Le colonne di questo giornale sono sempre state coraggiose, travalicando il culto del politicamente corretto sono riuscite a raccontare, con professionalità e onestà intellettuale, le mille storture del mondo globalizzato e dei suoi adepti. Ed è grazie a questo coraggio che, anche questa volta, siamo riusciti a non voltarci dall’altra parte e ad affondare le mani nel più cencioso e mefistofelico olezzo, quello dell’accademia fine a se stessa. Chi scrive, in spregio delle più naturali leggi di autoconservazione, si è sciroppato ben diciassette minuti di Michela Murgia a briglia sciolta, diciassette minuti di prosopopea autoreferenziale e distruttiva che, in questo periodo così particolare, assumono le sembianze plastiche del masochismo. In altre occasioni avremmo lasciato correre, avremmo lasciato fare al tempo e alla sua notte d’oblio ma, in questo caso, ravvisando una pericolosità intrinseca all’accaduto ben maggiore del fatto stesso, abbiamo deciso di rispondere. L’attacco della scrittrice sarda, gratuito e infondato, alla persona e ai testi di Franco Battiato, definiti quest’ultimi delle “minchiate assolute”, secondo noi nasconde un pericolosissimo significato latente di stampo classista, sottolineante la deriva umana che una certa classe ha intrapreso. Ovvero: solo l’accademia, con i suoi tecnicismi e le sue odierne chiavi interpretative, può essere cultura.

Un salto indietro di un secolo all’interno del dibattito culturale, un balzo negante la profondità della cultura popolare e del suo significato sociale. Un balzo che rimarca, ancora una volta, la distanza siderale che si è creata, soprattutto nell’ultimo decennio, tra il popolo e l’élite culturale di questa Nazione. Ora, accettando il fatto che la soggettività in questi specifici campi non può non essere presa in considerazione, è riprovevole il tentativo contrario. Oggettivare il pensiero personale dall’alto della propria cultura più “sviluppata”, deridere e squalificare quello dell’ “avversario” che, nel caso specifico, è giusto ricordarlo, non è nelle condizioni fisiche di rispondere, è da vili. Slegare i testi di Battiato dalla sua musica è impossibile, scimmiottare il “Cuccurucucu paloma”, analizzandolo come semplice locuzione, è stupido, oltre che inutile. Battiato e la sua arte parlano per immagini e rimandi storici, tramite sentimenti comuni declinabili diversamente da ognuno di noi. Ci dipingono un immaginario onirico che ha i contorni del nostro reale, una base comune per interpretare la quotidianità. Spiegano, rappresentandola al meglio, la nostra dimensione di animale sociale, dove pubblico e privato della nostra esistenza devono coincidere per permetterci di vivere appieno: “emanciparmi dall’incubo delle passioni, cercare l’Uno al di sopra del bene e del male, essere un’immagine divina di questa realtà”.

È in questi versi che sta la grandezza di Franco Battiato, e si capisce perchè il materialismo progressista, impersonificato dalla Murgia, cerchi di ridicolizzarla. Colpire scientemente chi ancora tenta di rendere l’uomo intero nel suo profondo e nella società, questo il deplorevole fine. Del resto, troppe volte deve aver provato un moto di fastidio, un certo tipo umano, ascoltando il proseguo di “E ti vengo a cercare”, troppo netto il contrasto con se stesso: “E ti vengo a cercare, con la scusa di doverti parlare, perché mi piace ciò che pensi e che dici, perché in te vedo le mie radici. Questo secolo oramai alla fine, saturo di parassiti senza dignità mi spinge solo ad essere migliore, con più volontà”. Chi scrive, con un padre nato a Tunisi e il cuore lasciato ad Ognina, non può far altro che aspettare il ritorno dell’ “era del cinghiale bianco”, sperando di aver azzittito, anche solo per un momento, “La voce del padrone”.