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Room

Post n°14571 pubblicato il 17 Agosto 2018 da Ladridicinema
 

Nel 2008 la scoperta del caso Fritzl fu uno shock di portata mondiale. Una figlia reclusa e abusata dal proprio stesso padre per 24 anni sembrava un orrore troppo inconcepibile per poterci credere, figurarsi metterlo in scena. Per fortuna il Room con cui l'irlandese Lenny Abrahamson torna in sala dopo il Frank con Michael Fassbender e Domhnall Gleeson nasce dal libro ispirato a quella vicenda: il romanzo 'Stanza, letto, armadio, specchio' (Room) scritto da Emma Donoghue nel 2010.

In questo caso il rapimento è dei più classici, e la prigionia decisamente 'ridotta' rispetto all'originale, ma tutto ciò nulla toglie allo sviluppo della storia. Decisamente toccante e ricca di implicazioni. Il merito è comunque della stessa Donoghue, sceneggiatrice e produttrice del film, nel quale si finisce per partecipare completamente delle diverse fasi attraversate dai due protagonisti. Dalle più immediate a quelle meno evidenti, ma facilmente immaginabili.


Inevitabilmente, la prima sezione è completamente dedicata all'organizzazione del tempo nella stanza e alla costruzione di una vita accettabile per un bimbo nato in cattività, fatta di bugie e giustificazioni. Il rapporto del piccolo con gli oggetti che lo circondano e con le regole imposte dell'aguzzino restituiscono una sensazione confusa, per il dover conciliare una sorta di simulata normalità con le inevitabili considerazioni di ognuno. Ma sarà davvero difficile per chiunque trattenere le lacrime, di rabbia - razionale per l'impotenza della giovane madre, costretta a contenere le proprie reali emozioni per non distruggere l'illusione creata per salvare il figlio - e di commozione, per gli struggenti momenti della nuova nascita del bambino.

Ed è l'inizio di un altro film. Che gioca proprio con l'empatia suscitata nello spettatore. Con le convizioni che ognuno di noi ha sull'essere genitore. E con l'esplorazione del trauma, tanto della madre quanto del figlio. Due creature dall'esperienza di vita talmente limitata da non avere gli strumenti per accettare e comprendere. Una ricostruzione che richiede ancor più coraggio e amore di quello mostrato durante la lunga convivenza forzata. Ma stavolta in un contesto completamente nuovo, fatto di memorie e scoperte, di nuovi spazi e chiusure psicologiche.

Non inedita invece la scioccante messa in scena del sistema mediatico statunitense, e della a tratti intollerabile solidarietà dei suoi partecipanti, ma è una parentesi. Ché feriscono di più certe dinamiche familiari o i giudizi che il film fa spontaneamente nascere nel suo incedere. Senza bisogno di indulgere nel 'Crime' o di sottolineare troppo alcuni accenni (tanto nei titoli di testa, intelligenti e anticipatori, quando nella citazione del Conte di Montecristo). Chiudendo, in compenso, la vicenda con una circolarità che in molti potranno trovare didascalica, ma che non è affatto priva di senso e di fascino.


Come la splendida protagonista (insieme al piccolo Jacob Tremblay) Brie Larson. La cui assenza dallo schermo - forse esagerata, per quanto breve - a un certo punto è decisamente necessaria alla completezza della narrazione. E della quale fa piacere poter evidenziare una interpretazione da nomination. E si sa che Toronto in questo senso è una mano santa, soprattutto per l'onda emotiva scatenata dal film proiezione dopo proiezione. Sarà "onda lunga"?

 
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