riva. Nel cuor della terra. O almeno, fino al punto più basso del pianeta. Con le mani che affondano nel fango, caldo a contatto con la pelle, sotto il sole cocente. Ed una sensazione incredibile, che a raccontarla uno non ci crede comunque. Resto immerso, per così dire, in queste acque calde ed immobili, i miei movimenti che si fanno lenti, ogni impercettibile ferita esplode sulla pelle e quando stringo le mani ho come la sensazione di smuovere una sostanza oleosa tra i polpastrelli. E' forse questa sensazione, più di tutte, a farmi realizzare che non ci si vita, in queste acque, anche se sento il corpo rilassarsi, lasciar cadere la tensione. Quella dei muscoli e quella accumulata nell'animo, almeno un po'. Che dietro una strada controllata, dietro un kibbutz affacciato sul Mar Morto e dietro l'altopiano frammetato del deserto che si precipita sul Mare, questa terra é, paradossalmente, ancora Palestina.
Risalgo il wadi, sin dalla mattina. Su un terreno che sale e ridiscende, ogni tanto. Arriva il rumore dell'acqua che sgorga e precipita dalla roccia. L'acqua é vita, é il verde parsimonioso che la circonda, in un luogo che crederesti infernale. Ed invece, nascosta entro canyon che uniscono il deserto al Mar Morto, sgorga la linfa che la nutre. Quella stessa che attraversa le mani immerse nell'acqua fredda dei torrenti. Una sensazione ancora più strana, osservando quel Mare, là dietro, e pensando che qui si incontrano, quasi si scontrano, due elementi estremi. Fuoco. Sulla pietra nuda, e la sommità dell'altopiano che rimane là, sovrastante, dall'alto. E dall'alto io stesso, osservo, precipizi e costoni che spariscono dietro il ciglio friabile di massi e terra arsa. Vertigine. Su una vista che spazia a centottanta gradi, con le montagne della Giordania così vicine, ed una serie infinita di pendii ai miei lati. Aspetta un respiro di vento. Aspetta che una nuvola abbozzata nel cielo copra il sole che già sembra così alto, e si proietti sul terreno come su una tela sconfinata. Vertigine.
Quattro e mezza, notte buia. Ed il silenzio che solo il deserto può dare. Placide acque, immobili, poche centinaia di metri in linea d'aria, di un mare che sembra non esistere, tanto è immobile, nella notte come di giorno. E' rossa, nella notte, la roccia. In questo silenzio che sa di viaggio nel passato, e nella morte. Trasuda sangue, questo sembra, illuminata così. Ed ogni passo sembra risuonare del clangore delle armi, delle pietre scaraventate dall'alto, delle urla durante la marcia. Che anch'io sono in marcia, sul sentiero del Serpente. Si avvolge sul costone che dà verso il Mar Morto. Il sentiero del Serpente, più di tutto, sarà il mio deserto. Io, come in una processione che mi toglie il fiato e spezza ogni resistenza. Salita, nella notte che lentamente inizia a scemare. Grondando sudore, dietro ogni gradino che sembra un po' più pesante, su quella roccia illuminata di un rosso vivo e sinistro. Che sinistra è l'eco che attraverso venti secoli giunge da Masada. L'ultima resistenza, l'ultimo orgoglio, l'ultimo gesto estremo. Quando il formidabile esercito romano riuscì infine ad espugnare Masada, non trovò altro che tozzi ardenti e cadaveri. Una storia tetra e commovente di eroismo estremo. Per quanto poco, sono stato in queste terre abbastanza per comprendere che "Masada non dovrà cadere mai più" va ben oltre un motto un po' holliwoodiano da stampare sulle magliette, ma rappresenta l'essenza stessa di questo stato, le uniformi che lo difendono ad ogni angolo, e la fede incrollabile nel ritorno alla Terra Promessa. Ed è un pensiero che fa rabbrividire, lungo questa salita che toglie il fiato pur essendo di prima mattina, agli occhi di questa pietra tinta di rosso.
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Post n°480 pubblicato il 05 Luglio 2014 da enodas
Difficile definire con che stato d'animo mi trovi su questo bus. Un po' per la città ed i giorni che mi lascio alle spalle, un po' perchè è come aprire una pagina bianca. Salito a Gerusalemme Est, direzione un confine che c'è e che non c'è. Tratteggiato sulla mappa, esiste come il muro che lo marca, non per gli occhi di chi questo muro lo controlla...
Ecco, da una collina fatta erigere e scavare da un re della Giudea, proprio quell'Erode, per la prima volta osservo il deserto. Aspro e montuoso, fatto di wadi scavati sui fianchi delle montagne drenate. Sono sempre profondamente scosso dalla bellezza silenziosa di questa manifestazione della natura. Ecco, la macchina attraversa una strada, supera un incrocio. E già non si capisce più niente di zona A, zona B e zona C, se non fosse per dei blocchi di cemento posti ai lati della strada come i ceppi dlle antiche vie romane, e per i cartelli che proibiscono l'accesso agli Israeliani, a rischio della loro incolumità. Mi ritrovo nel deserto, ad osservare dell'alto un monastero sospeso su un canyon, o sulla strada delle antiche piscine di Re Salomone. Eccomi, in macchina, superare una manifestazione di persone urlanti: perchè è venerdì, e gli uomini sono appena usciti dalla moschea in uno di quei villaggi che sono campi profughi. E nel cielo, tra slogan e proteste non sventolano solo bandiere della Palestina, ma anche quelle verdi di Hamas e quelle gialle di Hezbollah. La tensione è palpabile, come l'aria che respiro.
Il taxi gira, svolta, si ferma. Quello che ho dinanzi si alza otto metri sopra di me, corre come un serpente e come un serpente si avvita in curvature estreme e si insinua lungo percorsi frastagliati. Quello che ho dinanzi è grigio ed allo stesso tempo una successione di colori ed una linea continua di poster sui quali si raccontano storie. Quello che ho dinanzi è un muro che sembra non finire mai, non tanto nei suoi percorsi in linea orizzontale, dove ad ogni angolo può inframmezzarsi in una torre di guardia, quanto verso il cielo. E' il muro. E' quello che divide Michael da se stesso. Lo stesso che dei quattro lati disponibili attorno una casa ne percorre tre. Quello che non mi fa vedere Gerusalemme, gli olivi e neppure le case nuove che dalla cima di una collina scendono giù come fossero slavina.
Il controllo del bus procede liscio come una routine quotidiana. Parcheggio a lato, tutte le persone che scendono e si mettono in fila, aprono una carta, la mostrano, ogni tanto si accenna una mezza discussione ma alla fine risalgono tutti. Subito dopo è la volta del vano bagagli. Io no, non devo scendere. Col mio passaporto in mano ho questo diritto di rimanere seduto sul sedile ed attendere guardando fuori dal finestrino. E' una mattina qualsiasi, di una giornata lavorativa, domenica, ed io mi sento quasi in vergogna. Mentre mi allontano e lascio dietro di me due ali di cemento armato a protezione della strada, guardo fuori, ancora una volta. Il sole che è già caldo, limpido, e non sono nemmeno le nove. Il muro illuminato, dietro, case quasi circondate, disegni spray e poster attaccati. Davanti, invece, si stendono gli olivi, sulla continuazione naturale del terreno. Allora, è vero... Ho letto da qualche parte che i Palestinesi sono tradizionalmente uniti ai loro ulivi da un rapporto simbiotico. E non c'è da dubitarne, considerando la "religiosa" osservanza che le olive rivestono nella cucina arabo-israeliana.
(written by Laura Mills)
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