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amore generico o individuale: apparire o essere?

Post n°39 pubblicato il 07 Febbraio 2010 da m_de_pasquale
 
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Mi ha colpito una espressione che una ragazza - all’interno di un lavoro di approfondimento a scuola - ha usato riflettendo sulla relazione tra amore e pudore: “Nella società di oggi, purtroppo, si è totalmente persa ogni forma di riservatezza; non c’è pudore: mi viene limitata una libertà che per me è fondamentale”. L’intelligente ragazza, mettendo in gioco la libertà, prospetta un’idea di pudore che non si appiattisce sui centimetri di abbigliamento da indossare, su quanti pezzi di corpo devono mostrarsi, sulla convenienza o meno dell’effusioni pubbliche. Intuisce che il pudore ha a che fare con la difesa della propria soggettività e quindi della propria libertà. Il pudore rappresenta una barriera che difende l’individuo dall’angoscia di naufragare in una sessualità generica. Schopenhauer ci ha insegnato a distinguere una soggettività della specie da una soggettività dell’io: mentre la prima cerca il piacere che è funzionale all’atto sessuale costringendoci, così, a perpetuare la specie, la seconda cerca l’individuo nella sua singolarità inconfondibile. Quindi più che limitare la sessualità, il pudore ha  la funzione di individuarla, sottraendola alla genericità del piacere che fa passare in second’ordine l’individuo. Se spetta a noi la decisione di aprire o chiudere nei confronti dell’altro, se noi neghiamo all’estraneo quello che concediamo a chi si vuol fare entrare nel proprio intimo, è giusto considerare il pudore che difende la nostra intimità, un baluardo a difesa della nostra libertà . Dice Sartre: “La vergogna non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma, in generale, di essere un oggetto, cioè di riconoscerrni in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che io sono per altri. La vergogna è il sentimento della caduta originale, non del fatto che abbia commesso questo o quell’errore, ma semplicemente del fatto che sono “caduto” nel mondo, in mezzo alle cose, e che ho bisogno della mediazione d’altri per essere ciò che sono. Il pudore, e in particolare il timore di essere sorpreso in stato di nudità, non sono che specificazioni simboliche della vergogna originale: il corpo simbolizza qui la nostra oggettività senza difesa. Vestirsi significa dissimulare la propria oggettività, reclamare il diritto di vedere senza essere visto, cioè d’essere puro soggetto. Per questo il simbolo biblico della caduta, dopo il peccato originale, è il fatto che Adamo ed Eva ‘capiscono di essere nudi’ ”. Quindi il pudore difende la nostra soggettività, non vuole svelare la nostra intimità per intero per non dissolvere il mistero che, se interamente svelato, estinguerebbe non solo la fonte della fascinazione, ma anche il recinto della nostra identità che a quel punto non sarebbe più disponibile neanche per noi. Eppure la nostra società consumista e conformista punta sempre più a distruggere la parete che distingue l’esteriorità dall’interiorità. Se la logica del consumo riduce anche gli uomini a merce, questi per essere considerati (venduti) devono essere esposti (come le merci in vetrina), pubblicizzati. Siamo solo se appariamo. Le istanze del conformismo lavorano per portare alla luce ogni segreto; l’omologazione degli individui, fin nell’intimità dei loro vissuti, è funzionale alla riduzione degli uomini a merce, motore della società del consumo. Insomma ciò che è in gioco è la nostra individualità, quel “se stesso” che costituisce il nostro nucleo più profondo dal quale dipende la nostra identità. Chiarisce Galimberti che viene messa in gioco la trascendenza dell’individuo: “L’apparato tecnico, per le sue esigenze di funzionalità, che sono poi le condizioni della sua esistenza, necessita non solo dell’esposizione dell’anima, con conseguente sua omologazione, ma anche della sua depsicologizzazione, in modo da risolvere quella trascendenza interna che non è solo l’inconscio che fa la differenza tra individuo e individuo, ma lo stesso principio d’individuazione, che ha la sua radice in quel fatto ontologico per cui ogni uomo è per principio un discretum, un che di separato, come riserva di significati propri che resistono all’omologazione. […] L’individuazione, che ha nella trascendenza interna la sua radice, è un ostacolo all’esigenza totalitaria implicita nella tecnica, non per ragioni di potere, ma per ragioni di funzionalità. Guardando il mondo dal punto di vista della funzionalità, per la tecnica non dovrebbe esistere nulla di discreto, nulla di autonomo, di privato, di intimo in senso psicologico, nulla di inconscio. […] l’apparato tecnico, oltre ad irrompere con indiscrezione nella parte discreta dell’individuo attraverso test, questionari, campionature statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di mercato, elezioni, referendum, esige che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici le sue emozioni, le sue sensazioni, i suoi sentimenti, secondo quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati come espressioni di sincerità”. Non sembra, purtroppo, considerando questa corsa comune all’esposizione pubblica, che ci rendiamo conto di quanto sia rischioso abdicare alla nostra singolarità. (Amore - 6 precedente  successivo)

 
 
 
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