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« Il ricordo del comandant...Il ricordo del comandant... »

Il ricordo del comandante Gallo... assoluto protagonista, anzi principale; della resistenza (2a parte)

Post n°15732 pubblicato il 27 Maggio 2020 da Ladridicinema

Può darsi che da parte nostra ci sia stata, allora, qualche timidezza, qualche eccesso di prudenza nel ricorso a forme, diciamo, più energiche di lotta politica e sociale. Era certamente presente in noi la giusta preoccupazione di evitare e comunque di non offrire alcun pretesto allo scatenamento di una aperta offensiva reazionaria che si proponesse di mettere ancora una volta fuori gioco il partito comunista. Nel calcolo del rischio prevalse la tendenza ad evitare in partenza duri confronti con le forze reazionarie, con il padronato, con l’apparato repressivo di cui ancora oggi il suo relatore, l’ex ministro Scelba, mena vanto.

Può anche darsi che elementi di questo tipo abbiano a suo tempo avuto un loro peso. Ma bisogna contemporaneamente ricordare che lotte anche dure, aspre e sanguinose vi furono; vi furono scontri di classe drammatici (le grandi lotte per la riforma agraria con le occupazioni dei feudi; gli scioperi a rovescio delle masse dei disoccupati; le occupazioni di fabbriche per garantirne la sopravvivenza e lo sviluppo, ecc.) che diedero anche dei risultati. E bisogna ammettere, altresí, che anche se da parte nostra poterono esservi posizioni come quelle a cui ho accennato, esse in ogni caso non impedirono alle forze reazionarie di condurre, egualmente, contro il movimento operaio, contro i comunisti e i socialisti un’azione dura, violenta, anche sanguinosa, di persecuzione e di repressione.

Questo, infatti, è stato l’indirizzo seguito e attuato per molti anni dal momento in cui, nel 1947, De Gasperi ruppe, anche formalmente, il patto unitario della Resistenza, estromettendo dal governo i partiti di sinistra. Questa rottura, commentammo subito, equivale ad un vero e proprio colpo di Stato. È l’ipoteca dell’imperialismo americano che incombe e continuerà a gravare sul nostro paese, nonostante la partenza dall’Italia degli ultimi soldati americani, ai quali già subentrano «consiglieri», missioni e agenti statunitensi, in tutti i campi della nostra attività nazionale, prima ancora che l’Italia aderisca al Patto Atlantico. De Gasperi si fa strumento di questa soggezione all’ombra della quale la borghesia italiana si preoccupa di consolidare ed estendere il proprio predominio nella fabbrica, nello Stato, su tutta la società.

Commentando il colpo di mano di De Gasperi, Togliatti sottolineerà appunto il significato di rottura che esso viene ad assumere nel processo avviato dalla Resistenza: «Che cosa vuoi dire — scrive Togliatti — escludere dal governo — e senza il minimo motivo giustificato — i partiti, come il nostro e il socialista, che più direttamente sono legati alle classi lavoratrici? Vuol dire distruggere o tentare di distruggere la più grande conquista (dopo quella della repubblica) realizzata dal popolo italiano attraverso la guerra di liberazione e l’insurrezione nazionale antifascista. Vuol dire cancellare (o tentare di cancellare) la più grande novità, vorrei dire la più grande speranza della vita politica italiana in questo inizio di ricostruzione e rinascita democratica. Dal 1900 in poi (anzi, forse anche da prima) tutta la vita politica italiana gira attorno a questo problema dell’avvento dei partiti delle classi lavoratrici alla direzione politica del paese» («l’Unità», maggio 1947).

I dirigenti democristiani, scegliendo la via della rottura dell’unità democratica, popolare e antifascista, — osservavamo — tradiscono lo spirito col quale gli stessi lavoratori cattolici e democristiani hanno combattuto insieme con noi comunisti per quel nuovo regime democratico di cui la struttura politica unitaria del governo era una delle principali garanzie. Da qui l’appello nostro a tutti i combattenti della Resistenza perché non rinunciassero agli ideali comuni, perché pretendessero che i vertici politici e quello della Dc, in particolare, non tradissero il mandato loro affidato.

Bisogna ammettere, tuttavia, che la stessa Resistenza, o meglio gli uomini e i gruppi che ad essa più attivamente e coerentemente avevano partecipato, non riescono, nel clima di guerra fredda, a ritrovare quella unità e quella decisione che avevano dimostrato in passato, per respingere e condannare l’aperto tradimento dei propri ideali ed obiettivi. Certo, le fratture e le divisioni conseguenti alla guerra fredda furono assai profonde e passavano attraverso tutti gli schieramenti. Ma oggi possiamo anche ritenere che una più convinta, tempestiva e coerente iniziativa unitaria, nei confronti delle diverse componenti della Resistenza e dell’antifascismo, avrebbe potuto rendere meno profonde e meno durature quelle divisioni e rotture.

Intanto la politica dei governi «centristi», dominati dalla Dc, sbanda sempre più a destra, e in questa rincorsa a destra sarà inevitabile persino l’incontro tra i settori più reazionari della Dc con i relitti di Salò (i voti del Msi al sindaco di Roma Rebecchini) che così vedono legittimato il loro rientro sulla scena politica. In questo modo, — osservavamo, allora, — è la stessa tradizione antifascista della Dc, del vecchio partito popolare, ad essere offesa e spezzata dalla politica degasperiana.

Quanti non intendevano rinnegare l’esperienza vittoriosa della guerra di liberazione vengono da noi chiamati, in vista delle elezioni politiche dell’aprile 1948, a raccogliersi nelle file del fronte popolare. Si è discusso e, certamente, si continuerà a discutere sulla giustezza e opportunità di questo schieramento, con il quale le forze di sinistra affrontarono quella importante prova elettorale. Certo è che a quella formula si giunge, da un canto, per una tendenza ad arroccarsi in difesa, per fronteggiare l’offensiva reazionaria, e, dall’altro, nella convinzione, rivelatasi poi infondata, che da uno scontro frontale, blocco contro blocco, sarebbe scaturita una decisiva vittoria delle forze operaie e di sinistra.

A conti fatti, però, la carta decisiva, del 18 aprile 1948, fu quella del ricatto della fame e della paura, giocata spregiudicatamente dalla Dc sull’onda di una campagna anticomunista che ricalcava quelle del fascismo.

La massiccia mobilitazione della Chiesa, il peso delle forze internazionali schierate a suo sostegno consentirono, allora, alla Dc di conseguire quella forza che le permetterà di accelerare la marcia a destra, di inasprire l’offensiva contro le forze popolari, contro i lavoratori contro le sinistre e i democratici e di elevare a legge suprema, sua e dei suoi alleati, la discriminazione anticomunista.

Si apre la fosca stagione degli eccidi di operai e contadini, della brutale repressione di classe esercitata dagli organi polizieschi dello Stato contro i cittadini che chiedono lavoro, contro i lavoratori che reclamano condizioni umane nelle fabbriche, contro quanti manifestano per la pace o per avere il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero.

È da questo clima politico che nasce l’attentato al compagno Togliatti. In un momento così grave, di così acuta tensione — mentre esplode nel paese la collera e la commozione popolare — tocca a noi levare un monito fermo e responsabile nei confronti delle forze che sono responsabili dirette o indirette di questa profonda rottura della nazione, che soltanto con il ritorno al patrimonio di unità e di solidarietà nazionale della Resistenza può essere sanata.

Al governo che mostra di voler cavalcare sino in fondo la tigre dell’anticomunismo e della divisione degli italiani diciamo: «Troncate la vostra politica di violenza se non volete gettare il paese nella guerra civile. Senza lasciarci fuorviare dalle vostre provocazioni né intimidire dalle vostre minacce, siamo decisi a non lasciar calpestare le libertà popolari duramente conquistate nella lotta contro i nazifascisti. Le leggi fasciste vengono adoperate per calpestare i diritti del popolo e mentre viene assicurata impunità ai neofascisti si scatena la violenza contro l’opposizione popolare».

Eppure la Dc e il blocco di forze conservatrici che, attorno allo scudo crociato, sta costruendo nuovi equilibri di potere, si mostrano decisi a percorrere sino in fondo la strada della divisione e del tradimento della Resistenza. così, atti alla mano, in un discorso alla Camera, all’inizio del 1949, dovevamo rilevare che in carcere c’erano i partigiani, e non i loro seviziatori; che proseguivano su larga scala gli arresti illegali ed arbitrari di partigiani, mentre i fascisti continuavano ad avere mano libera.

Vergognoso risultava a questo punto il tentativo dei governanti di volersi creare un alibi attribuendo la responsabilità della reviviscenza fascista alla «amnistia Togliatti». Non era stata affatto quella amnistia a dar via libera ai rigurgiti fascisti. Era stato il modo di interpretarla e di applicarla. Ma, soprattutto, era la politica reazionaria dei governi a direzione democristiana a dare spazio e voce agli eredi del fascismo i quali trovavano un terreno di obiettiva convergenza con le forze clericali e conservatrici nella lotta sfrenata contro i comunisti, i socialisti, contro il movimento popolare.

In questa situazione, le stesse ricorrenze partigiane infastidiscono i governanti «centristi ». Se la Costituzione viene definita da Scelba una «trappola», la Resistenza è per il governo, per i dirigenti della Dc un fastidioso ingombro, qualcosa di imbarazzante, cui tutt’al più, si può dedicare il frettoloso discorso di un qualche sottosegretario.

Ma la Resistenza non può esaurirsi nelle celebrazioni rituali, affermavamo in un raduno partigiano tenuto a Venezia il 25 aprile del 1950. Obiettivi concreti e ideali della Resistenza sono minacciati o restano irrealizzati, come — anzitutto — il diritto di tutti i cittadini a partecipare alla soluzione dei problemi della nazione, che fu l’essenza stessa della Resistenza, dopo vent’anni di soffocante dittatura fascista esercitata sui lavoratori e contro i lavoratori. Si tratta, dunque, di riprendere uniti la lotta non solo per difendere questi ideali, ma per realizzarli concretamente.

Intanto è la stessa struttura degli apparati e dei corpi dello Stato a risentire le conseguenze e a riportare guasti assai gravi da un indirizzo di governo che ripudia pregiudizialmente l’indicazione e il programma unitario della Resistenza. Nel 1951, essendo in discussione alla Camera il bilancio della difesa, denunciavamo che tutta l’organizzazione militare italiana dipendeva, praticamente, dagli Stati Uniti e che a generali fascisti era consentito di complottare contro le istituzioni repubblicane. Come si vede era stato già apprestato un ottimo terreno di coltura per le future attività di organizzazioni fasciste (come la Rosa dei venti) in seno alle forze armate e per le velleità «golpiste» di qualche alto ufficiale infedele al giuramento di servire lealmente la repubblica e di difendere gli ordinamenti democratici.

Una prova delle conseguenze aberranti della politica anticomunista e della rottura della solidarietà antifascista si ebbe, del resto, in occasione delle elezioni amministrative del 1951-52, con la proposta avanzata da don Luigi Sturzo e caldeggiata dalle autorità vaticane, di realizzare una vera e propria alleanza tra Dc e Msi per la conquista del Campidoglio.

Il progetto cadde per l’opposizione di una parte della Dc e dello stesso De Gasperi. Resta il fatto significativo che un progetto del genere fosse stato avanzato a pochi anni di distanza dalla liberazione, da un uomo, come il fondatore del vecchio partito popolare che pure, in un passato non troppo lontano, aveva dato un personale e battagliero contributo alla tradizione dell’antifascismo cattolico. Quelle elezioni, però, segnarono una sconfitta elettorale della Dc la quale vistasi premuta, a sinistra, da una avanzata delle forze democratiche, e a destra da una affermazione monarchica, tenterà di dare, attraverso la «legge elettorale truffa», un carattere definitivo, di «regime» al proprio predominio politico. La sconfitta di questo deleterio progetto, sancita dal voto del ’53, segnerà la fine del settennio degasperiano e l’inizio dell’esaurimento della coalizione centrista e poi della faticosa gestazione del centrosinistra.

In questa lunga e tormentata fase di trapasso, come si può rilevare dai testi relativi a questo periodo, dietro la facciata «centrista», i dirigenti democristiani continuano a portare avanti, concretamente, un’opera di denigrazione della Resistenza, una «crociata antipartigiana», basata anche su falsi clamorosi e su grossolane montature, che fanno da pendant all’appello alla «solidarietà nazionale», esteso fino ai fascisti, che De Gasperi lancia allo scoppio della guerra di Corea, accompagnandolo con la proposta di misure eccezionali da adottare contro la «quinta colonna» indicata nel movimento operaio e nei comunisti.

Di fronte a questa china assai pericolosa la Resistenza ha un sussulto e dà una prima, ferma risposta a questi gravi propositi. La nostra denuncia degli scandalosi amoreggiamenti tra la Dc e le forze monarchico-fasciste, del tentativo di ricostituire, con cemento anticomunista e antipartigiano, lo stesso blocco conservatore e reazionario sfasciatosi il 25 aprile del 1943, è accompagnata da energici appelli all’unità di tutti i resistenti, di tutte le forze democratiche, contro ogni ritorno fascista. Si tratta – dicevamo – di ritrovare la strada unitaria di un impegno comune dando rilievo a ciò che ha unito gli antifascisti.

In un discorso pronunciato al Senato, il compagno Pietro Secchia leva la sua voce di dirigente della Resistenza contro quello che definisce «il tentativo delle forze fasciste di fare la loro vendetta». Si sviluppano nel paese i Comitati per la difesa dei valori della Resistenza a Roma, Napoli e Venezia; le tre grandi associazioni partigiane riunite confermano un impegno preciso «per l’unità della Resistenza, la difesa della Costituzione, contro il risorgere del fascismo».

Questo energico sussulto dimostra che nonostante i tradimenti, nonostante l’opera metodica di svuotamento, nonostante la seminagione di odio e di divisione fatta dalle forze conservatrici, la Resistenza è ancora una volta in prima linea e intende far sentire la sua voce. Dimostra, al tempo stesso, che i valori universali e gli obiettivi di rinnovamento di cui la Resistenza è stata portatrice non possono perire e restano la base valida per l’intesa e la collaborazione di tutte le forze che vogliono pace, libertà, democrazia.

Sarà il grande moto unitario antifascista del luglio ‘6o, esploso contro il tentativo del democristiano Tambroni di governare con l’appoggio dichiarato e determinante del partito neofascista, a segnare l’inizio di una generale riscossa della Resistenza e dell’antifascismo. La ribellione popolare di Genova contro la provocatoria pretesa, sostenuta dal governo, di fare svolgere nel capoluogo ligure il congresso del Msi, diede il via alle grandi manifestazioni antifasciste che dal nord all’estremo sud scossero l’intero paese. Gli eccidi e le brutali repressioni ordinate da Tambroni, diedero la misura delle minacce eversive e dei propositi autoritari che si nascondevano dietro la facciata del sedicente «governo di emergenza a carattere amministrativo» eletto per due volte con i voti determinanti dei fascisti.

Di fronte a queste concrete minacce e a questi propositi la Resistenza ritrova la sua ispirazione unitaria, la sua capacità di mobilitazione e di combattimento.

Nel rapporto presentato alla sessione congiunta del CC e della CCC del nostro partito il 18 luglio, infatti osservavo: «Esponenti cattolici e democristiani che furono alla testa della Resistenza, quando sulla Resistenza pendeva la costante minaccia della razzia, della deportazione, della fucilazione sul posto, non hanno esitato a solidarizzare con le proteste e lo sdegno di tutti. Persino l’organizzazione partigiana che raccoglie soprattutto cattolici e autonomisti ha partecipato in prima linea alla protesta e alle manifestazioni di questi giorni […]. La Unuri, a maggioranza Dc, organismo rappresentativo di tutti gli universitari italiani, ha detto in un appello: «si alla Resistenza, no al fascismo».

 

 
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