Post n°313 pubblicato il 13 Ottobre 2014 da albatrho.s
Il 3 Agosto dell'anno 1492, sponsorizzato da Isabella regina di Spagna, partiva da Porto Palos una spedizione capeggiata da certo Colombo Cristoforo, genovese d'origine, alla scoperta dell'America. Scopo della spedizione era, per Isabella di impinguare di oro le casse dello stato, per Colombo Cristoforo quello di dimostrare che la Terra era rotonda.
Dopo mesi di navigazione, fra immani perigli, la ciurma cominciò a soffrire di scorbuto e di astinenza. Più aumentava l'astinenza e più i marinai diventavano scorbutici. E minacciarono l'ammutinamento.
Per paura di essere buttato in pasto ai pesci, Colombo Cristoforo si chiuse sotto coperta e non ne uscì se non quando una sera, dall'alto della coffa della nave, un marinaio gridò: "terraaa...terraaa".
Tutto questo accadeva il 12 ottobre 1942 Colombo tornò in Spagna con la nave carica di Pop-Corn, che era il cibo preferito dagli americano. Ma la Regina Isabella, che si aspettava ben altro, lo rispedì in America. Però si tenne il Pop-Corn che andò a vendere nelle sale cinematografiche e negli stadi, guadagnandoci un sacco di soldi.
Dai successivi tre viaggi Colombo Cristoforo portò di tutto: dal cheving-gum ai dischi di Rock and Roll, dagli Hot-Dog agli hamburger, dalla Coca Cola ai Blu-yeans.
La regina d'Olanda, incazzatissima, lo buttò in prigione. Ma rivendette ugualmente tutto quanto il navigatore aveva riportato e divenne miliardaria.
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Secondo gli studiosi, l'anno 1492 segna la fine del Medio Evo e l'inizio dell'Era Moderna.
Il romanzo, un best seller internazionale di grande successo, può essere richiesto direttamente all'Autore; prervio versamente dell'importo dovuto + spese postali.
Edizione limitata: affrettatevi.
in omaggio alla Regina Isabella di Spagna, questo post ha un background color Isabella ( #F4F0EC ) o, secondo la codifica RGB ( 244 240 236 )
La Batracomiomachia ovvero "La guerra dei topi e delle rane", è un poemetto giocoso nel quale si narra una guerra combattuta tra topi e rane. Una guerra scoppiata perchè il re delle rane Gonfiagote persuade Rubabriciole, figlio del re dei topi Rodipane, a montare sulle sue spalle per visitare il lago, assicurandolo che non correrà pericoli. Tuttavia, appare all’improvviso un serpente d’acqua e Gonfiagote, per sfuggirgli, si immerge, facendo così annegare Rubabriciole. La guerra, che dura un sol giorno, scoppia immediatamente, e proprio quando la vittoria sembra ormai dei topi, Zeus scaglia il suo fulmine, e allo stesso tempo i Granchi giunti sul campo di battaglia annientano alcuni topi facendoli a pezzi, altri fuggono in preda al panico. (fonte WikipediA)
Ma è soprattutto un poema che ci leggeva il nostro professore che sapeva renderlo piacevole perchè aggiungeva, alla lettura, la mimica.
Gonfiagote, Rubabriciole, Rodipane, Rubatocchi, Insidiapane, Leccaluomo, Fanghino, Bucatore, Bietolaio, Montapignatte, Mangiapane, Moltivoce, Godipalude, Scavaformaggio, Godilacqua, Mangiaprosciutti, Leccapiatti, Giacinelfango, Mangiaporri, Rubamiche, Fangoso, Vapelfango, Gracidante, Mangiagrano, Saltellone.... e tanti altri valorosi combattenti che se le danno di santa ragione con l'aiuto di Zeus, di Pallade e di Marte, e che potrete incontrare cliccando l'indice dei canti. Buona lettura!
Post n°311 pubblicato il 05 Ottobre 2014 da albatrho.s
La guerra dei topi e delle rane(Canto primo)
Grande impresa disegno, arduo lavoro: O Muse, voi dall’Eliconie cime A me scendete, il vostro aiuto imploro: Datemi vago stil, carme sublime: Antica lite io canto, opre lontane, La Battaglia dei topi e delle rane.
Sulle ginocchia ho le mie carte, or fate Che nota a ogni mortal sia l’opra mia, Che alla più lenta, alla più tarda etate Salva pur giunga, e che di quanto fia Che sulle carte a voi sacrate io scriva, La fama sempre e la memoria viva.
I nati già dal suol vasti giganti, Di que’ topi imitò la razza audace, Da nobil fuoco accesi, ira spiranti Vennero al campo, e se non è mendace Il grido che tuttor va per la terra, Questa l’origin fu di quella guerra.
Un topo un dì, fra’ topi il più ben fatto, Venne d’un lago alla fangosa sponda: Scampato egli era allor da un tristo gatto, E calmava il timor colla fresc’onda: Mentre beveva, un garrulo ranocchio Dalla palude a lui rivolse l’occhio.
Se gli fece dappresso, e a dirgli prese: A che venisti? donde qua? straniero, Di qual nazione sei, di qual paese? Qual è l’origin tua? narrami il vero; Che se dabben ritroverotti e umano, Valicar ti farò questo pantano.
Io guida ti sarò, meco verrai Alle mie terre ed al palazzo mio; Quivi ospitali e ricchi doni avrai, Che Gonfiagote, il gran Signor son io; Ho sullo stagno autorità sovrana, E mi rispetta e venera ogni rana.
La Donna già mi partorì dell’acque, Che, per amor, dell’Eridano in riva Con Fango il mio gran padre un dì si giacque: Ma bel corpo hai tu pur, faccia giuliva, Sembri possente Re, prode guerriero; Su via dimmi chi sei, parla sincero.
Rispose il topo: Amico, e che mai brami? Non v’ha Dio che m’ignori, augello, o uomo, E pur tu vuoi saper come mi chiami? Or bene, Rubabriciole io mi nomo; Il mio buon padre Rodipan si appella, Topo di raro cor, d’anima bella.
Mia madre è Leccamacine, la figlia Del rinomato Re Mangiaprosciutti. Con gioia universal della famiglia Mi partorì dentro una buca, e tutti I più squisiti cibi, e noci, e fichi Furo il mio pasto in que’ bei giorni antichi.
Ma come vuoi che amico tuo diventi, Se di noi sì diversa è la natura? Tu di vagar per l’acqua ti contenti; D’ogni vivanda io fo mia nutritura, Di quanto mangia l’uom gustare ho in uso, Luogo non avvi, ove non ficchi il muso.
Rodo il più bianco pane e il più ben cotto, Che dal suo cesto la mia fame invita, Buoni bocconi di focaccia inghiotto Di granelli di sesamo condita, E fette di prosciutto e fegatelli Con bianca veste ingrassanmi i budelli.
Appena fu compresso il dolce latte, Assaggio il cacio fabbricato appena; Frugo cucine e visito pignatte, E quanto all’uomo apprestasi per cena. È mio qualunque cibo inzuccherato, Che Giove stesso invidia al mio palato.
Non temo delle pugne il fiero aspetto, Ma mi fo innanzi, e al ferro mi presento. Spesso dell’uomo insinuomi nel letto: Benché sì grande, ei non mi dà spavento. Del piè rodergli un dito ho fin l’ardire, Ed ei nol sente, e seguita a dormire.
Due cose io temo, lo sparvier maligno, E il gatto, ch’è per noi sempre in agguato. Misero è ben chi cade in quell’ordigno, Che trappola si chiama; egli è spacciato: Ma il gatto più che mai mi fa paura, Da cui buca non v’ha che sia sicura.
Non mangio ravanelli, o zucche, o biete; Questi cibi non son per il mio dente: E pur nell’acqua voi null’altro avete: Ben volentieri ve ne fo presente. Rise la rana, e disse: Hai molta boria, Ma dal ventre ti vien tutta la gloria.
Hanno i ranocchi ancor leggiadre cose E negli stagni loro e fuor dell’onde. Ciascun di noi sopra le sponde erbose Scherza a sua posta, o nel pantan s’asconde, Ch’alle ranocchie mie dal ciel fu dato Viver nell’acqua e saltellar nel prato.
Se vuoi vedere or quanto il nuoto piaccia, Montami sulla schiena, abbi giudizio, Sta saldo, e al collo gettami le braccia, Onde a cader non abbi a precipizio; Così senz’alcun rischio a casa mia Meco verrai per quest’ignota via.
Sì disse, e tosto gli omeri gli porse; Saltovvi il topo, e colle mani il collo Del ranocchio abbracciò, che via sen corse, E sulle spalle seco trasportollo. Ridea dapprima il sorcio malaccorto, Che si vedeva ancor vicino al porto.
Ma poi che in mezzo del pantan trovossi, E che la riva omai vide lontana, Conobbe il rischio, si pentì, turbossi. Forte co’ piè stringevasi alla rana, Col pianto si dolea, svelleva i crini, Il suo fallo accusava ed i destini.
Pregava i Numi, e in suo soccorso il cielo Chiamava, e già credevasi all’estremo, Tremava tutto, ed avea molle il pelo; Stese la coda in acqua, e come un remo Dietro se la traea, girando l’occhio Ora alla riva opposta, ora al ranocchio.
Pallido disse alfin: Che reo cammino, Che strada è questa mai! quando alla meta, Deh quando arriverem! quel bue divino No così non condusse Europa in Creta, Portandola per mar sopra la schiena, Come ora a casa sua questi mi mena.
Dicea: quand’ecco fuor della sua tana Con alto collo un serpe uscir sull’onda. Il topo inorridì, gelò la rana; Ma questa giù nell’acque si profonda, Fugge il periglio, e il topo sventurato Vittima lascia al suo funesto fato.
Cade sull’acqua, e vòlto sottosopra Il miserel teneramente stride, Col corpo e colle zampe invan s’adopra Per sostenersi a galla; or poi che vide Ch’era già molle, e che il suo proprio pondo Del lago già lo strascinava al fondo:
Co’ calci la fatale onda spingendo, Disse con fioca voce: alfin sei pago, Barbaro Gonfiagote, intendo, intendo I tradimenti tuoi; su questo lago Mi traesti per vincermi sui flutti, Che vano era affrontarmi a piedi asciutti.
Tu mi cedevi in lotta e al corso, e m’hai Qua condotto a morir per nera invidia, Ma dagli Dei giusta mercede avrai, I topi puniran la tua perfidia; Veggo le schiere, veggo l’armi e l’ira, Vendicato sarò. Sì dice, e spira.
Post n°310 pubblicato il 05 Ottobre 2014 da albatrho.s
La guerra dei topi e delle rane(Canto secondo)
Leccapiatti, che allor sedea sul lido, Fu testimonio dell’orrenda scena: Raccapricciò, mise in vederla un grido, Corse a recar la trista nuova, e appena Udito ei fu, che di furor, di sdegno Tutto quanto avvampò de’ topi il regno.
Banditori n’andàr per ogni parte, Che chiamàr tutti a general consiglio. Concorde si levò grido di Marte, Mentre di Rodipan l’estinto figlio Nel mezzo del pantan giacea supino, Né per anco alla ripa era vicino.
Ognun nel giorno appresso di buon’ora Levossi, e a casa andò di Rodipane. Tutti sedean: rizzossi quegli allora, E così prese a dire: Ahi triste rane, Che a me recaro atroce, immenso affanno, A voi tutti però comune è il danno.
Infelice ch’io son! tre figli miei Nel più bel mi rapì morte immatura; Per il ribaldo gatto un ne perdei, Che il rubò mentre uscia da una fessura: La trappola, invenzion dell’uomo scaltro, Che strage fa di noi, men tolse un altro.
Restava il terzo, quel sì accorto e vago, A me sì caro ed alla moglie mia. Da Gonfiagote a naufragar nel lago Questi fu tratto. E che si tarda? or via Usciam contro le rane, armiamci in fretta, Peran tutte, ché giusta è la vendetta.
Poiché si tacque il venerando topo, Fecer plauso gli astanti al suo discorso: Ognuno corse all’armi, e al grande scopo Marte contribuì col suo soccorso, E la persona a render più sicura, Tutti i topi provvide d’armatura.
Con cortecce di fave aperte e rotte Si fero in un momento i stivaletti, Che rose già le avean la scorsa notte: Di canne si formaro i corsaletti; Colla pelle le unirono di un gatto Che scorticato avean da lungo tratto.
Gli scudi fur di quelle ardite schiere Unti coperchi di lucerne antiche: Gusci di noci furo elmi e visiere: Aghi fur lance. Alfin d’aste e loriche Fornita, e d’elmi, e scudi, e ben montata, In campo uscì la spaventosa armata.
Delle ranocchie il popolo si scosse, Poiché n’ebbe novella, e venne in terra. S’unì sul lido, onde cercar qual fosse Pei topi la cagion di quella guerra; Quand’ecco vien Montapignatte il saggio, Figliuolo del guerrier Scavaformaggio.
Fermossi tra la folla, e la cagione Di sua venuta espose in questi accenti: Rane, da parte della mia nazione, De’ topi miei magnanimi e possenti, Qua ne vengo, ove lor piacque inviarmi Nunzio di guerra ad invitarvi all’armi.
Rubabriciole vider coi lor occhi In mezzo al lago, ove lo trasse a morte Gonfiagote il Re vostro. Or tra i ranocchi Chi ha più gagliardo cor, braccio più forte, S’armi tosto, e a pugnar venga con noi: Sì disse il topo, e fe’ ritorno ai suoi.
Fra i ranocchi un tumulto allor si desta, Di Gonfiagote il Rege ognun si duole, Palpita e trema ognun per la sua testa, Niun la sfida de’ topi accettar vuole: Ma della funestissima novella Per consolarli il Re così favella:
Calmate, rane mie, questi timori, Ch’io, come tutti voi, sono innocente; Non date fede ai topi mentitori: Ben so che certo sorcio impertinente, Il navigar di noi d’imitar vago, Gittossi in acqua, e s’affogò nel lago.
Ma nol vidi però quando annegossi, Né la cagione io fui della sua morte. Or se da’ topi contro noi levossi Sì numeroso esercito e sì forte, Armiamoci noi pur; del loro ardire Fra poco in campo li farem pentire.
Udite attentamente il pensier mio. Ben armati porremci sulla riva Tutti là dove ertissimo è il pendìo: Aspetteremo i topi, e quando arriva La loro armata, tutti lor dall’alto Costringerem nell’acqua a fare un salto.
Così senz’alcun rischio in un sol giorno Distruggerem l’esercito nemico, Che dal pantan più non farà ritorno. Orsù dunque badate a quel ch’io dico; L’armi indossiamo, e stiamo allegramente, Che or or ci sbrigherem di quella gente.
Ubbidiscono tutti, e colle foglie Delle malve si fanno le gambiere, Bieta per far corazze ognun raccoglie, Col cavolo ciascun fassi il brocchiere, Con chiocciole ricuopresi la testa, E per servir di lancia un giunco appresta.
Mentre vestita già con fiero volto Sta l’armata sul lido, e i topi attende, Giove allo stuol de’ numi in ciel raccolto Le opposte squadre addita, e a parlar prende: Vedete là quei tanti armati e tanti, Emuli de’ Centauri e de’ Giganti?
Verran presto alle mani. Or chi di voi Per i topi sarà, chi per le rane? Giuro, o Palla, che i topi aiutar vuoi, Che corsi all’are tue dalle lor tane, Usano ai sacrifizi esser presenti, E col naso v’assistono e co’ denti.
Rispose Palla: O padre mio, t’inganni: Perano i topi pur nella tenzone, Mai li soccorrerò, che mille danni Fan ne’ miei tempii e guastan le corone Che i devoti consacrano al mio nume, E suggon l’olio, onde si spegne il lume.
Ma ciò che più mi duole, e che giammai Saprò dimenticare, è che persino Mi rosero il mio manto; io ne filai La sottil trama; egli era bello e fino Ch’io pur l’avea tessuto, ed or mel trovo Inutile e forato, benché nuovo.
Il peggio è poi che ognor mi sta d’intorno Il cucitor, che vuol la sua mercede. Pagar non posso, ed egli tutto il giorno Mi viene appresso, e il suo denar mi chiede. La trama, che già fecimi prestare, Ora né render posso, né pagare.
Ma i lor difetti hanno le rane ancora, E con pena una sera io lo provai. Venia dal campo, e tarda era già l’ora: Stanca per riposar mi coricai, Ma non potei dormir né chiuder gli occhi, Pel gracidar continuo de’ ranocchi.
Vegliar dovei con fiero duol di testa Fino a quel tempo, in cui spunta la luce, Allor che il gallo svegliasi e fa festa. Orsù, nessun di noi si faccia duce De’ combattenti che a pugnar sen vanno, Abbiasi chicchessia vittoria, o danno.
Ferito esser potria da quelle schiere Un nume ancor, se fossevi presente. Meglio è fuggire il rischio, ed a sedere Porci a veder la pugna allegramente. Disse Palla: agli Dei piacque il consiglio, E al campo ognun di lor rivolse il ciglio.
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