Creato da ventovela il 01/08/2005
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Issa

Post n°87 pubblicato il 20 Settembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Il mondo è fatto di dimensioni parallele. Luoghi a cui non apparteniamo, dove la vita segue regole estranee e sconosciute.

Quella sera il padiglione era affollato di macchine. Parcheggiate nel fango. Una costruzione bassa contornata da lucine di natale. L'interno è un vasto androne echeggiante, ci sono lunghe piste di bocce, deserte, circondate da una rete. In fondo lampeggiano luci rosse e blu, delimitando una striscia accalcata di gente in movimento. E' lì che si balla. Un nucleo denso di corpi nel mezzo di un androne enorme e vuoto.

Lì si balla e si beve, tutti intorno a tavoli dalle tovagliette rosa, di carta.  E si mangiano patatine e noccioline in traballanti piatti di plastica. Tutto farebbe supporre prezzi più che ragionevoli, invece un caffé costa 4 euro e una coca cola 5. Ma non importa, c'è chi ha portato tutta la famiglia, bambini compresi. Ce n'è uno addormentato tra una sedia e il grembo di un padre. La moglie incinta balla, in bilico su sandali alti.

Arrivano gruppi di ragazzi impacchettati per il rimorchio. Gel, camicie stirate, camminata sciolta. Una ronda veloce verso il banco, gettando sguardi rapidi sui volti delle ragazze - sono ami gettati nelle acque ondose della folla.

Tutto intorno, abiti da festa. Scarpe coi lustrini. Gonne sfrangiate, pantaloni attillati, top aderenti, chiome lucide. Borsette dai manici corti, tenute sotto l'ascella. Qui la straniera sono io, e tutti lo sanno anche se non sono né bionda né alta. Lo sanno e mi parlano automaticamente in italiano, sforzandosi.

Tutti ballano muovendo i fianchi, roteando il bacino, squotendo le spalle. Tutti sanno le parole delle canzoni più popolari. Tutti sanno riconoscere il ritmo e cambiano i passi di conseguenza. Durante i lenti, la pista si svuota un pochino e chi non ha un partner torna al tavolo. Si srotolano le ronde dei ragazzi verso i tavoli con ragazze.

E' come alle feste delle medie, solo che siamo tutti adulti. La musica rimbomba nella lunga sala vuota. Fuori piove. Le ore passano e il rossetto si scolorisce, il sudore si mischia alla cipria, le ciglia si appesantiscono sotto il mascara, la piega si disfa. E' quasi arrivata l'alba. I piedi indolenziti ci portano fino alla macchina, isolata nel parcheggio di fango. Nel cielo quasi chiaro del mattino viaggio a ritroso verso la mia dimensione, fino al mio letto.

 
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Timone

Post n°86 pubblicato il 15 Settembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

E così avviene che arriva la sera in cui si desidera accoccolarsi da soli e leggere The remains of the day e bersi un brodo di verdura.
Un brodo di verdura, di quelli che ci si diverte a preparare con l'immagine sonora di carote e pomodori e cipolle che si dividono e si inseriscono in una pentola. Il tempo fuori dalle finestre ha vinto: insalata estiva 0, minestra invernale 1. Continuerà così, a vincersi minestre su minestre ed accumulare serate in cui si desidera solo un plaid e un buon libro.

Vince la pioggia e vince il vento. Vincono le vibrazioni lente degli alberi contro l'aria umida. Vincono le chiocciole arrampicate sui pomodori, vincono le pozzanghere ticchettanti, vincono i nastri di pneumatici schizzanti, vincono ombrelli e cappucci e scarpe chiuse.

E' andata. Mi sono arresa. Resistenza inutile. Prima o poi sarebbe successo, ed è successo oggi, così, senza preavviso. Ci sono cose a cui non si può porre rimedio. Arriva anche il post che ha lo stesso spirito dei pensierini delle elementari sui cambi di stagione. Tutto alla fine comincia da lì. Forse il nostro imprinting letterario è così intriso di racconti di stagioni che non possiamo farne a meno. E' arrivato l'autunno.

Poi mi ci abituo, suppongo. Mi tornano in mente galosce e cappelli di plastica e salti nel fango. Sarà divertente, credo. Solo, vorrei fosse molto, molto più breve...

 
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Old rope

Post n°85 pubblicato il 05 Settembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

C'è questo odore di caffé sulla mia scrivania, da qualche giorno. E' un pugno di miscela, asciutta, raccolto in una tazza gialla. Profuma la stanza.

Il profumo di caffé mi ricorda i viaggi. Perché col caffé non ci sono cresciuta, io. Era una cosa estranea, un profumo quasi proibito. Anche ora il caffé non è quotidiano. Non posseggo neppure una moka.

Così annuso questo odore scuro, caldo, che sa di inverno, che sa di hotel e stazioni. C'è il ricordo di una mattina fredda, in un mercatino dell'usato, a berlino. Una tazza di caffé e del pane. L'aria penetrava sotto gli abiti e il caffé penetrava dentro di me, scaldandomi fino a farmi sorridere.
E c'è il ricordo di una notte passata ad aspettare il mattino, in un aeroporto lontano e vuoto, dove il profumo di caffé viaggiava llungo gli enormi corridoi coperti di moquette rossa e lungo le vetrine dei negozi di regali, dentro le spaziose sale punteggiate di panche e tv col telegiornale.

Ora il caffé è una polvere nera in questa tazza gialla che mi hanno regalato - ed ha l'odore di tutto ciò che è buono e che fa bene al cuore.

 
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Meridiani

Post n°84 pubblicato il 01 Settembre 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Io non ho amici, dice, li ho tagliati fuori tutti. Sono solo. Amo questa mia solitudine, il mio silenzio. Immagina, allora, la mia sofferenza al lavoro, dove tutti mi fanno domande, e devo esserci a rispondere, nel caos di così tanta gente.
L
ui parla e da lui le parole si allontanano come acqua dal letto di un fiume in piena. Si allargano e riempiono la stanza e ogni muro assorbe il suono, i mobili, le stoffe, le tazzine di caffé, le finestre e le zanzariere. Tutto si riempie di parole. La distanza tra di noi si riempie di parole. Lui le ha conservate per dirmele e le parole formano ponti e piani, strade, sentieri, radure. Escono dalle parti remote del cuore, diventano fiato, si modulano nelle corde vocali, si modellano nella bocca, diventano consonanti e vocali, si appoggiano nell'aria che le fa danzare - tutte le cose nascoste e care, che c'è paura di sciupare.

Nel pomeriggio che diventava sera anche la luce affievolita era piena di parole.

 
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Costa a dritta

Post n°83 pubblicato il 28 Agosto 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Sulla nave il tempo passa a onde e a battiti d'ala di gabbiano. Un paio ci accompagnavano e non piegavano nemmeno l'ala, paralleli alla nostra traiettoria, sospesi senza fare fatica a qualche metro di distanza, nel bel mezzo del cielo, immobili nell'aria in movimento. Chissà cosa pensa, un gabbiano, affiancato al ponte di dritta di questa larga balena bianca, rumorosa e affannosa, che sparge rifiuti, che emette suoni striduli.

Anche la nave è sospesa, sulla sottile pellicola dell'acqua, sospesa dalle mani di strane leggi di gravità e densità, che permettono ad un cuneo di metallo di starsene leggero come una conchiglia sulle falde mobili del mare. Siamo pieni d'aria, per questo galleggiamo. L'aria ci permea lo sguardo e ci dipinge paesaggi a tinte pastello: il nostro confine del mare sono striscie di terra opache, e frammenti di scoglio, ripidi, una terra calda e calpestata e fumante di case e di persone.

Il vento passa dita finissime tra i capelli, passa umido sul volto e soffia nelle orecchie. Dal ponte, il mondo mi abbraccia poco alla volta: avanzo a miglia marittime verso gli eventi. Io sono tra le mani del vento che mi investe e del dondolio della nave, sospesa anche io, piena d'aria anche io, sorpresa dalla calma del movimento, sempre avanti.

L'isola aspetta a braccia aperte, braccia di cemento e frangiflutti, dove stanno statue di santi propiziatori, gabbiani, uomini. L'isola aspetta e batte un cuore di luci sparse e di case e giardini.

La vita che prende una pausa e mi sorride.

 
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Sottocoperta

Post n°82 pubblicato il 28 Agosto 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Mi piace la luce della mia stanza. Mi piace vederla dall'altro lato del corridoio, vedere un colore caldo che mi consola. La sera ci sono mille stanchezze intorno agli occhi e attorcigliate alle caviglie. Qui mi riposo. Il mio letto ha la mia forma, i mobili sono coperti di oggetti familiari. Li sposto e li sistemo. Oppure li lascio in disordine, per il piacere momentaneo di fregarmene di tutto.

Mi piace sentire il mio odore sul cuscino quando mi addormento, l'odore del mio shampoo, della mia pelle. Mi piace sentire l'aria fredda dalla mia finestra quando dormo e guardare il cielo prima di chiudere gli occhi. Non molto cielo, solo una frazione angolosa, il limite della geometria della mia casa.

Mi piace sentire il mio tappeto sotto i piedi quando mi sveglio e trovarci tutti i libri sparsi, riassettare tutto al mattino, e aprire o chiudere le tende.

Io vivo e faccio scelte, ho obiettivi, desideri, incontro persone, amo, litigo, parlo, lavoro.
In mezzo alle cose importanti della mia vita, a volte una cosa diminutiva come la mia stanza ha un ruolo così stranamente principale.

 
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Deriva

Post n°81 pubblicato il 09 Agosto 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Sulla panchina. E' il letto che sceglie la notte, nel parco vicino alla sala civica. L'ho visto la prima volta un giorno che aspettavo qui degli amici. Aveva cominciato a piovere ed ero corsa in macchina, ma lui era rimasto fuori, con le sue stampelle, sotto l'acqua. Non era andato verso nessuna casa, era rimasto a girovagare incerto tra gli alberi e il marciapiede, gli abiti solo lievemente dimessi.

"Si è bevuto tutto. Ha venduto la casa dei suoi genitori, quando sono morti, e i soldi li ha un po' regalati, un po' prestati, quasi tutti bevuti. Ora c'ha ancora fratelli e sorelle, ma non lo prendono in casa. Sta qui al parco." Mi dice con gli occhi neri, grandi, che nascondono una generosità ruvida come le sue prese in giro. Se lo porta a casa sua, quando piove, quando fa freddo, perché era un vicino di casa e il vecchio è come uno zio per lui.

Per fargli cambiare i pantaloni, ormai veramente sporchi, glieli ha tagliati. Il vecchio me lo racconta con un'espressione vaga, assente, impastata di alcol. Lui cammina a stento e trema. Gli occhi sono rossi, colore del vino. Non vive senza. Gli è entrato nel sangue e ormai se non beve gli manca il respiro.

"Un litro al giorno. Glielo porto io. E una bottiglia di aranciata. Dopo il lavoro vengo qui, al parco, tanto, che mi frega, sto qui un po' con lui che al comune sono dei bastardi e la casa non gliela danno. La danno a tutti, ma lui lo vogliono mandare in un istituto, la casa non gliela danno mica. Io c'ho provato a tenerlo a casa mia, ma si faceva tutto addosso, beveva come un ciuco, non l'ho tenuto più di un mese. Non si poteva, impazzivo. Alle mie condizioni lui non ci rimane: gli ho detto, due bicchieri a pranzo, due bicchieri a cena. E basta. Ma a lui non basta."

Così mangia i panini che il comune gli lascia oltre il bordo del recinto del municipio. In un sacchetto, panini arabi. Poi il parco diventa il ritrovo di certi ragazzi che bevono varie bottiglie di birra e quando diventano allegri cominciano a dare fastidio al vecchio. E' la vita del parco. Verso sera i ragazzi con le bici stanno già mettendo le birre in fresco nella fontanella. Due cani senza collare abbaiano con la stessa foga a chiunque passi. Vigili urbani, signore col passeggino, vecchi tirati a lucido con mogli ingioiellate.

Sulla panchina il sole filtra sereno, si imbeve di foglie e di chiacchiere smussate. Leggo e le pagine del libro mi cadono dalle mani, ascolto storie di un clochard di paese, che nel paese c'è nato e che forse morirà nel parco a fianco alla sala civica. Contornato dalla stessa mandria umana che l'ha visto andare a scuola e che conosce date di morti e di nascite di tutte le sue generazioni. Al paese è conosciuto da tutti, tranne da me che sono nuova. E lui il paese lo conosce tutto, conosce muri e vicoli e angoli per sedersi. La vita poco avventurosa di un senzatetto locale che ha perso ogni cosa per essersi perso in un bicchiere.

Arriva la sera e il sole ha smesso di scaldare. Io tornerò nel mio letto di lenzuola pulite, questa notte. Lui rimarrà qui a tenere compagnia a grilli e formiche. Rimarrà qui con una bottiglia di vino che gli porta quel suo ex vicino di casa, quello che se lo porta a casa quando piove o fa troppo freddo, quello che va al comune a litigare perché gli diano una sistemazione, quello che viene tutti i giorni qui al parco per vedere come sta, quello che a volte lo lava nella fontana della piazza, quello che lo prende in giro chiamandolo col nome di un vino, che lo abbraccia buttandogli addosso manate goliardiche.

"Dai! Lambrusco! Vieni qui, dai! Cambiati quei pantaloni!" Il vecchio guarda il sentiero, il ragazzo si avvicina gesticolando.

 
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Porto

Post n°80 pubblicato il 05 Agosto 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Mio padre porta una borsa pesante dovunque vada. Prima era un borsello. Quelli mitici, le pre-borse maschili, da ferroviere. Aveva anche un vestito blu carta da zucchero, e spesso lo scambiavano per un bigliettaio. Gli chiedevano gli orari dei treni, e siccome a mio padre piace essere informato, nel borsello aveva veramente un libretto con gli orari, e dava informazioni, sorridendo tra sé e sé.

Mio padre si porta dietro un sacco di libri. Per quando sta seduto sui mezzi. Atlanti, romanzi gialli, manualetti di lingue. La sua borsa pesa sempre un po' di più di quanto ci si aspetterebbe che lui possa sopportare. Perché mio padre non é alto, non è panciuto, non ha le spalle larghe. E cammina sicuro nei suoi percorsi, un piede davanti all'altro, attraverso i corridoi del metrò e su per le salite che dalla stazione portano a casa. Mio padre sta seduto sulle panchine alle pensiline delle stazioni, due, tre per viaggio. Molti scambi, troppi per i miei gusti, tra il paese e la città. Treno, treno, metrò, autobus. E su tutti i treni e in tutti i tunnel cittadini, mio padre non sa cosa vuol dire rifiutare una moneta ad un mendicante.

Poi, quando arriva a destinazione, mio padre studia documenti, si siede e scorre tra microfilm di annali di anagrafi o parrocchie: morti, matrimoni, nascite, sempre più in su verso i nomi di antenati. Decifra calligrafie scolorite di prete di campagna, trasformazioni in latino dei nomi, errori di grammatica. Cerca di indovinare la differenza tra 3 e 8, nelle date, o tra 5 e 6. Il pennino graffiava la carta e mio padre è l'unico che se ne interessa, dopo decenni. Dopo secoli, perfino.

La passione di mio padre sarebbe stata fare il bibliotecario, invece ha fatto l’insegnante. Lui sarebbe stato felice di riposare, la testa nell'ombra di scaffali, a catalogare volumi. Lo fa comunque anche a casa: i libri sono sistemati per argomento, oppure per lingua, oppure per utilizzo. Lo si vede, nei sabati liberi, a risistemare mensole e a ridisegnare l'ordine. E le videocassette di casa si possono rintracciare attraverso indici incrociati per genere, nazionalità, attori principali, e alfabetico. Ormai è tutto su excel, prima c'erano quaderni scritti a mano. Ogni titolo, un numero.

Gli anni passano e la borsa di mio padre, anziché diminuire, aumenta. Diventa sempre più sproporzionata: da borsello diventò borsa che diventò ventiquattro ore con bretella. Ora la cerca sempre più capiente. Chissà cosa ci trasporta. Quando la solleviamo, la sua borsa ci sorprende sempre per il peso. Aleggia il mistero. Forse tutto quello che sa che non dovrebbe mangiare – cioccolatini, panini con la maionese, bustine di caffè liofilizzato. I suoi piccoli segreti.

Un giorno, quando vivevo molto lontano da qui, vidi per strada un uomo con una borsa a tracolla. Mi sembrò mio padre - quell'andatura dritta e sottile, quell'inclinazione da un lato, per il peso - e piansi.

 
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Deriva

Post n°79 pubblicato il 04 Agosto 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Perché è una cosa difficile da digerire. Ed è così difficile parlarne, perché è tanto luogo comune che ormai fa parte di un gergo quasi leggero: i bambini che muoiono. Lo sentivi quando si trattava di mangiare tutta la minestra: mangia, che in africa i bambini muoiono di fame. Ti veniva in mente quando, a ripensarci, era così ridicolo che in virtù di bambini che muoiono di fame bisognava per dovere diventare grassi.

Allora il concetto si è scolorito, ha perso il suo risuonare terribile, enorme. E c'è il fatto che la morte organizzata da un fighissimo aeroplano da guerra ha molto meno sapore di carneficina di quella operata da uno che si fa saltare in aria in un mercato affollato.

Ci sono strade che vivono sotto aeroplani. Ci sono piloti che controllano levette e guardano il paesaggio sotto come si guarda la finzione di un videogioco. Gli obiettivi sono rettangoli gialli che fanno beep. Non c'è nessuna faccia, non si vedono manine, non si sente nessun grido. Non c'è sangue, solo una minuscola nuvola di polvere in un paesaggio così tanto più vasto, che quella nuvoletta pare niente. Là, da una parte, c'è il mare. Dall'altra, le montagne. In mezzo, casette che sembrano ghiaia irregolare, attaccate con arroganza ad una terra grigia. Dentro, pare non ci sia nulla. Nessuna vita. Da lassù non si sente nessuna voce smettere di chiamare.

Io, quando ero bambina, volevo fare la ballerina e correvo per tutte le stanze facendo piroette. Pensavo agli aeroplani e che le mie ciabattine usate fossero magiche. Leggevo favole. Credevo che vent'anni fossero un'età adulta. Da bambina piangevo quando la mamma era assente per più di un giorno, e come mi mancavano i suoi richiami! E volevo imparare a cucinare, e lavavo i piatti in piedi su uno sgabello.

Anche io ho avuto in me tutte le cose innocenti e tutte le cose buone. Ero una bambina. E' strano, se ci penso, che ogni uomo e donna è stato piccolo ed innocente. Cosa va storto, dopo, cosa deforma il cuore, cosa rende capace di schiacciare la vita con un dito, come si cancellano i formicai, come si schiacciano gli insetti?

E perché parlarne fa male all'anima, e non parlarne ferirebbe ancora più profondamente? Perché non posso fare nulla, e posso solo chiudere gli occhi, e tenere dentro un pianto asciutto - e perché col pensiero mi aggrappo ad una soglia lontana per non capire tutto l'orrore, per non sentirmene sopraffatta..

 
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A tribordo

Post n°78 pubblicato il 29 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Aspetto il vento come un bambino aspetta la madre. Lo aspetto affacciata alla finestra, a cercarlo quanto più lontano arrivo a guardare. Lo aspetto mentre scrivo, con uno sguardo al lavoro ed uno alle nuvole bianche.

Aspetto che torni, dall'altra parte dei monti, che mi prenda per mano, che chiuda le mie palpebre la sera, che mi circondi di fresco la notte, aspetto che frughi tra le fronde e che scuota la polvere dai davanzali, che attiri a sé le tende e faccia baciare vetri e stipiti.

Aspetto.

 
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Vento di ponente

Post n°77 pubblicato il 28 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

C'è qualcosa, nella campagna, che riempie, che disseta.
Un viaggio di molti chilometri e di molta stanchezza si rinfrancava sulle colline coperte di vigneti e si accucciava in un angolo d'erba, a buttare via tutta l'aria accaldata e riprenderne di nuova. Che il sentiero su per i colli era un percorso di odori buoni, di terra calda e secca, di aghi d'abete e bacche di ginepro e cipressi.

E la gobba della salita entrava nel bosco, dove le cicale vibravano le ali, le gazze riempivano a battiti lo spazio tra fronda e fronda. E i ciuffi di erba cavallina e di agrifoglio erano casa di lucertole veloci, di lepri.

Poi, dall'alto del crinale, uno spostare di rami, pesante, rapido, un battere di zoccoli tra le erbe del sottobosco. Improvvisamente sul sentiero due cerbiatti, un'apparizione fugace, la visione di due corpi snelli galoppare sicuri giù, per la sterpaglia, dove il nostro passo si fa lento, a cercare un varco tra i cespugli.

Così il petto si gonfiava, intento ad abbracciare ogni attimo di quella quiete tonda, sicura come il grembo di una madre. E ci si sentiva grati per quella breve intimità con la collina, quel suo svelarsi come scostando un velo, percorrendo lo spazio immane che divide lo stridere della strada battuta dall'asfalto e il sentieri segreti tra i rami.

 
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Parabordo

Post n°76 pubblicato il 25 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Quando ero piccola ero innamorata di Gene Kelly, perché ballava e cantava sotto la pioggia. E sorrideva.

Lui, dopo averla accompagnata, torna verso casa a piedi, ed è così felice - perché la ama, perché lei ama lui - che la pioggia non gli da fastidio. Ne è contento invece, salta nelle pozzanghere e fa le piroette intorno ad un lampione. Soprattutto, si fa scrosciare addosso tutto il getto della grondaia, ed è sempre più felice.

Questa scena è la regina di tutte le scene di tutti i film. Nella mia immaginazione bambina vedevo in lui la vita positiva, l'amore felice, la contentezza delle piccole cose.

Poi la vita mette di fronte all'amore che fa piangere, che schiaccia in una tristezza senza confine, l'amore disperato, l'amore che rende deboli, che riempie di insicurezza. L'amore che si nutre di infelicità. E si pensa di potersi accontentare di amare così, piuttosto che non amare affatto.

Poi torna l'immagine di Gene Kelly e capisco che sono tutte scuse. L'amore deve essere felice. Si deve ballare, e cantare, sotto la pioggia.

 
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Boma

Post n°75 pubblicato il 21 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Ho riletto il post di qualche giorno fa, sulla vista, e devo tornare su alcune riflessioni.

Ho scritto che se i 35.000 morti li vedessimo forse la nostra percezione della guerra sarebbe più emotiva.
Più ci penso e più questa cosa non mi convince del tutto. Ho capito invece che ci sono morti e morti. Che un morto americano ha per noi un valore del tutto diverso che un morto di beirut. E questo per due ragioni.

La prima, è che ci sentiamo toccati da quello in cui ci rispecchiamo. Un attentato a una città occidentale, che in qualche modo assomiglia alle nostre ci fa tremare perché ci idenfitichiamo nell'impiegato che va in ufficio in metropolitana. La scenografia è dannatamente simile a quella che vediamo noi tutti i giorni. Ci sentiamo emotivamente coinvolti perché comprendiamo quanto facilmente avremmo potuto esserci noi al loro posto.

La seconda, è l'abitudine. I paesi arabi li abbiamo visti bombardati da sempre. Io quando ero piccola credevo che di palazzi interi a Beirut non ce ne fossero proprio (perché quando ero piccola io a Beirut c'era un altra guerra), che un palazzo intero non fosse proprio concepito nell'architettura del luogo. Immaginavo quei posti come se fossero normalmente impolverati e bucherellati. Forse una città araba non l'ho mai vista in un telefilm o un film, tutta sana, scintillante. L'ho solo vista nelle riprese di un operatore di tg, ragazzini che tiravano pietre, uomini che tenevano bare in alto, sulle braccia tese. Scene che non mi procurano più meraviglia. 

Quindi l'abitudine attutisce il terrore. C'è gente che ai raid aerei ci ha fatto l'abitudine e non corre più via disperata, sotto shock. Quanto tutto questo dovrebbe farci ancora più tremare! - che ci siano persone abituate alla guerra, abituate alla fame.
Invece niente. Impassibili, mediamente turbati, pronti a passare ad altro argomento di conversazione.

 
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Bava di vento

Post n°74 pubblicato il 20 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Le stanze sono piccoli forni di terracotta, dove la frutta appassisce, l'acqua si scalda nei bicchieri. Dalla strada, il solito rumore stridente di velocità metalliche.
Mi rifugio in un angolo, dove respira una macchina che produce il freddo. Una macchina che risucchia il caldo e lo convoglia in un secchio d'acqua sul balcone.

Poi, il desiderio di sentire l'odore buono della terra. E' una malinconia acuta, che mi divide. Un richiamo verso tutto ciò che è piano, tutto ciò che respira e si lascia spostare dal vento. Vorrei la leggerezza degli insetti, il ronziò intermittente dei prati, l'ombra tiepida dei faggi.

La stanza, coi suoi angoli acuti, con le sue superfici lisce, le sue luci addomesticate, filtrate, le sue tende e le sue righe di sole, mi chiude lo sguardo, il petto, le mani.

 
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Tutto a dritta

Post n°73 pubblicato il 19 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Per essere una civiltà evoluta continuiamo ad essere legati alla vista come i bambini piccoli.
Mio cugino, a un anno, si disperava se sua madre non era nella stessa stanza,  perché non la vedeva più e per lui voleva dire che non c'era proprio.

All'attentato sulle Torri Gemelle sono morti circa 2.700 persone. Ma li abbiamo visti morire. Soprattutto, abbiamo visto morire quelli che saltavano dalle finestre, abbiamo visto i fermo immagine dei corpi che si buttavano nel vuoto. Io quel giorno lo ricordo, piangevo.

In Iraq sono morti circa 35.000 civili. Donne, bambini, uomini che non c'entrano nulla con la guerra. Solo che non li abbiamo visti, e sono certa che mai li vedremo. Se non si vedono, non ci sono. Sono numeri casuali, che non fanno quasi nemmeno effetto.
Li avessimo visti, invece - avessimo visto le bombe cadere, magari al rallenty, e la gente gridare nel fuoco. Avessimo visto i bambini schiacciati sotto le macerie. Avessimo queste immagini quotidiane, come sono quotidiane le loro morti.

Invece non abbiamo visto niente. 35.000 morti, una cifra che sfiora l'intelletto, che fa vagamente immaginare la magnitudine degli eventi, ma non tange l'emozione.

Ora, chissà cosa succede in Libano. Non lo vedremo, probabilmente, e perciò anche questa guerra sarà relegata alle nozioni che non suscitano pianto.

I telegiornali convogliano le immagini giuste e suscitano in noi le reazioni volute: un aereo e una torre è indelebilmente inciso nella memoria di tutti. Ci fa ancora venire i brividi. Un aereo e una bomba molto meno. Un carroarmato e una popolazione civile che muore, quasi per niente.

Perché se non lo vediamo, non esiste.

 
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Zavorra

Post n°72 pubblicato il 18 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

anche questa volta
c'è nelle nuvole quella recensione
di caldo,
quel distillato di cene a picco
per il calare della notte,
verso una liquefazione di pensieri,
pinne da regalare al giorno

per farsi strada
tra l'apnea di vita
e tutto il resto.

 
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Traversata solitaria

Post n°71 pubblicato il 17 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

Non so se ho capito cosa non funziona. Ma credo di avere capito cosa mi preme dentro.

Sono infinitamente sola, e non so accettarlo.
Ma quella della solitudine forse è la cosa più diffusa che c’è. Forse infinitamente soli lo siamo tutti – e questo porrebbe davanti ad un bel paradosso, perché se tutti siamo soli, siamo tutti insieme nella solitudine. Stesso insieme umano di singolarità.

Oppure non siamo tutti soli, sono solo io ad esserlo. L’unica solitaria in tutto il pianeta. Questo a prescindere dalle persone con cui trascorro una serata. O forse proprio a causa delle persone con cui si trascorro una serata. Sono sola e non c’è rimedio.

Forse tutto il mondo è una connessione fitta di reti, ed io ne sto all’esterno. Forse c’è una comunicazione diversa, che non conosco. Un richiamo a ultrasuoni, come quello dei delfini, per riconoscersi tra simili. Ed io, che non ho simili, rimango a guardare senza capire.

 
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Sfioccare

Post n°70 pubblicato il 14 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

L'erba ha così poco da fare
una sfera di semplice verde
con solo farfalle da meditare
e api da intrattenere

e dondolarsi di giorno su motivi gradevoli
che portano brezze passeggiere
e tenere il sole nel proprio grembo
e inchinarsi a tutto

e infilare la rugiada, di notte, come perle
e farsi così fine
che una duchessa sarebbe troppo comune
per essere degna di un cenno

e persino quando muore - passare
in odori così divini
come spezie umili, messe a dormire
o nardo, nel perire

e poi dimorare in fienili sovrani
e sognare mentre gli altri passano
l'erba ha così poco da fare
mi piacerebbe essere il fieno

- Emily Dickinson

 
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Scocca

Post n°69 pubblicato il 13 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

C'è quello che dice il vento quando sorpassa le tegole e le antenne. E quello che raccontano le strade alle suole dei passanti. O le voci dei lampioni di autostrada, che disegnano la notte a vampate di luce - hanno voci stridenti, ad angoli acuti, parlano di storie troppo veloci ed occhi troppo frettolosi.

Ci sono le mura della mia stanza, che ascoltano tutti i miei pianti e i miei silenzi, che registrano ogni sospiro. Sospesi tra la chimica del colore delle pareti, stanno i frammenti delle mie lacrime, il veleggiare delle mie risate. Cosa racconteranno di me le pagine che ho toccato, le mie lenzuola, la forma delle mie scarpe, le forcine dei miei capelli?

 
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Timone 2

Post n°68 pubblicato il 10 Luglio 2006 da ventovela
Foto di ventovela

La festa si slarga come una parata di circo, il clown ride troppo, la folla è una massa pressante di solitudine, una pietra di alienazione che pesa sulla fronte. Mi allontano dalla scena come se tutto si svolgesse dietro una pellicola.

C'è il cielo rosso, ci sono le bandiere, i tamburi, ci sono migliaia di gole che intonano lo stesso canto. La maggior parte della gente è insicura sul testo dell'inno nazionale. Va bene lo stesso, si grida "sì" alla fine, a pieno petto. E non sono sicura di essere pronta alla morte. Francamente non so se sono pronta alla vita. Ma è un filosofeggiare fuori luogo. La festa che all'inizio è di tutti - bambini e vecchi e mamme e giovani - si uniforma in petti senza maglietta e "francesi di merda", quell'intossicante supremazia per un pallone che ha preso una traversa. Il batticuore dell'incertezza ha lasciato spazio ad una gioia larga, superficiale. Adesso non si può tornare a casa a dormire perché questa sera ce la dovremo ricordare per il resto della vita, questa notte che abbiamo vinto i mondiali e che abbiamo gridato Seven Nation Army così tante volte che non sappiamo più smettere.

Alla fine l'ebrezza della vittoria è come una droga sparsa a manciate alle menti più disparate: si accende tutto quello che è dormiente: dalla voglia di ballare sulle auto alla voglia di bruciare i cassonetti, a quella di insultare un volto nordafricano o marciare a braccio teso. E' tutto alla deriva, si rovesciano tavolini da bar e si balla sul terriccio delle piante divelte. Ci si bagna con l'acqua di un idrante. La risata diventa una tosse, un conato. La danza è grottesca come una parata di carnevale.

Ed io sono sola, incommensurabilmente sola e persa, tutto il mondo abita al di fuori del mio petto. In ogni angolo di me ci sono solo io, nessuno che mi guardi negli occhi e sappia quel che io so, quello che in me si muove. Gli amici della festa si perdono ognuno nella propria solitudine sventolante. Ci si aggrappa ai sorrisi che stancano le mascelle per fare finta di essere felici.

L'allegria è un sentimento grandemente sopravvalutato.

 
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