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L’abbraccio con la madre, l’alter ego juventino: quando il set è una seduta di psicanalisi da la stampa

Post n°13142 pubblicato il 20 Aprile 2016 da Ladridicinema
 

“Fai bei sogni”, diretto da Marco Bellocchio, sarà presentato al Festival di Cannes. L’autore del romanzo da cui è tratto aspetta il film con più curiosità che timore
ANSA

Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo, i protagonisti adulti di «Fai bei sogni»: il film diretto da Marco Bellocchio aprirà la Quinzaine des Réalisateurs, rassegna «alternativa» del Festival di Cannes

20/04/2016
MASSIMO GRAMELLINI
All’inizio avrei preferito che «Fai bei sogni» non diventasse un film. Meglio una serie tv per famiglie. Meglio ancora: niente. Poi è arrivato l’invito di Marco Bellocchio a passare una mattinata nel suo studio. Sul tavolo c’era una copia del libro, gonfia di segni e sottolineature. Bellocchio mi disse di avere contato il numero di bugie pronunciate dai personaggi nel corso della storia: ventitré, se ricordo bene. In un immediato e clamoroso ribaltamento dei ruoli cominciò a intervistarmi. Solo che lui non prendeva appunti con le parole, ma coi disegni. In quel primo incontro sembrò molto incuriosito dalla figura del padre, forse la più cinematografica del romanzo: un uomo in apparenza gelido che alla fine rivela la sua umanità. Nel congedarmi disse: «Alla mia età si gira ogni film con il retropensiero che potrebbe essere l’ultimo. Non mi dispiacerebbe se il mio ultimo film fosse una storia come questa». 

 

Negirerà sicuramente molti altri, ma intanto quella frase aveva dissolto le mie difese. Non ancora le sue. Nei colloqui successivi manifestò un imbarazzo irriducibile all’idea di mettere in scena persone realmente esistite e, nel mio caso, esistenti tuttora. Questo pudore nello stravolgere i caratteri e urtare le mie memorie più care lo accompagnò durante l’intera fase della sceneggiatura, a cui non chiesi di partecipare.  

 

La storia mi usciva dalle orecchie: non ne potevo più di riviverla (se pazientate qualche riga, scoprirete cosa è successo sul set). E poi Bellocchio aveva una personalità troppo forte per poter anche solo supporre che si sarebbe limitato a una mera traduzione in immagini delle mie parole. Avrebbe imprestato al protagonista i suoi slanci e le sue paure. Era giusto che mi facessi da parte e che il film fosse Fai bei sogni di Bellocchio e basta.  

 

L’ho incontrato molte altre volte, una in compagnia di Guido Caprino, il leghista della serie tv 1992 che nel film interpreta mio padre. Dalle sue domande ho capito come lavorano i grandi attori. Cercano di scoprire il conflitto profondo che agita il loro personaggio, così da richiamarlo di continuo alle memoria durante la recitazione. Nel caso di mio padre era il senso di colpa di non essersi svegliato mentre mia madre si alzava dal letto per l’ultima volta. Non l’avevo scoperto scrivendo il libro. Me l’hanno tirato fuori Caprino e Bellocchio al ristorante. 

 

Valerio Mastandrea, il mio alter ego adulto, ha preferito non coinvolgermi nella costruzione del suo ruolo. Ho il sospetto che mi detesti perché una sera in cui era ospite a Che fuori tempo che fa sono entrato in camerino proprio quando fischiavano un rigore contro la sua Roma. Lui, in ginocchio davanti al televisore, mi ha rivolto parole quasi educate ma comunque piuttosto amare, che mai mi sarei aspettato da chi ha avuto l’onore di interpretare un tifoso della squadra più iellata del pianeta.  

 

Ma, a proposito di tifo, l’umiliazione maggiore è stata conoscere il mio alter ego bambino, Niccolò. Creatura deliziosa. L’ho trovato intento a imparare a memoria una formazione del Toro degli Anni 60 che avrebbe dovuto sciorinare nel film. «Immagino che questi nomi non ti dicano niente», ho esordito. «Essendo tu di Milano, conoscerai meglio la storia di Milan e Inter…».  

 

Il suo silenzio prolungato mi ha insospettito. È intervenuta la madre: «Vede, negli ultimi anni la Juve ha vinto tanto e allora Niccolò…». La verità mi si è stagliata davanti in tutta la sua drammatica ironia: l’attore che avrebbe dato un volto ai patemi della mia infanzia era un piccolo ma già vivacissimo juventino. La vita sa essere terribilmente dura, a volte. 

 

Il peggio è successo quando mi sono affacciato sul set. Avevano ricostruito l’appartamento dov’ero cresciuto, ovviamente più grande per potersi muovere con la macchina da presa. Bellocchio stava per girare una scena in cui mia madre guarda la neve fuori dalla finestra.  

 

L’attrice Barbara Ronchi, in vestaglia da notte, era talmente immedesimata nella parte che appena mi ha visto è corsa verso di me e mi ha abbracciato commossa. «Cavoli, sto abbracciando mia madre», ho biascicato, ed era una frase talmente stupida che prima mi è venuto da ridere e poi il magone.  

 

Il secondo ciak in programma quel giorno era quello in cui la madre, con il marito che la spia attraverso la porta socchiusa, si congeda definitivamente dal figlio rimboccandogli le coperte e sussurrando «Fai bei sogni». La scena primaria della mia esistenza: ho passato gli anni a immaginarmela e a disperarmi per non essermi svegliato mentre avveniva. L’ho rivista in un monitor, seduto accanto a Bellocchio. Ed è stata una seduta, anzi un convegno, di psicanalisi.  

 

Non sono più tornato sul set, avrete capito perché. E non ho ancora visto il film. Ma la curiosità sconfigge sempre lo spavento, dunque succederà. Magari a Cannes, mescolato ai colleghi della stampa e facendo finta che quello dentro lo schermo sia chiunque altro tranne me. 

 
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