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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Messaggi di Dicembre 2017

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Post n°741 pubblicato il 30 Dicembre 2017 da enodas

 

 

Ho con me questa foto, scattata non molti giorni fa, che neanche mi sembra reale. Credo che non scriverò più per quest'anno, ma mi terrò alla larga da bilanci e considerazioni. Anche se parte di tutto ciò sia nascosto dentro un'immagine come questa, probabilmente. So che quest'anno é iniziato in un modo e si avvia a conclusione in maniera molto differente da come avrei potuto immaginare, almeno riguardo quella che é una delle storie più ricorrenti di questo blog. Anche se in realtà la mia sensazione a riguardo non sia mutata qualcosa é cambiato. So che, come quest'immagine, sono arrivato a questi giorni colmo di aspettative e di cose da fare, come se avessi sempre delle promesse da mantenere a non so bene chi, forse me stesso. E difficilmente parlerò soltanto di leggerezza, come vorrei in un'immagine, perché so che i miei occhi sanno essere complicati, so che a volte le promesse cambiano, prendendo strade che non sono davvero in controllo, ed altre si aprono senza che si possano vedere in anticipo.

 

 

 
 
 

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Post n°740 pubblicato il 24 Dicembre 2017 da enodas

 

 

"...Cinggis-qagan mosse incontro ai Naiman così dicendo: "Ci batteremo anche se dovessimo passare attraverso i pruni di acacie selvatiche; anche se dovessimo schierarci in mezzo a un lago; anche se dovessimo farci strada a colpi di sgorbia!"..."

 

 

Epilogo - Il deserto dell'Anima

 

Ho deciso di scrivere di me, lungo questo viaggiare interminabile. Impossibilie parlare di strade, in questo paesaggio dove una strada é una linea precaria e quasi invisibile, una pista rugosa che fa sobbalzare e che solo occhi esperti possono individuare. Non posso evitare che questo deserto si rifletta dentro di me, come uno specchio che i chilometri interminabili mi pongono dinanzi, come il riflesso del finestrino attraverso cui osservo il mondo là fuori, lenta, continua variazione. E non posso evitare di sprofondare in profondi silenzi, a tratti, quando non c'é molto da dire, o forse non verrebbe niente da dire, vagando con gli occhi su queste distese senza limiti, talvolta crollando di stanchezza.

 

 

Non ne sono sicuro, ma credo sia stato il nome. Ogni tanto la osservo, seduta di fronte a me, chiedendomi se sia una ragazza che mi piace. Il nome, quello mi rimanda a tanti ricordi e molte emozioni, spesso vissute in silenzio. Un po' come adesso, in realtà. O forse é ciò che fa, la macchina fotografica, gli interessi a casa così come qui, lungo un viaggio interminabile ed una voglia di osservare e di stupirsi che é come una ventata fresca. Anche se poi non sempre mi trovi in linea coi modi. Così ogni tanto mi fermo a pensare, e magari tornare indietro, a quel nome, tanti anni fa, che in qualche modo nel profondo é rimasto inciso da qualche parte. Ingannandomi in una rete ideale di immagini incompiute. E chiedendomi, di tanto in tanto perché mai, nel mio essere silenzioso ed invisibile, quasi mai nessuno abbia provato interesse per la mia macchina fotografica, per le mie passioni, per come sono.

 

 

La vita é violenta. Stavo osservando la scacchiera, coi pezzi mezzo caduti, e questa persona, parlandomi, usciva con questa frase. Non so se si riferisse alla vista di questi villaggi, o più ancora a storie provenienti dall'India. E proprio dell'India questa frase che suonava quasi come una sentenza per come me la aveva pronunciata si é improvvisamente rilevata una chiave di volta. Ho pensato immediatamente alla difficoltà che avevo nell'accettare ciò che avevo davanti, soprattutto i primi giorni, e ad un incontro in un villaggio sperduto e ricco di colore con una signora inglese che si spostava da sola su una rotta simile alla mia. Ho raccolto in un istante infinite immagini e le ho osservate di nuovo. Sentendomi non di meno colpevole rispetto ad allora della mia fortuna.

 

 

Non é un modo di viaggiare nel quale mi trovo. Scendono come una mini marea di fotografi professionisti e senza troppi pensieri entrano in una casa, puntano un bambino, fermano una persona ed iniziano a fotografare. Poi, come sono venuti, se ne vanno. E' qualcosa che mi lascia perplesso. Così come mi lascia perplesso il distacco per le cose. Dentro di me é come se non fossero andati davvero troppo lontano, nei modi ora, e nei giudizi poi. Anche se in realtà non so come sia io, come venga letto agli occhi degli altri. Ma a volte mi sento a disagio, ed altre mi sento legato, rispetto a questo procedere un po' blando che sembra quasi voler soltanto marcare una casella e poco interesse oltre il minuto.

 

 

Ogni tanto, attraverso il finestrino, vedo momenti sbagliati, piccoli crocevia che col senno di poi continuo a giudicare coi se e con i ma. Una strada che non porta lontano, in realtà. Ma ogni tanto ritornano, ad affiorare nella mia mente. E non so se sia una sera d'estate, una decisione d'inverno, cose legate all'università, parole feroci che mantengo scolpite nel cuore. Ricordi così, che sembrano riflettersi casualmente in un deserto dagli infiniti volti. Tuttavia, mi osserva in maniera feroce. Non so se sia il mio carattere. Probabilmente. Ma in qualche modo, tutto questo mi ha portato qui, nel bene e nel male. Anche se non parlerei di rimpianti o rimorsi. Eppure ogni tanto qualcosa viene a galla, tra amarezza e malinconia, che non potrei poi definire.

 

 

Non so se un viaggio del genere sarebbe stato accettabile. Alla fine, lo ammetto, fisicamente era troppo anche per me. Non so se le aquile ed i loro cacciatori avrebbero almeno compensato per questo. Ed allora, probabilmente, meglio così. Anche se ancora una volta mi sono trovato in viaggio da solo e mi domando spesso chissà se sarà mai differente. C'é in questo una certa stanchezza ed una certa paura, specie prima di partire, ogni volta di più che mi sforzo di oltrepassare. Perché poi, ad un certo punto, vorrei anche che fosse diverso, che fossimo in due, che potessi condividere insieme a qualcuno queste avventure.

 

 

Ho trovato la semplicità di questo luogo disarmante, a tratti sconvolgente. Tanto da risultarmi più di una volta praticamente estranea. Nell'immensità dei luoghi e nel modo di vivere della gente, così come nelle relazioni umane e nelle aspirazioni. Tanto da rendere difficile la comunicazione, da parte mia, o nostra, anche quando si trattava di purà curiosità o voglia di conoscere. Forse per questo motivo, per quanto lento, questo viaggio mi é sembrato comunque percorso di fretta. Non so se questo sia stato anche un tuffo nel passato, o forse sarebbe meglio dire alle origini. Ho potuto osservare il cielo come difficilmente avrò ancora occasione di fare, combattendo il gelo notturno del deserto per osservare una volta che ormai abbiamo perduto, ma che proprio quella semplicità mi permetteva di apprezzare come non mai. Ho cercato di raccogliere immagini come ritratti, perché ne ho avuto la possibilità, e cercato di apprezzare il paesaggio per come si presentava davanti ai miei occhi, anche quando mi faceva sprofondare sull'orlo di un precipizio.

 

 

- Route to Tuvhken Monastery -
"The second path of wisdom
To sanctify body, speech and mind
By taking refuge in the Buddha, Dharma and Sangha
To be absorbed in wholesomeness..."

 

 
 
 

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Post n°739 pubblicato il 21 Dicembre 2017 da enodas

 

 

"...Ed ecco una volta, in primavera, mentre stava cuocendo del montone curato in inverno, fece sedere uno accanto all'altro i suoi cinque figli, e dette a ciascuno un'asta di freccia perché la spezzassero. La spezzarono facilmente. Allora, essa gliene dette cinque per uno, legate insieme, con la preghiera di spezzarle. Tutti e cinque le afferravano, le stringevano nei pugni, ma non riuscirono a spezzarle..."

 

 

Parte Nona - Il deserto delle parole

 

Ho raccolto così tante immagini per questo post, che non saprei scegliere. Le ho raccolte nel silenzio, quello di un paessaggio che con la sua vastità era una presenza costante, e quello di una barriera linguistica praticamente insormontabile. Laddove, spesso, non arrivavano le parole, nella loro coreografica essenzialità cercavano di arrivare i gesti. Perché questo viaggio, ancora prima di tutto  per sopravvivenza, non può precludere dalla gente, che in questo paesaggio si collocava come puntini minuscoli sparsi negli angoli più impensabili, e che erano un riparo sicuro da quello stesso paesaggio, approdo di chilometri e chilometri di strada sterrata e piste improvvisate.

 

 

Credo che qui, più di ogni altro posto, l'ospitalità sia elemento essenziale della vita. Per un popolo che rimane nomade, strettamente legato alla terra, alla natura, ed alle sue intemperie, ospitalità é un dono innato che fa parte della quotidianità. I Mongoli sono giustamente famosi per questo. Nonostante ciò, nonostante di giorno in giorno questo dono mi si manifestasse, non ho smesso di rimanere sorpreso dalla generosità e dalla semplicità con cui mi veniva offerto. Ho visto gente svuotare completamente la propria gher, perché potessimo mangiare e dormire la notte, anche quando questo equivalesse a svuotare la propria casa ed ammucchiare i pochi oggetti a ridosso dell'esterno, in attesa di una notte di gelo e di neve. Ho trovato persone pronte ad accoglierci lungo la strada, quando uno dei furgoncini é rimasto guasto per ore, ed a distanza in ogni direzione non si scorgeva che una jurta a perdita d'occhio. Zucchero, té ed un burro ricco e cremoso, e magari pure un bel po' di vodka, comparivano all'istante, al centro di un unico tavolo, opposto alla caldaia centrale dove ardeva combustibile animale. Siamo scesi infine sul far della notte, una sera - manco a dirlo - nel mezzo del nulla: come va la giornata, come stanno gli animali, possiamo dormire da voi. Tutto questo trovava sempre porte aperte senza esitazioni, in cambio di dolci e cioccolata. Nessuno denaro, per il nomade che soccorre il viaggiatore.

 

 

Abbiamo fermato la macchina, come altre volte. Il festival delle Aquile ci attende, colmo di aspettative, ad un giorno di viaggio, ed il freddo degli Altai già si fa sentire in tutta la sua intensità. Il vento gelido che spazzava a raffiche ci ha investito appena scesi, come altre volte.a fianco della strada galoppavano cavalli che si rincorrevano in una mandria di bovini. Il profilo che agilmente si muoveva dietro di loro era di un cavaliere che si lanciava da un lato all'altro sprezzante del vento. Ci ha scorto appena abbiamo rallentato, e con una mossa decisa ha galoppato verso di noi. E' un ragazzo giovane, dal sorriso sincero, così come si rivela una volta vicino, quando inizia a togliersi sciarp e berretto. Si china su di noi, per stringerci la mano, uno ad uno. E, complice del momento, aggiusta la criniera del suo destriero, perché sia una star su una foto. Continua a sorridere, e sembra che il vento gelido interposto tra noi e lui assorba un mondo di parole. Ancora una volta, la nostra comunicazione senza parole passa da un gesto semplice ed un sorriso genuino. Per me questo é l'incontro con i gauchos cui tanto agognavo in Patagonia. Poi, con lo stesso colpo repentino di redini, volta il cavallo e si rilancia al galoppo. Per scomparire da dove era apparso.

 

 

Se questa lingua così inaccessibile e lontana rimane una barriera, nella musica si trasforma in qualcosa di nuovo, un unico canto continuo che risuona nel vuoto del paesaggio. Così é, il corpo, il torace ampio che diventa cassa di risonanza e le corde vocali che vi vibrano toccate nel vivo, senza pausa, senza un respiro. Un unico, ancestrale lamento, come non potesse essere che questo a sopravvivere nella pianura desolante della steppa, nella furia dei cavalli al galoppo, nella rabbia del vento. Dal profondo di dove nasce, accompagnato sallo strofinare sulle corde tese si uno strumento affusolato, penetrano nella notte, quando tutto sembra concluso ed un fuoco quasi sacro é ciò che rimane sotto un tappeto di stelle, e penetrano nell'animo stanco, forse pure leggermente piegato. Questo canto, senza parole, senza respiro, é quella connessione magica e mancante che le parole normali raramente possono creare.

 

 

Quando compaiono all'orizzonte sono una nuvola di sabbia e polvere che lentamente si avvicina. Sono motociclette cariche di una famiglia intera, un uomo ed una donna avvolti in un giaccone rude e pesante, e lo sguardo di un bambino - magari anche due - che sbuca dal manubrio. Arrivano, da un villaggio apparso in lontananza, caricano qualcosa da questo edificio che sulla strada sembra una stazione di posta, magari due cibi dalla scelta scadente, od un oggetto ingombrante per la casa, o chissà che altro, e ripartono in direzione inversa. E' difficile collegare queste immagini con la vita cittadina ed a tratti un po' posh, che si respira ad Ulaanbataar, forse in modo più intenso, dato che sono gli ultimi giorni. Forse é semplicemente uno specchio per le allodole. Perché se é vero che oltre la metà della popolazione vive nella capitale, é anche vero che questa degrada rapidamente nel paesaggio tipico dei villaggi sparsi nella steppa, nelle strade polverose e nelle file di gher alimentate a carbone, recintate da muretti improbabili, e connesse ad un generatore ed una parabola. Il che contribuisce a fare di questa città uno dei luoghi abitati più inquinati del pianeta. Solo, non scompaiono all'orizzonte quelle motociclette comparse da lontano.

 

 

E' difficile tradurre, prima ancora che comprendere, l'anima nomade e lo smisurato senso di libertà che si lega al territorio con questo stile di vita, con quello che - almeno credo - sia la percezione stessa della vita e dell'esistenza, con queste immagini, come se questo fosse un prezzo cercato e voluto per quella stessa libertà, se insomma debba essere necessariamente così, un po' trasandato, abbandonato a delle forze esterne ed incontrollabili, in un mondo di sopravvivenza e difficoltà oggettive. Mi sono chiesto spesso cosa significasse questo nello sguardo di un bambino, nelle possibilità che questi potesse avere, da una tenda smontata e ricostruita nell'arco di ore, dove ogni cosa si svolge entro uno spazio unico del raggio di pochi metri, nella codifica dei rapporti sociali e familiari. Ciononostante, tutti i bambini accedono alle scuole nei villaggi e nei collegi. E' come se tutto fosse consapevole ed ordinato, in un incontro continuo tra modernità e mondo antico. E per questo la povertà che ho osservato non era quella lancinante e sovrastante di altri luoghi che ho attraversato, ma piuttosto una conseguenza consapevole di un modo di vivere, legato certo al terreno ed alla storia, ma al tempo stesso ad uno spirito ed un mondo costruitovi attorno.

 

 

Mi rendo conto di non aver ancora scritto niente. Ogni volto che si fermava a fissarmi attraverso l'obiettivo, un gruppo di bambini sull'uscio di una porta, un uomo a cavallo nella tormenta di neve o lo sguardo fisso di una famiglia sulla motocicletta, il guidatore del pulmino sgangherato, con i suoi occhi iniettati di sangue, o finanche uno di quei cavalieri delle aquile i cui occhi sfidavano quelli del proprio compagno di caccia. Il desserto delle parole é il silenzio che mi separa tra di loro. Ho raccolto il contenitore di latta colmo d'acqua, ho preso una delle mani ora libere della bambina che era scesa al fiume a raccoglierla. In qualche modo, sono riuscito a capire dalla madre il suo nome, che colpevolmente non ricorderò. Ma per un attimo, ho cercato l'illusione di un dialogo silenzioso.
Osservo una ragazza vestita di blu, mentre suona il Morin Khuur. E' molto bella. Ed é un saluto, nel silenzio interrotto solo dalle note. Ogni sguardo mi osserva, in silenzio, o in una lingua che nemmeno mi permette di ricordare facilmente un nome, in un paesaggio infinito, come questo deserto, di centinaia di anni.

 

 

 
 
 

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Post n°738 pubblicato il 17 Dicembre 2017 da enodas

 

 

 

Sono passati anni da quando ho visitato questi mercatini. A distanza, quello che era un ricordo delle luci e della folla di allora impallidisce rispetto a quanto ho trovato. Sono tornato con la gioia di aver passato una bella giornata, dopo essermi inebriato di sapori da provare solo in questi contesti, da una tradizione più forte che mai, e di essere stato bene con la persona che mi è vicino. Ci siamo stretti in una marea di gente, che fin dal mattino affluiva dalla piazza antistante il duomo, e via via abbiamo girato, di piazza in piazza, casetta dopo casetta, fino a giungere sulle rive del Reno, assaporando una coppa di cioccolata calda infusa di liquore. E poi, nuovamente, zigzagando, ho atteso che le luci si accendessero e divenissero via via più luminose, quasi un'autostrada proiettata nell'oscurità, o un abbraccio di calore, a riflettersi su oggetti più o meno improbabili, una pozza d'acqua sulla strada, un canto di Natale. Idealmente, quei sapori salivano ancora più intensi, ed il tempo scorreva, ricordandomi che era ora di tornare verso casa. Colonia, dopo anni, un sabato a ridosso del Natale, quando allora era amarezza ed una ferita di smarrimento. E poco tempo per davvero vivere questi mercatini .Nella mente, queste immagini cambiano. Leggerezza. In un modo o nell'altro, ai vari mercatini di Natale sparsi da qui fino a Parigi, ho legato qualche frammento dell'anima. Forse, al tempo stesso, le bancarelle sono cresciute, e questo evento è cresciuto in popolarità. Io sono contento di esservi tornato.

 

 
 
 

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Post n°737 pubblicato il 13 Dicembre 2017 da enodas

 

 

E' arrivata improvvisa, annunciata da un vento freddo che saliva da non so dove. Non so perché, a me é tornata in mente l'immagine del violinista pazzo. Ogni nota era un fiocco di neve. Che già stava scomparendo quando sono uscito, verso la foresta, gli alberi coperti a metà ed i passaggi avvolti dai rami. E tra uno e l'altro chissà che non ci fosse ancora qualche cristallo che si dissolveva come una lacrima. Allora, sono state le note di un pianoforte a salire, come una goccia continua. Così, altrettanto improvvisa, se ne é andata, scomparsa letteralmente, lasciando dietro di sé scheletri di rami piangenti ed una foresta abbandonata al gelo della notte che si avvicendava e chiamava un nuovo giorno.

 

 

 
 
 

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Post n°736 pubblicato il 10 Dicembre 2017 da enodas

 

 

Non é stata mai molto nelle mie corde Amsterdam. Troppo inflazionata, troppi turisti, troppo facile disorientarsi. Anche se non ne ho mai perso il suo fascino. Forse anche questa é una variazione di quanto i luoghi a portata di mano siano destinati a suscitare meno interesse. Ieri sera però si camminava, lungo i canali, destinazione un pub protratto su un semi-isolotto, tanto piccolo da domandarsi se fosse davvero lì che dovevo andare. E così, ad un certo punto, ho pensato che per una volta trascorrevo questa serata un po' da "Amsterdammer", senza niente che fosse un piccolo pub ed una sequenza di luci e movimenti attorno ai canali. Ho cercato di immaginare questi stessi alla luce del Secolo d'oro, in una Amsterdam di commercianti e navigatori. Quelle luci che vedevo ora sfocavano e quelle stesse strade assumevano un'atmosfera diversa. Ed avrei voluto fermarmi di più, questa volta, prolungare le notte, questo viaggio andata e ritorno, e vivere un po' di più questa città in maniera diversa.

 

 
 
 

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Post n°735 pubblicato il 07 Dicembre 2017 da enodas

 

 

"...Così dite. Aspersi il mio stendardo dalla lunga asta che si vede da lontano, feci rullare il mio tamburo dalla voce sonora, teso, di pelle di bue. Sellai il mio cavallo dalla groppa nera, indossai la corazza cucita di cinghie. Alzai la mia spada con l'elsa, preparai le frecce con le intaccature e sono pronto a combattere a morte contro i Merkit Uduid..."

 

 

Parte Ottava - Il deserto di ghiaccio

 

E' stato il vento, all'inizio. Ogni folata penetrava di più nelle ossa e mi faceva indossare uno strato in più sotto la giacca. E' scesa la neve, saltuariamente. Mentre noi ci dirigevamo verso ovest, verso quei monti Altai che insieme evocavano gelo e leggenda. Poi, é stato il ghiaccio: passi spazzati da strati mobili di neve, un cielo azzurro che nei suoi riflessi appariva quasi crudele, prima di sparire in una tormenta improvvisa. E in questa spazio senza riferimenti, anche l'ombra di un cavallo e del suo cavaliere. Il deserto, la notte, si manifestava in tutta la sua ferocia e mi lasciava immobile all'ingresso di un gelo perenne.

 

 

Nascosti tra la neve rimangono segni tracciati sulla pietra. Caccia, rincorsa, animali. Tutto coperto dalla neve, in una tempesta che diventa ghiaccio. Difficile trovare anche solo un riferimento che guidi lo sguardo o mi protegga dal freddo. Lontano scorgo i riflessi di un lago ghiacciato, cui fa da cornice un paesaggio fiabesco, anch'esso addormentato in questo gelo senza ritorno. Ho vagato così, questi ultimi giorni, cedendo fisicamente ad una stanchezza ed una temperatura fiaccanti, dove il paesaggio era un deserto ancora più crudele ed il tempo spillava attraverso un contagocce congelato.

 

 

Nel mezzo del nulla, come altre volte. Le mandrie di pecore, qualche cavallo, un paio di motociclette ed i cani che abbaiano. Tutto attorno ad una yurta svuotata apposta per noi. Ospitalità senza riserve. Fuori sibila il vento, spazza una pianura circondata da monti che sembrano un po' come quelle dune di sabbia: piccole salite insidiose che si riveleranno senza fine. Ho camminato in direzione opposta, verso quello che era un piccolo lago, riflesso di un cielo alieno che si chiudeva nella sera e luci ghiacciate, alla ricerca di un movimento, uno stormo intero che da quel bianco emergesse, battito d'ali in un luogo incantato dove il tempo non ha più ragione d'essere.

 

 

La yurta appartiene ad una famiglia kazaka. Una di quelle che da ovest, oltre un secolo fa passò i confini in cerca di rifugio e si unì indissolubilmente all'altro versante dei monti Altai, oltre il confine. Cavalieri di un altro mondo, custodi di una tradizione secolare, nella desolazione del gelo, nel silenzio spazzato di neve, i cacciatori di aquile si scoprono in tutta questa loro forza epica, hanno lo sguardo fiero, le mani ruvide che strofinano la neve e, soprattutto, quel battito d'ali che con la stessa autoritaria fierezza sembra voglia sfidare ogni cosa. Come il profilo di un eroe, in lontananza, dentro una sfera di cristallo: ritto, il cavallo che sbuffa - così almeno lo immagino, troppo lontano dalla mia vista - ed il braccio che si alza perché come una protuberanza del corpo l'aquila si possa librare, lo sguardo torvo, feroce, mentre già vola radente, con le ali immobili a veleggiare nel vento, a scrutare il terreno ed aggrapparsi alla preda.

 

 

 
 
 

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Post n°734 pubblicato il 04 Dicembre 2017 da enodas

 

 

"...Vendicatemi e continuate a far vendetta non soltanto fino a che non avrete perduto le unghie delle cinque dita, ma fino a che non avrete più le dita stesse..."

 

 

Parte Settima - Il deserto del Vento

 

Credo sia una delle cose più belle che abbia visto. Ogni tappa, del resto, era programmata per questo momento, ma niente poteva prepararmi allo spettacolo di vederli dal vivo, avvicinarsi al galoppo, con le aquile al braccio che spalancavano le ali, in un'esibizione di orgoglio e potenza, ed al tempo stesso un'ancora stretta alle origini, da quei monti che implacabili tra linee aguzze e venti gelidi dominano il paesaggio. Sono arrivati così, emergendo da una nube di polvere, come eroi epici, come cavalieri terribili o campioni imbattibili. Fieri sui loro cavalli, ed imbardati nelle pellicce strappate a questi luoghi come una conquista vinta su un campo dove in palio è la sopravvivenza, ancora nascondevano lo sguardo truce dalla loro arma vivente che ondeggiava con gli artigli conficcati nel guantone. E' bastato vederli così perché ogni tappa, a priori mi portasse qui, a dispetto del tempo e delle distanze interminabili.

 

 

E' affascinante pensare che esista un legame segreto tra il cacciatore e la sua aquila. Ogni animale, del resto, viene catturato, cresciuto ed addestrato dal cacciatore stesso. E' un legame univoco che dura anni, dieci, quindici, forse anche venti, fino a quando l'uomo lascerà in libertà il suo compagno. E' affascinante immaginare che l'istinto del rapace si metta a servizio del cavaliere, in una terra dove solitudine e convivenza presentano confini molto labili, ed il richiamo dell'uno richiami immediatamente l'attenzione dell'altro. In realtà, la fedeltà dell'animale è legata alla fame, al suo istinto stesso di caccia, alla ricerca di una preda in nome della sopravvivenza: l'occhio truce che individua il movimento sul terreno e l'immagine del becco che affonda nella carne cruda offerta in premio mostrano l'altro volto - il più istintivo e naturale - di questo sodalizio. Ed in qualche modo, questo legame d'acciaio assume i contorni di un patto di sangue.

 

 

Sono salito sulla collina che dominava il campo di gara. Pietre piatte e taglienti scivolavano a tradimento. Da qui, la vista si allargava alla vallata in una vastità che non si poteva apprezzare dal basso. In lontananza, il tempo preannunciava cambiamenti repentini e comunque imprevedibili. Neve, vento gelido, e pure sprazzi di sole. Appollaiati su questi speroni, stavano dispersi i domatori di aquile, con il loro animale aggrappato arcigno sul braccio, e gli occhi oscurati da un cappellino di cuoio. Ad uno ad uno, secondo il turno del cavaliere sul campo di gara, liberavano l'aquila, affidandola al suo istinto famelico ed alla sua fedeltà per il cacciatore. Salire quassù è in qualche modo un punto di vista privilegiato, dove la vertigine del volo e la lungimiranza degli occhi del rapace appaiono evidenti, ma dove anche la competizione assume il suo aspetto più genuino, tra volti segnati dalla natura, mozziconi ardenti di sigari accennati al lato della bocca e battute di scherno incrociate a seconda che l'aquila seguisse il richiamo del cacciatore o meno. Il suo grido soffocava, acuto, disperso nel vento.

 

 

E' un profilo scuro che si perde nel cielo. O, visto dalla vertigine dall'alto, un piumaggio spiegato sul colore di erba bruciata. Irraggiungibile, in ogni caso, tanto da sparire alla vista, ad un certo punto. Poi, qualcosa accade. Un movimento impercettibile sul terreno, un richiamo strozzato in gola. E' un attimo: quel profilo scuro si contrae, improvviso oscura il sole come un battito di ciglia, e scende in verticale perfetta. Volo in picchiata. Apre le ali, rasenta il terreno, la preda davanti a se che cerca una fuga. Le ali sono immobili, ma la planata a pochi centimetri dal terreno sconnesso è maestosa e crudele al tempo stesso. Come un destino che ormai è segnato. Per me il momento più spettacolare è proprio questo, quando a volo radente, l'aquila è dietro al cavaliere, prossima ormai a raggiungerlo. Lo segue, immobile apparentemente, sospesa nell'aria, emergendo dalla polvere sollevata dal cavallo. E' un'immagine potente, feroce ed affascinante che si materializza nell'arco di un istante.

 

 

Due aquile insieme possono catturare una volpe, od un cucciolo di lupo. Attaccano insieme, coordinate dai cacciatori, che si immergono nel paesaggio silenzioso in gruppi di quattro, cinque destrieri. Una battuta di caccia può durare poche ore o giornate intere. La natura rimane incontrollabile. I kazaki raccolgono le aquile da cuccioli e per mesi, anni, forgiano questo legame profondo ed univoco. Siamo seduti al freddo, a distanza di sicurezza del rostro che lega uno di questi animali, ma distanti anche del tepore che appena abbandonata la jurta da insopportabile diventa già rimpianto. A tratti, l'aquila si agita, e prova a spiccare un volo che rimane smorzato dal laccio che la lega a terra. Lo sguardo acuto rimane coperto da un cappellino di cuoio. Non è difficile immaginare perché questo animale sia stato associato tante volte al potere ed all'orgoglio. Sollevarlo, anche per un istante, rende improvvisamente l'idea dia quanto pesi e di quanto enorme sia in realtà, specialmente con le ali aperte. L'allevamento delle aquile è una tradizione che esprime orgoglio e fatica, impossibile da distinguere con il contesto sociale e naturale dove avviene. Ed è una tradizione che discende, di padre in figlio, trasmessa in quell'oracolo non scritto che si trasmette per via sanguinea. Nella libertà che i cacciatori reclamano, è una scelta che l'erede assume, senza forzature, ed è una scelta aperta sia ai figli maschi come alle femmine, specialmente nei tempi moderni, dove la favola dei cavalieri è una storia da raccontare.

 

 

Della vasta terra che è la Mongolia e del mondo che sono le sue genti, quello della minoranza dei cavalieri kazaki è un universo a sé stante. Anche se non reclamano nessuna leggenda di riferimento, la loro figura si perde nella notte dei tempi. Minoranza pacifica, che si spinge sulla zona degli Altai, strettamente legata a queste tradizioni che la rendono unica. La caccia con le aquile ne è l'aspetto più spettacolare ed affascinante. Durante questo festival alle prove dei cacciatori si alternano competizioni di vario tipo, dalla rincorsa della sposa al marito, entrambi lanciati al galoppo mentre una cerca di frustare l'altro, alle competizioni di cammelli che appaiono come veri e propri miraggi in lontananza sulla Via della Seta, fino alle sfide di tiro con l'arco e le prodezze in sella mentre il cavaliere si sbilancia fino a terra a raccogliere una moneta. E poi, c'è la sfida per il montone, una carcassa senza più testa cu cui i cavalieri, a due a due si avventano prima di contenderselo sui loro cavalli.

 

 

A quanto pare, è questa la sfida più che cruenta la più sentita da tutti i locali, il cui supporto diventa improvvisamente da hooligans e non manca il saltar fuori all'improvviso di armi bianche. E' stato un attimo, e riguardando poi con la mente gli attimi concitati, è evidente che oltre l'immagine del festival non si scherza poi tanto, quando si vanno a toccare quelle corde che più attingono alla ruvidezza ed alla fisicità di questa vita, di questa società ancora organizzata in clan e della cultura che la mantiene. E' evidente quando la carcassa, infine viene portata dal vincitore al proprio clan, o quando ancora alla premiazione del miglior cacciatore di aquile gli altri clan si lanciano in una carica improvvisa contro il palco. Non voglio essere crudo, ma anche questa è un'immagine della stessa medaglia, di un luogo e della sua gente, vissuta realizzando a distanza di pochi metri come una carica di guerrieri dovesse essere spaventosa in battaglia. Ed allora, ho visto cavalli tramortiti dai teaser della polizia, o aquile strappate dal braccio di cavalieri che venivano disarcionati a forza. Il festival si è chiuso così, con la sensazione che la normalità fosse questa, aspra come il terreno sul quale si svolgeva, feroce come lo sguardo affamato di sangue dell'aquila sulla sua preda.

 

 

 
 
 
 
 

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