È difficile ripercorrere in maniera esaustiva i ricordi del periodo in cui Il Signore degli Anelli – La Compagnia dell’Anello arrivò nelle sale. Potrei descrivere la metà di loro a metà e dedicare a meno di metà di loro metà dello spazio che meriterebbero. Forse, posso provare a raccontare cosa ha significato, per me, aspettare un film che è stato importante prima, durante e dopo il suo arrivo al cinema.

La prima volta che sentii nominare il romanzo di Tolkien fu in tenerissima età quando, a casa con la febbre, vidi per la prima volta La Storia Infinita: davanti al bisbetico signor Koreander, Bastian elencava una serie di romanzi per ribadire il suo interesse per la lettura. Quando nominò Il Signore degli Anelli, per qualche ragione pensai automaticamente a una oscura presenza sulla sommità di una montagna che contemplava i possedimenti in suo potere. La febbre non mi aveva reso un veggente: poco prima avevo sentito dai grandi l’espressione “anello di terra” e dunque associai il termine “anello” a “terreno” visualizzando una presenza che, proprio come un Oscuro Signore, rimirava con soddisfazione i suoi domini. Quando iniziai a leggere i romanzi di Tolkien, Sauron lo immaginai immediatamente così, mentre diedi a Sam, a Merry e a Pipino i volti dei miei più cari amici. A distanza di anni, il volto che allora diedi a Sam è ancora con me a tenermi buona compagnia. Chissà dove sono Merry e Pipino. A pochi giorni dall’uscita del film nelle sale, non leggevo il romanzo di Tolkien da un po’. Neanche alcuni singoli capitoli, come spesso mi capita ancora oggi sia con Il Signore degli Anelli che con Il Silmarillion. Da quando avevo iniziato a interessarmi ai tre film in produzione, tentavo (con scarsissimo successo) di fare tabula rasa dell’idea della Terra di Mezzo che avevo sviluppato autonomamente negli anni. In effetti, col tempo, nella mia personalissima Terra di Mezzo avevo messo un po’ di tutto, anche sulla base dei luoghi conosciuti durante alcuni viaggi, rimescolandoli con le parti descrittive del romanzo in una sorta di grog immaginifico tra la visione di Tolkien e la mia di lettore. Poco prima dell’uscita del film, mi trovavo in una situazione strana: avevo letto sui magazine e seguito in rete praticamente tutto ciò che era possibile seguire e avevo riflettuto talmente a lungo su questi film che le aspettative nella mia testa avevano fatto una sorta di giro completo tornando al punto di partenza. Di fatto, avevo deciso di andare al cinema con una specie di tranquillità paradossale: avevo pensato talmente tanto a questo film che il fatto che uscisse davvero era quasi una delusione. Non poteva restarsene lì, sospeso in un limbo, bello e inarrivabile come un’idea, il film che nessuno era mai riuscito a realizzare?

In giro si sentiva e si leggeva parecchio: c’era chi pensava che Il Signore degli Anelli fosse il film “finalmente possibile”. Era il progetto che molti produttori avevano accarezzato o inseguito, scontrandosi con una valanga di muri di pietra, a partire dai budget e dalle tecnologie insufficienti a rendere giustizia alla portata del libro. In sostanza, l’uscita de La Compagnia dell’Anello sembrava una sorta di occasione unica e irripetibile di dimostrare il punto di arrivo di un secolo di ambizioni sul grande schermo. Volendo generalizzare (parecchio), una delle idee che serpeggiavano era che se Jackson avesse azzeccato il film, sarebbe stata una sorta di piccola “fine della storia” alla Fukuyama. Una domanda, tanto legittima quanto del tutto strampalata, era: se il cinema fosse riuscito a realizzare degnamente Il Signore degli Anelli, il film di Jackson sarebbe stato una specie di “ultimo grande film” della storia? Se oggi sono portato a ritenere che (per quanto riguarda la Storia con S maiuscola) Fukuyama si sbagliasse, mi sento invece di dire che la trilogia dell’Anello è stata, almeno per me, l’ultimo evento cinematografico a segnare un “prima” e un “dopo”. Come avvenuto, per ragioni diverse e in generazioni diverse, con Star WarsTerminator 2 o Jurassic Park. Anni fa, andando a vedere Avatar, ho avvertito la grande capacità di un artigiano di altissimo livello di confezionare il top di gamma di una scuderia, prendendo solo il meglio dei pezzi in circolazione e “non badando a spese”. Ma nel gennaio di 15 anni fa, guardando il primo dei tre film di Jackson, ho avvertito la capacità a tutto tondo di un narratore di portare alla luce qualcosa di grande a partire da tanti minuscoli dettagli: visivi, drammaturgici, sonori, e molto altro. Sono ancora convinto, a oggi, che buona parte della straordinaria riuscita dei tre film si debba a una moltitudine di piccole attenzioni che hanno avvicinato Il Signore degli Anelli a una enorme fetta di pubblico poco o nulla interessata non solo ai romanzi di Tolkien, ma al genere tutto. Questi film, dopotutto, dovevano piacere a una grande quantità di persone che non avevano dimestichezza con la saga letteraria. Io stesso, poi, temevo il rovescio della medaglia dell’aver letto e riletto i romanzi. Poi è successo qualcosa. Al cinema, ho avuto la sensazione che Peter Jackson volesse tranquillizzarmi e permettermi di godere appieno del suo film senza tenermi nell’inquietudine del dubbio fino alla fine. Due singoli e piccoli momenti, in particolare, mi hanno aiutato a predispormi bene relativamente presto: il primo è stato il salto di Frodo sul carretto di Gandalf, il secondo il duello tra Gandalf e Saruman.

Quando Frodo abbraccia Gandalf per la prima volta, dopo averlo apostrofato come ritardatario, l’evidente differenza tra le dimensioni dello Hobbit e quelle dello Stregone è tanto macroscopica quanto del tutto naturale e mai enfatizzata. Ricordo che molta gente si mise a indicare lo schermo, stupendosi di qualcosa che, per gli abitanti della Terra di Mezzo, era invece nell’ordine naturale delle cose. Poco dopo, però, Gandalf sbatte goffamente la testa a casa di Bilbo, proprio perché è troppo alto per una casa Hobbit! Jackson si stava rimangiando quella naturalezza della vita ordinaria del mondo Tolkieniano? No. Pian piano, stava ricostruendo per immagini la spontaneità del famoso mondo “parallelo ma coerente” del professor Tolkien: ciò che era buffo non era mai grottesco, ciò che era grave non era mai pomposo, ciò che era spaventoso non era mai gratuito. E tutto era immerso in un contesto reale e mai artefatto: la Nuova Zelanda è il nostro pianeta, il perfetto set a cielo aperto fatto di una natura incontaminata ma riconoscibile come “nostra”. Di fatto, la Terra di Mezzo di Jackson non era il teatro di un fantomatico “fantasy realistico”, ma di un racconto fotorealistico. È stato questo il passaggio che mi ha permesso di entrare in relazione con il film come con i libri: ho visto la coerenza di fondo del grande racconto di Tolkien trasposta in una coerenza fotografica e in una familiarità ambientale. E, probabilmente, è stata anche l’intuizione che ha reso possibile raggiungere e toccare le corde di un pubblico vasto, potenzialmente insofferente ai film con “gnomi, fate, orchi e fattucchierie di sorta”. Dopo il prologo sulla storia ancestrale e sugli eventi epocali ai tempi della prima caduta di Sauron, l’immersione nella Contea e nella cultura Hobbit ha scaldato il cuore di chi ha amato il romanzo e ha piacevolmente spiazzato chi si aspettava quasi tre ore di incantesimi colorati, parentele impronunciabili e baracconate di trucco e parrucco. La prova del nove, poi, è stata nella scena del duello tra Gandalf e Saruman. Dopo le prime sequenze nella Contea, ero già predisposto molto bene verso il film: ma un attimo prima che i due stregoni iniziassero a darsele di santa ragione ho pensato “Se ho capito bene Jackson, duelleranno senza che si veda pressoché nulla”. Quando tempo dopo visionai i contenuti speciali del film, vidi Jackson che ammetteva effettivamente di “detestare quei film nei quali i maghi si lanciano strani raggi luminosi dalle mani”. Quel duello, innanzitutto, è un duello di nervi tra due volontà che Saruman vince con vigliaccheria, appropriandosi di un bastone che non gli appartiene. Ancora oggi, rivederlo mi ricorda il momento nel quale ho capito che La Compagnia dell’Anello aveva le carte non solo per piacermi, ma per entrarmi in testa e non uscirne mai più.

Negli anni, anche per via della malcelata curiosità che ho di capire tutto ciò che è diverso da me, mi sono chiesto spesso cosa avesse avuto di speciale questo film per molte persone poco sensibili al genere: notavo che La Compagnia dell’Anello mieteva consensi a livello trasversale, anche tra coloro dai quali mi sarei aspettato scarso interesse o un semplice “ah sì, è fatto molto bene”. Le spiegazioni, come spesso accade, sono molte e sfumate l’una nell’altra, ma penso che uno dei motivi sia stato il talento di Jackson di mostrare molto (avendo una grossa macchina produttiva a disposizione) senza tuttavia rinunciare a far lavorare l’immaginazione delle persone. Andando al cinema, l’idea di compartecipare all’immaginazione altrui richiede una certa dose di eleganza, proprio per smontare la semplificazione che “leggendo usi la tua immaginazione, vedendo un film subisci inevitabilmente quella di qualcun altro”. Jackson ha indubbiamente seguito il suo punto di vista, con un focus sulla storyline di Frodo che porta l’Anello e con una forte caratterizzazione visiva tra sublime per il bene e mostruoso per il male, ma ha anche lasciato al pubblico la possibilità di comprendere che ciò che stava guardando era una parte del tutto: grande la storia mostrata sul grande schermo, ma solo una minuscola frazione di una cosmogonia enormemente più vasta che, saltuariamente, veniva fuori con piccoli dettagli. Quando la Compagnia avverte la presenza del Balrog nelle miniere di Moria, l’espressione di Galdalf non comunica paura o sgomento, ma gravità e dolore: Galdalf pensa, evidentemente, che mai avrebbe desiderato che i suoi amici vedessero qualcosa di tanto malvagio. Sembra una sciocchezza ma è anche da qui che lo spettatore “esce” per un momento dal film, incasellandone gli eventi in qualcosa di molto più grande, almeno fino a che il “fuggiamo!” di Galdalf non lo riporta, quasi strattonandolo, al “qui e adesso” del ponte di Kazhad-Dum. Anche Saruman, aizzando gli Uruk-hai, accenna alle antiche malvagità di Morgoth che portarono alla nascita degli Orchi, creati come beffa della bellezza e della perfezione degli Elfi. In qualche modo il film, pur proponendo un impianto visuale elaboratissimo, spronava costantemente gli spettatori a immaginare: il pubblico non subiva il film, ma lo faceva suo e ne riempiva i confini che sfumavano nel mito. In tutta la sua enormità, La Compagnia dell’Anello iniziava a mostrare le più incredibili ambientazioni della Terra di Mezzo, ma non rinunciava mai al potere evocativo sugli spettatori: quando Boromir spiega perché non si entra con facilità a Mordor, siamo noi a essere chiamati a immaginare tutto ciò che racconta, prima ancora di poterlo vedere nei film successivi. È anche per questo che, uscito dal cinema, pensai che né la nostra Storia né quella del cinema erano finite: avevamo i mezzi per adattare per immagini qualsiasi cosa ma non avevamo dimenticato che è indispensabile un buon narratore per essere emotivamente coinvolti. Ancora oggi sono convinto che valga per tutte le grandi storie, quelle che contano davvero.