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Posh

Post n°13162 pubblicato il 08 Maggio 2016 da Ladridicinema
 


Un gruppo di studenti viene ammesso all'università di Oxford, dove fra i tanti club accademici il più esclusivo è il Riot, che accoglie solo dieci membri destinati a "diventare delle fottute leggende". I nuovi ammessi sono Miles e Alistair, entrambi di ottima famiglia e allevati nel privilegio, ma molto diversi fra loro: Miles è tollerante, di mentalità (relativamente) aperta e disposto a fidanzarsi con Lauren, una studentessa che non ha il suo pedigree aristocratico. Alistair vive nell'ombra del fratello maggiore Sebastian, mitico ex presidente del Riot Club, e si abbandona a lunghe tirate contro quella borghesia che "ci odia, ma vorrebbe essere come noi". 
Dalla sua pièce teatrale The Riot Club, un successo sui palcoscenici londinesi, la commediografa Laura Wade ha tratto la sceneggiatura di Posh, e la casa di produzione ha avuto l'intelligenza di affidarne la regia alla danese Lone Scherfig, il cui precedente An Education, l'ha resa la candidata perfetta per dirigere questa storia. Come in An Education, anche in Posh c'è la descrizione di una upper class spocchiosa e arrogante, convinta che il proprio posto nel sistema di caste che ancora oggi caratterizza la società inglese sia frutto di un disegno divino. Anche in Posh lo sguardo della regista alterna e mescola attrazione e repulsione, perché è fondamentalmente lo sguardo della classe della quale i ragazzi del Riot Club parlano con il massimo disprezzo - la borghesia - secondo loro disposta a tutto per salire i gradini della scala gerarchica e pronta a vendersi al migliore offerente. E se in An Education il microcosmo che Scherfig raccontava era prevalentemente femminile, qui le donne restano ai margini e il dramma si consuma in un'autocelebrazione delle componenti più stereotipate del maschile.
La storia culmina in una lunghissima cena (che nella pièce era l'ambiente unico della vicenda) in cui i fraternity boys si divertono a mangiare, bere, tirare di coca, umiliare le ragazze presenti e diventare elementi di sempre maggiore disturbo per gli altri avventori e per il proprietario del locale, incarnazione perfetta (sempre secondo loro) della mediocrità borghese.
Posh si inserisce nella lunga lista di film che raccontano l'assurdità crudele delle confraternite universitarie anglosassoni. Ma Scherfig è molto efficace nel riacciuffare al volo una storia che rischiava di perdersi nell'escalation di degrado e violenza dei ragazzi (la necessità di rimanere un "film per tutti" ha fatto tagliare alla distribuzione le scene più crude e insistite e le volgarità più esplicite, rispetto alla versione vista a Toronto) con un finale che indica come le confraternite non siano altro che il frattale di una società che si regge sulla protezione istituzionale delle élite
Sherfig posa sui suoi giovani protagonisti lo stesso sguardo algido e (apparentemente) distaccato con cui raccontava la vicenda della studentessa circuita dal playboy in An Education, rivelando una capacità molto originale (anche se spiazzante e spesso sgradevole) di raccontare la ferocia insita nella natura umana, ancor più agghiacciante se coperta da una pàtina di civiltà. La regista danese concede ai suoi personaggi una complessità che si misura in un braccio di ferro continuo con le pressioni sociali e famigliari che li circondano, ben assistita da un cast che mette in scena tre talenti emergenti del nuovo cinema inglese: Max Irons (figlio di Jeremy e di Sinéad Cusak), Douglas Booth (il Romeo del film di Carlo Carlei) e Sam Clafin (il Finnick Odair di Hunger Games). 
Posh è una favola nera sul cuore di tenebra che sostiene un intero sistema sociale, e che vive la propria autoperpetuazione senza alcuna volontà (o capacità) di porle fine, men che meno cercare redenzione.

 
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