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« Il giorno della luna BluImmagina »

Benvenuto Cellini e i Diavoli del Colosseo

Post n°34 pubblicato il 09 Settembre 2012 da claudio.nigris

nel XIV secolo aggirarsi nella periferia della città di Roma, tra le rovine del perduto mondo pagano, nei pressi del Colosseo poteva capitarvi d'imbattervi tra gente losca che accostandosi a voi, con fare sibillino, vi avrebbe domandato Colis Eum?" (ossia, Lo adori? sottintendendo il diavolo) e alla risposta "Ego colo" vi avrebbero aperto l'accesso a un fitto sottobosco di cerimonie di magia nera e congreche di streghe e negromanti?. Tra i testimoni più illustri di queste oscure pratiche all'interno del Colosseo c'è addirittura lo scultore, orafo e scrittore Benvenuto Cellini; In una autobiografia (Vita scritta per lui medesimo) composta fra il 1558 e il 1562 (libro primo, capitolo LXIV) narra di uno degli episodi più famosi di evocazione diabolica. All'epoca egli era perdutamente innamorato di una certa Angelica, una giovane siciliana bellissima, ma la relazione era vivamente contrastata dalla madre di lei, tanto che i due giovani si erano trovati separati. Un po' per stordirsi e cercare un qualche sollievo dalle pene d'amore, un po' per il suo temperamento irrequieto, portato alla dismisura e assetato di conoscenza in senso tipicamente rinascimentale, Cellini volle partecipare a una operazione di necromanzia da parte di un non precisato prete siciliano. Ma quella che doveva essere una cerimonia di evocazione degli spiriti dei morti si trasformò, con raccapriccio dei partecipanti, in qualche cosa di profondamente diverso, in una terribile evocazione di demoni che terrorizzarono gli incauti apprendisti stregoni. Non dimentichiamoci che lo scenario del Colosseo fu il teatro di un bagno di sangue di oltre 10mila gladiatori in armi ed altre migliaia di prigionieri inerti, dati in pasto alle 50mila belve condotte a Roma dagli angoli più selvaggi e remoti dell’Impero. simbolo di un Impero e di una città intenta a mettere in scena le sue glorie più effimere tra le curve avvolgenti e gli archi, tra le volte e le sabbie. Qui si consumarono i ludi gladiatori e gli spettacoli di caccia, le naumachie e le messinscene delle pagine più pugnaci della storia romana, i drammi (verosimili) della migliore mitologia, ed al contempo le tragedie (quelle orrendamente vere e crude) e di forse il martirio più sistematico della storia dell’Urbe. Di sotto, di suo pugno, riporto la drammatica testimonianza del Cellini quella notte al colosseo:


"Mi accadde per certe diverse stravaganze, che io presi amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di elevatissimo ingegno ed aveva assai buone lettere latine e grecie. Venuto una volta in un proposito d’un ragionamento, in nel quale s’intervenne a parlare d’arte della negromanzia, alla qualcosa io dissi: grandissimo desiderio ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di quest’arte. Alle qual parole il prete aggiunse: forte animo e sicuro bisogna che sia di quell’uomo che si mette a tale impresa. Io risposi che della fortezza e della sicurtà dell’animo me ne avanzerebbe, purché i’ trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: se di cotesto ti basta la vista, di tutto il resto io te ne satollerò. Così fummo d’accordo di dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera infra l’altre si mise in ordine, e mi disse che io travassi un compagno, insino a due. Io chiamai Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un pistoiese, il quale attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Colosseo, quivi paratosi il prete a mo’ di negromante, si mise a disegnare i circuli in terra con le più belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare profummi preziosi e fuoco, ancora profummi cattivi. Come e’ fu in ordine, fece la porta al circolo, e presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al circulo; di poi compartì gli ufizi; dette il pintaculo in mano a quell’altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e’ profumi; poi messe mano agli scongiuri. Durò questa cosa più d’una ora e mezzo; comparvero parecchie legioni (di diavoli), di modo che il Culiseo (Colosseo) era tutto pieno. Io che attendevo ai profumi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta quantità si volse a me e disse: Benvenuto, dimanda lor qualcosa. Io dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella notte, noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante, che bisognava che noi andassimo un’altra volta e che io sarei satisfatto ai tutto quello che io domandavo, ma che voleva che io menassi un fanciulletto vergine. Presi un mio fattorino, il quale era di dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai quel ditto Vincenzio Romoli, e per essere nostro domestico compagno un certo Agnolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo al luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione con quel medesimo e più ancora meraviglioso ordine, ci misse in nel circolo, qual di nuovo aveva fatto con più mirabile arte, e più mirabil cerimonie; di poi quel mio Vincenzio diede la cura dei profumi e del fuoco; insieme la prese il detto Agnolino Gaddi: dipoi a me pose in mano il pintaculo qual mi disse che io lo voltassi secondo i luoghi dove lui m’accennava, e sotto il pintaculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante a fare quelle terribilissime invocazioni, chiamato per nome una gran quantità di quei demoni capi di quelle legioni, e a quelli comandava per la virtù e potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voci ebree, assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empiè tutto il Culiseo l’un cento più di quello che avevan fatto quella prima volta. Vincenzio Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell’Agnolino detto, e molta quantità di profummi preziosi. Io per consiglio del negromante, di nuovo domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: senti che gli hanno detto? che in ispazio di un mese tu sarai dove è lei; e di nuovo aggiunse, che mi pregava che io gli tenessi il fermo (cioè stessi saldo), perché le legioni eran l’un mille più di quel che lui aveva domandato, e che l’erano, le più pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato, bisognava carezzargli, e pazientemente gli licenziare. Dall’altra banda il fanciullo, che era sotto il pintaculo, ispaventatissimo diceva, che in quel luogo si era un milione di uomini bravissimi, e’ quali tutti ci minacciavano: di più disse, che gli era comparso quattro smisurati giganti, e’ quali erano armati e facevan segno di voler entrare da noi. In questo il negromante, che tremava di paura, attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quanto loro, m’ingegnavo di dimostrarla manco, e a tutti davo meravigliosissimo animo; ma certo io m’ero fatto morto, per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo s’era fitto il capo infra le ginocchia, dicendo: io voglio morire a questo modo, perché, morti siamo. Di nuovo io dissi al fanciullo: queste creature son tutte sotto di noi, e ciò che tu vedi si è fumo e ombra; sí che alza gli occhi. Alzato che gli ebbe gli occhi, di nuovo disse che era morto, e che non voleva più vedere. Il negromante mi si raccomandò pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che io facessi fare profumi di zaffetica (quelli puzzolenti); così voltomi a Vincenzio Romoli, dissi che presso profumassi di zaffetica. In mentre ch’io così diceva, guardando Agnolino Gaddi, il quale era tanto ispaventato che la luce degli occhi aveva fuor del punto, ed era più che mezzo morto, al quale dissi: Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da fare ed aiutarsi; sicché mettete su presto di quella zaffetica. Il ditto Agnolo, in quello che lui si volse muovere, fece una istrombazzata di coregge con tanta abundanzia di merda, la quale potette molto più che la zaffetica. Il fanciullo a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne cominciavano andare a gran furia. Così soprastemmo in fino a tanto che e’ cominciò a sonare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo, che ve n’era restati pochi, e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie, spogliatosi e riposto un gran fardel di libri che già gli aveva portati, tutti d’accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi l’un sotto l’altro; massimo il fanciullo, che s’era messo in mezzo, ed aveva preso il negromante per la vesta e me per la cappa; e continuamente in mentre che noi andavamo inverso le case nostre in Banchi lui ci diceva che dua di quelli, gli aveva visti nel Culiseo, ci andavano saltibeccando innanzi, or correndo su pei tetti e or per terra. Il negromante diceva che di tante volte quante lui era entrato nelli circuli, non mai gli era intervenuto una così gran cosa, e mi persuadeva che io fussi contento di voler esser seco a consacrare un libro, dal quale noi trarremmo infinita ricchezza, perché dimanderemmo li demonii, che ci insegnassino delli tesori, i quali n’è pien la terra, e a quel modo noi diventeremo ricchissimi; e che queste cose d’amore si erano vanità e pazzie, le quali non rilevano nulla. Io gli dissi, che se io avessi lettere latine, che molto volentieri farei tal cosa. Pur lui mi persuadeva, dicendomi, che le lettere latine non mi servivano a nulla, e che se lui avesse voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva mai trovato nessuno d’un saldo animo come era io, e che io dovessi attenermi al suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e ciascuno di noi tutta quella notte sognammo diavoli".

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Un blog di: claudio.nigris
Data di creazione: 25/05/2012
 

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