Mai come in questo momento la vita e i sentimenti dell’uomo moderno sono stati messi così tanto alla prova. Un nuovo mondo si prospetta, alla fine della più grande emergenza dal secondo dopoguerra; e intanto pensieri ossessivi, malinconia mista ad angoscia e a paura, cominciano a ripercuotersi su una popolazione privata dei suoi abitudinari ritmi di lavoro, consumo e tempo libero. Una società come quella occidentale si ritrova oggi rivoltata nella sua più intima essenza: si ritrova cioè a dover fare i conti con sé stessa. Ognuno si ritrova da solo. Chi in famiglia, chi in qualche alloggio studentesco, chi bloccato fuori, chi completamente solo in qualche appartamento nelle vie, ormai sgombre e silenziose, di Roma o Milano. L’unica compagnia, che non siano la rete sociale, il cellulare, le voci – divenute tragicamente familiari – dei rapporti della protezione civile, della televisione, dei telegiornali, diviene per molti la finestra; quella finestra a cui, in fondo, raramente si faceva caso quando la vita era normale.

Raramente si guardava oltre. Raramente ci si perdeva, non tanto nel panorama, quanto nella propria coscienza tramite quella piccola apertura verso il mondo esterno. La casa stessa era un luogo di passaggio. Si potevano scorgere persone di cui non ci importava nulla passeggiare nel marciapiede sottostante, notare dei panni appesi, senza che nulla dei colori e del tessuto potesse colpirci; si poteva scorgere una televisione accesa, o udire le grida o le risate provenienti da qualche altra abitazione. Tutto si risolveva come parte millesimale del nostro tempo. Tempo perso, presumibilmente. Tempo che sarebbe stato meglio dedicare ad altro, a qualcosa di produttivo. Ma il produttivo in questo momento non esiste più per molti di noi. Certo, esistono gli impegni che pur ci auto infliggiamo, nella speranza di non dover fare i conti con quella marea di tempo libero di cui ora, improvvisamente, disponiamo e che dobbiamo pur tuttavia adattare ad uno spazio che è estremamente limitato. D’un tratto quella finestra è divenuta il confine visibile tra noi e quanto sta succedendo, nonché il teatro delle nostre emozioni e dei nostri pensieri.

 

Chissà cosa avrebbe pensato quel Bernardo Soares inventato da Fernando Pessoa, qualora una simile pandemia lo avesse costretto a rimanere in casa, solo con la propria coscienza? Quel Libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, a cura di Antonio Tabucchi, rappresenta oggi un capolavoro letterario vivo e pulsante, un viaggio nell’interiorità dell’umano tremendo e sincero, il luogo in cui maggiormente si trovano dispiegate le paure e i pensieri di qualsiasi uomo sospeso oggi tra la propria realtà e quella esistente, tra la tragedia del mondo della frenesia e della produzione messo in ginocchio e la propria, effimera eppure mai così potente, capacità di immaginazione e di auto-introspezione. Ciò che prevale, nell’uomo in quarantena e in Soares, è certo inizialmente pura nostalgia:

Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l’angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita.

Quanta nostalgia ci pervade in questo momento? La luce in fondo al tunnel sembra così lontana, così inavvicinabile. Dopo questa esperienza non saremo più gli stessi. Il nostro mondo non tornerà mai come prima. Questo è quanto ci dicono. Questo è quanto, masticando e rimasticando il concetto, non sappiamo se interpretare in senso positivo o negativo. Intanto i giorni scorrono. Il piccolo viaggio interiore di Soares procede di pari passo, disilluso e per nulla speranzoso:

Sperare? Cosa devo sperare? Il giorno non mi promette altro che il giorno e io so che esso ha un decorso e una fine. La luce mi anima ma non mi migliora, perché uscirò da qui come sono arrivato qui: più vecchio di ore, più allegro di una sensazione, più triste di un pensiero. In ciò che nasce possiamo sentire ciò che in esso nasce o pensare ciò che in esso dovrà morire. Ora, sotto la luce ampia e alta, il paesaggio della città è come quello di un campo di case: è naturale, è esteso, è strutturato. Ma anche nel vedere tutto ciò, potrò forse dimenticarmi che esisto? La mia consapevolezza della città è, dal di dentro, la consapevolezza di me stesso.

Come sottolineato da Tabucchi, l’esistenza stessa di Soares pare ricomporsi e liquefarsi continuamente. Un ciclo continuo in cui la coscienza, anziché negarsi continuamente per rinascere in forme nuove, si nega e basta, viaggiando ad un ritmo lento ed incalzante al tempo stesso fino ad avvicinarsi al suo completo annullamento. Soares è la negazione costante della massima di Cartesio: è il pensare che non presuppone l’esistenza. Perché esistere è ben altra cosa. Quanti non riescono oggi a dare un senso a quanto sta avvenendo? Oltre a ciò che faremo dopo questa esperienza, oltre le videochiamate, oltre ai sondaggi o alle celeberrime challenge sui Social Network, chi o che cosa siamo noi in questo momento? Esistiamo senza essere in funzione di qualcos’altro?

Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio. Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo. In fondo la vita è in se stessa una grande insonnia e c’è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo.

Ci sdoppiamo e ci triplichiamo, come Pessoa e come il suo Soares (che è già un doppio o un triplo del poeta portoghese). La nostra coscienza fa i conti con sé stessa per un tempo che sembra non dover avere mai fine. Fuori si studiano soluzioni per uscire da questo stallo, mentre l’attesa per la rinascita sembra non dover finire mai. Intanto, come piccoli sovrani, presidenti o ministri del regno della nostra coscienza, individualmente cerchiamo una soluzione alla nostra personale crisi economica, che è crisi di sicurezze, che è desiderio di ricostruirci:

Il governo del mondo comincia in noi stessi. Non sono le persone sincere che governano il mondo, ma neppure le persone insincere. Sono coloro che fabbricano in se stessi una sincerità reale con mezzi artificiali e automatici; quella sincerità costituisce la loro forza ed essa brilla nei confronti della sincerità meno falsa degli altri.

Da qui sorge la critica di Soares al desiderio di veder cambiare il mondo (che oggi è il desiderio di molti, specie di quanti hanno scorto da anni le storture del nostro attuale sistema economico e sociale), senza prima voler cambiare se stessi:

Rivoluzionario o riformatore: l’errore è lo stesso. Incapace di dominare e di modificare il suo atteggiamento verso la vita, che è tutto, o verso se stesso, che è quasi tutto, l’uomo fugge volendo modificare gli altri e il mondo esterno. Ogni rivoluzionario, ogni riformatore, sono degli evasi. Combattere è non essere capace di combattere se stesso. Riformare significa essere incapace di correggersi.

Il viaggio nella coscienza di Soares, nella coscienza di un recluso, sfiora dunque le possibilità di un riscatto. Un riscatto senza illusioni, giacché «quando si è giocato a domino, che si sia vinto o che si sia perso, dobbiamo capovolgere le pedine, e il gioco finito è nero», ma pur con un’idea di sopravvivenza nel pieno delle facoltà e delle possibilità umane, libere finalmente dalle catene dell’utile che ora sono venute meno. Ci si scopre in grado di sopperire a sé stessi, nell’isolamento. Ci si scopre in grado di non dover dipendere da nessuno:

La libertà è la possibilità dell’isolamento. Sei libero se puoi allontanarti dagli uomini senza che ti obblighi a cercarli il bisogno di denaro, o il bisogno gregario, o l’amore, o la gloria, o la curiosità, che non si addicono al silenzio e alla solitudine. Se è impossibile per te vivere da solo, sei nato schiavo. Puoi avere ogni grandezza, ogni nobiltà d’animo: sei uno schiavo nobile, o un servo intelligente. Non sei libero.

Fu previdente Pessoa – pardon, Soares – nell’immaginare le reazioni di chi, giustamente, avrebbe avuto da ridire sul suo modo di interpretare la vita umana, e sui suggerimenti impliciti per poter sopravvivere a se stessi. Non si illude, infatti, Soares, della condizione spesso privilegiata che accompagna i grandi sognatori e i grandi malinconici:

Le grandi malinconie, le tristezze piene di tedio non possono esistere se non in ambienti confortevoli e di sobrio lusso. Per questo Egeus di Edgar Allan Poe può restare ore ed ore in languida concentrazione in un antico castello avito ove, al di là della grande porta della sala in cui la vita languisce, invisibili maggiordomi amministrano la casa e il cibo. I grandi sogni necessitano di certe condizioni sociali.

Vorremmo aggiungere: necessitano della sicurezza di non ritrovarsi, improvvisamente, senza lavoro, in cassa integrazione, con appena 600 euro mensili con i quali sostenersi a livello di beni essenziali. Non c’è nulla di poetico, nulla di costruttivo o di desiderabile in una condizione del genere per chi, già in questo momento, sta provando sulla propria pelle il disastro economico che si accompagna alla pandemia, su chi è consapevole degli enormi sacrifici che dovrà sopportare per sé e per la propria famiglia. Infine, non vi è apparentemente nulla di poetico in chi è ora in trappola in un appartamento squallido e minuscolo. Ma nella povertà, pur qualcosa si muove. Soares non è certo Poe o un visconte, o un barone. La sua condizione è quella del piccolo impiegato (come Pessoa, ndr), che vive al quarto piano di un anonimo edificio in Rua dos Douradores a Lisbona:

Ma perfino da questo quarto piano sulla città si può pensare all’Infinito. Un infinito con magazzini sottostanti, è vero, ma con le stelle all’orizzonte… È quanto mi viene alla mente in questo pomeriggio ultimo, presso questa alta finestra, nell’insoddisfazione del borghese che non sono e nella tristezza del poeta che non potrò mai essere.

L’infinito che immaginiamo può essere anche un infinito in carne ed ossa. Mai le persone ci sono sembrate così vive come in questo momento. Spettri dinanzi alla nostra indifferenza quando le strade erano piene, la vita fremeva, il lavoro ci occupava il tempo e la mente, ora li riscopriamo in quanto anime, in quanto coscienze. Ognuna con i propri problemi e con le proprie sofferenze:

Il disprezzo che sembra esistere fra uomo e uomo, l’indifferenza che permette che si uccidano persone senza capire che si uccide, come fra gli assassini, o senza pensare che si sta uccidendo, come fra i soldati, sono dovuti al fatto che nessuno presta la dovuta attenzione alla circostanza, che sembra astrusa, che anche gli altri sono anime.

Il cammino di Pessoa/Soares attraverso la quarantena si potrebbe pertanto concludere qui. Tra le espressioni sempre più rade dei volti familiari che si vedono per strada o in diretta video, di cui si ascolta la voce, con i quali si comunica e si cerca il contatto entro i limiti concessi dalle attuali restrizioni, nella ricerca mai così spasmodica e sentita di una umanità che si riscopre per ciò che è, in tutta la sua mortale e condivisa fragilità. Il mondo che sta crollando è solo esteriore. Stanno venendo meno soltanto le sovrastrutture di un pensiero e di un modo di vivere che aveva poco a che fare con la condizione umana. Liberi per la prima volta di esistere, ci riscopriamo in grado di sopperire alle mancanze che la società e il mondo sembravano essere in grado di sostenere con la sola forza artificiale del tempo che ci sottraevano. Diamo ascolto a noi stessi, giacché solo su noi stessi e su una società che si sarà riscoperta più umana di quanto non sia mai stata, su una social catena di leopardiana memoria presto potremo fare affidamento. Rimaniamo solidi e vigili, e vivi come nelle parole- forse le più belle – di Bernardo Soares:

Anche se intorno a noi crollerà ciò che fingiamo di essere, perché coesistiamo, dobbiamo rimanere impavidi: non perché siamo retti, ma perché siamo noi; ed essere noi significa non avere niente a che vedere con le cose esterne che crollano, anche se crollano su ciò che noi siamo per essere.