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Matt Dillon: "Meglio le serie tv, oggi il cinema ha dimenticato gli esseri umani"

Post n°11576 pubblicato il 20 Giugno 2014 da Ladridicinema
 

Aggiornato il 19 giugno 2014

Accoglienza da superstar per l'attore al TaorminaFilmFest. La carriera con i grandi registi, l'esperienza dietro la macchina da presa, il piccolo-grande schermo: "Molti prodotti televisivi sono di una qualità irraggiungibile". Presto girerà un documentario sulla musica afrocubana degli anni Quaranta

TAORMINA - Lo avevano definito "il James Dean degli anni Ottanta", il tempo ha stemperato la sua bellezza patinata e gli ha donato rughe e fascino. Oggi Matt Dillon ha cinquant'anni, una lunga carriera con registi come Francis Ford Coppola, Arthur Penn, Gus Van Sant, Mike Figgis, Cameron Crowe, Anthony Minghella, un bel po' di cose da raccontare. Alla TaoClass del TaorminaFilmFest della quale è protagonista è accolto da orde di adolescenti urlanti, quando lui era all'apice della popolarità non erano ancora nati. "È una delle cose che mi piace di voi italiani, la generosità con cui sapete accogliere l'altro, la vostra sensibilità" commenta, mentre le ragazzine gli agitano gli smartphone davanti alla faccia e la giovanissima fidanzata lo guarda adorante, seduta in prima fila. "È un aspetto che emerge anche dal vostro cinema, che è stato ed è grande perché ha la capacità di raccontare le storie delle persone. Penso a Fellini e a I vitelloni, ad esempio, e a tanti altri maestri del passato e del presente che sanno tirare fuori una grande umanità dai personaggi". 

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    Matt Dillon, cinquant'anni, un'intensa carriera cinematografica scandita dai registi più quotati, si è presentato da divo alla TaoClass del TaorminaFilmFest, accolto dall'entusiasmo di un pubblico prevalentemente adolescente: quando lui era all'apice della popolarità molti di loro non era ancora nati...


Una fissazione, quella del lato umano delle storie. Lo ripete di continuo, durante la conversazione con il direttore artistico del Festival, Mario Sesti, e con il pubblico. Lui che di ruoli ne ha interpretati tanti e diversi, da buono e da cattivo (e da imbranato, come in Tutti pazzi per Mary) insiste: "In un film quel che conta è avere un buon personaggio, non è necessario che sia simpatico, non deve per forza piacere al pubblico, deve avere una sua storia - dice Dillon - devi restituirne l'intimità. Ho deciso di fare questo mestiere non per stare sotto ai riflettori, ma per girare lo specchio verso il pubblico e riflettere la verità della vita. Anche quando ho lavorato come regista, l'ho fatto sempre in questa chiave, con l'intenzione che lo spettatore vedesse se stesso e si potesse riconoscere almeno in parte". 

La sua passione per il cinema comincia con un debutto fortunato, dopo piccoli ruoli in altri film, con Francis Ford Coppola in I ragazzi della 56esima strada. Era il 1983, per alcuni fu un trampolino d'oro. C'erano Ralph Macchio e Patrick Swayze, Rob Lowe e Emilio Estevez, Tom Cruise e Diane Lane, Leif Garret e Tom Waits. "Coppola era una divinità - ricorda Dillon - noi giovani eravamo in costante venerazione, e in soggezione. Era un sogno lavorare con lui. La cosa più importante che mi ha insegnato è stata la fiducia in me stesso, mi ha convinto che potevo credere in quel che facevo. Allora era estremamente impulsivo, mentre eravamo sul set di I ragazzi lui decise che avrebbe fatto un altro film, Rusty il selvaggio, tratto da un libro dello stesso scrittore, S. E. Hinton. 'I grandi artisti rubano, o quanto meno prendono in prestito', diceva sempre. E dimostrava continuamente di avere un grande rispetto per il cinema e una grande conoscenza di quell'arte: per I ragazzi della 56esima strada volle un'atmosfera da film anni Cinquanta, una fotografia patinata, magniloquente. Rusty invece -  continua Dillon - gli piacque perché gli permetteva di fare un film d'autore, lo dedicò al padre, era una storia di fratelli, i legami familiari sono sempre stati una costante nel cinema di Coppola".

A catapultare Matt Dillon alla grande notorietà fu Francis Ford Coppola. Il film era "I ragazzi della 56esima strada", del 1983, e fu un trampolino d'oro per tanti attori. Nel cast c'erano Ralph Macchio, Patrick Swayze, Rob Lowe, Emilio Estevez, Tom Cruise, Diane Lane, Leif Garret, Tom Waits. "Coppola era una divinità", ha ricordato Matt Dillon al TaorminaFilmFest, "noi giovani eravamo in costante venerazione, e in soggezione. Era un sogno lavorare con lui"


Ma come è cambiato, oggi, il modo di fare cinema rispetto ai suoi esordi? "È cambiato così com'è cambiato il mondo. Oggi nessuno porta più l'orologio al polso perché tutti guardano l'ora sul telefonino. La tecnologia, gli effetti speciali, il 3D hanno avuto gran parte in questo cambiamento. Paul Newman aveva capito tutto già un sacco di anni fa - ricorda - una volta mi disse: le superstar del cinema degli anni Settanta sono state due robot e uno squalo, ovviamente si riferiva a Star Wars e al film di Spielberg. Oggi il cinema fa più attenzione alle 'cose' che alle persone. Per fortuna resiste il grande cinema d'autore, che mette al centro gli esseri umani e le loro storie. Penso anche al vostro Paolo Sorrentino e al suo La grande bellezza, vero e potente, specifico perché parla di Roma e dell'Italia ma anche universale, con la storia di un uomo che a un certo punto decide di non stare più dietro a ciò di cui non gli interessa niente. Capita a tutti noi".

Il cinema, oggi, è anche la tv. Che cosa ne pensa delle serie che per cast e qualità riescono a fare concorrenza alle superproduzioni cinematografiche? "Ne penso tutto il bene possibile, anche io ne ho girata una. Oggi il cinema propone molti prodotti interessanti ma vince l'intrattenimento. La televisione è più stimolante, ho appena finito di girare una miniserie per la Fox, si intitola Wayward Pines, un mistery drama dal romanzo di Blake Crouch, prodotto e diretto da M. Night Shyalaman, a metà strada fraLost Twin Peaks, anche se è impossibile paragonarsi a David Lynch... Interpreto l'agente Ethan Burke, incaricato di indagare sulla scomparsa di due federali nella cittadina di Wayward Pines, un luogo idilliaco in cui tutto sembra funzionare alla perfezione. Ma dopo un incidente automobilistico non ho più i miei documenti né la mia identità, nessuno mi riconosce e non riesco a comunicare con il resto del mondo. È avvincente, un dramma psicologico che sconfina nella fantascienza, un po' stile Stephen King. Diretta da un bravissimo regista come Shyamalan, ottimo narratore e grande leader". 

Dopo l'esperienza come regista con City of Ghosts del 2002, in cui aveva diretto se stesso, Matt Dillon sta per tornare dietro la macchina da presa, ma questa volta per un documentario e per parlare di musica, lui che è un grande appassionato di jazz. "È la storia di un grande cantante cubano degli anni Quaranta e della musica afrocubana, un talento brillantissimo che fu molto influenzato dal jazz americano dell'epoca e diede vita a una vera e propria scuola. Ho cominciato a lavorarci dieci anni fa, sono stato a fare delle ricerche in Messico, dove lui si era trasferito, poi ho lasciato stare ma adesso sto riprendendo in mano il progetto. È il bello dei documentari, puoi tornarci anche a distanza di anni e il lavoro è lì, che ti aspetta, per nascere un'altra volta". 
 
 
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