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Monicelli, senza cultura in Italia...
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Messaggi del 02/08/2017
Post n°13927 pubblicato il 02 Agosto 2017 da Ladridicinema
http://hallofseries.com/westworld/perche-westworld-e-un-capolavoro/ MAGGIO 23, 2017 BY JACOPO BERTONE Nell’ottobre scorso “Westworld” ha fatto la sua comparsa sugli schermi italiani dopo una breve, ma intensa, campagna pubblicitaria che annunciava l’arrivo di questa Serie Tv un po’ western e un po’ di fantascienza, con il faccione di Anthony Hopkins a svettare implacabile su tutto e tutti nel chiaro tentativo di fungere da garanzia di qualità assoluta. Devo dire che l’approccio è stato quantomeno colmo di sospetto, dato che il “fantawestern” (un genere che solo gli americani potevano inventarsi) ha partorito negli anni un filotto di obbrobri di incalcolabile portata come “Cowboy vs. Aliens”, “Jonah Hex” o “Il West del Futuro”, tuttavia non avevo calcolato che questi prodotti facevano tutti parte del mondo cinematografico e che quando si entra nell’area della serialità, come per magia, tutto cambia. Il titolo ideato da Jonathan Nolan ha abbattuto nell’arco di una manciata di scene tutti i pregiudizi possibili e immaginabili, confermando che la qualità di cui sopra era stata predicata con cognizione di causa e issandosi di diritto a candidata principale per diventare la sorpresa del 2016. È passato un po’ di tempo, probabilmente il giusto per lasciar attecchire i pensieri e lasciare alle idee il tempo di svilupparsi appieno, ma ora non ci si può più esimere dal raccontarvi perché secondo noi di Hall of Series la prima stagione di “Westworld” (in attesa di una seconda che si preannuncia epocale) si può indiscutibilmente definire un capolavoro! Non occorre neanche dirvi che in questo articolo sono presenti degli SPOILER vero? Per carità, nulla di epocale, però vi consiglio di sgattaiolare altrove se proprio non volete essere contaminati in alcun modo.
Innanzitutto il tema, potentissimo ed alienante come solo una visione di Michael Crichton può essere. L’idea che possa esistere un parco a tema popolato da androidi con sembianze umane disposti a guidare i visitatori in avventure epiche, a fargli dimenticare le pressioni del mondo esterno e a mostrargli tutte le bellezze della natura selvaggia, oltre ovviamente a farsi picchiare, stuprare o ammazzare, è una genialata colossale molto ben mascherata da americanata squallida. Si perché è molto facile abbandonarsi alle considerazioni spicce e vedere marciume commerciale in ogni dove, specie nelle produzioni ad alto budget, però a volte è bene anche essere obiettivi e riconoscere la brillantezza che c’è nel concepire un luogo immaginario in cui letteralmente tutto è concesso, dove l’avveniristico e il pionieristico si fondono e gli uomini possono sfogare i loro istinti primordiali prima annichiliti e poi esaltati da un progresso arrivato talmente lontano da essere in grado di nascondere la propria grandezza e mascherarsi da elemento epico. Epico, avete letto bene. La civiltà statunitense non possiede delle vere e proprie radici antiche (o meglio, le possiede eccome, ma se le mostrasse bisognerebbe tirare in ballo anche uno dei più grandi genocidi della storia e allo Zio Sam non piacerebbe questo elemento), perciò si rifugia da sempre nel vecchio West e nelle imprese di questi uomini risoluti alla conquista delle terre selvagge per ritrovare la propria essenza e ripassare i contorni della propria storia, esattamente come un greco farebbe con l’Atene di Pericle, un romano con l’epoca imperiale e via discorrendo. “Westworld” mette in contatto i secoli e sospende le regole della morale, costituendo una sorta di microcosmo secolarizzato a disposizione di chiunque abbia abbastanza fegato per abitarlo che è anche il teatro della meravigliosa trama messa a punto da Nolan e Lisa Joy.
Al centro di tutto c’è Robert Ford, capo e ideatore del parco stesso, che negli anni ha perfezionato sempre di più la sua creatura introducendo residenti via via più complessi, veritieri e perfetti per rispondere alle richieste di un pubblico autorizzato a smembrarli pezzo per pezzo o peggio nel caso del misterioso Uomo in Nero. A prescindere da cosa può far loro anche la più perversa delle menti umane, gli androidi tornano sempre il giorno dopo, con la memoria resettata e il sorriso se possibile ancora più splendente di prima, pronti a intrattenere gli ospiti a seconda che la loro programmazione preveda di farsi sbattere come la maitresse Maeve, di tentare una rapina nei panni del temibile Hector Escaton o semplicemente di farsi ammazzare come il povero Teddy Flood, perennemente innamorato di Dolores Abernathy la quale, ahilei, è semplicemente destinata a soffrire. Lo stesso spettacolo, 24 al giorno, 7 giorni alla settimana e per tutto l’anno, con giusto qualche modifica narrativa qui e là per introdurre storie più avvincenti o personaggi nuovi. Cosa succederebbe però, se di colpo alcuni residenti riuscissero a ricordare e il loro ruolo non si riducesse più solo alla recita, ma fossero in grado di improvvisare? I file cancellati diverrebbero traumi, si inizierebbe piano piano ad uscire dagli schemi prestabiliti, nascerebbero delle ambizioni, si stuferebbero di incassare e basta…praticamente diverrebbero umani. Con l’installazione dell’aggiornamento denominato “le ricordanze”, Ford mette consapevolmente in moto un meccanismo che porterà alla ribellione delle macchine da lui stesso create, con conseguenze di portata sempre più distruttiva a partire dai primi, lentissimi episodi fino ad arrivare agli ultimi, potenti e primordialmente intensi quant’altri mai. Finalmente l’essere umano, come al solito il peggiore fra gli esseri viventi, paga tutti i suoi sbagli e quella che sembrerebbe essere la sua fine viene applaudita dal pubblico che, nonostante faccia parte della stessa razza, tifa istintivamente per gli oppressi e gli sfortunati dimenticandosi di essere fatto della stessa, marcia pasta dei cattivi. Ci rendiamo conto di quanto sia devastante questo messaggio e di quanto siano stati maledettamente bravi a metterlo in scena?
Chiunque abbia collaborato alla realizzazione di “Westworld” ha fatto un lavoro egregio. Nolan e Joy sono stati immensi e coraggiosi nel puntare su un concept così rischioso, nelle migliorie che hanno apportato e nella maniacale attenzione a ogni microscopico dettaglio. Chapeau. Ottimi voti anche agli effetti speciali, che erano pressoché fondamentali e non hanno mai annoiato, anzi, hanno esaltato le scene il più possibile (che è poi il compito che dovrebbero sempre avere, ma che raramente riescono a portare a termine al meglio come in questo caso). I costumi sono eccellenti sia per quanto concerne abbigliamenti sobri e molto western come quello del bastardone raffigurato qui sopra sia negli elaboratissimi corpetti delle prostitute da saloon, passando per gli abiti sporchi, rozzi e bellissimi degli sceriffi, dei bifolchi, delle massaie e di qualsivoglia bipede si possa scorgere in questo capolavoro. Nessuno escluso. E poi c’è il cast. Mamma mia che cast. Hopkins è Hopkins, non è neanche il caso di perdere tempo a dirvi quanto sia immenso. Ed Harrisha passato la vita a fare il cattivo riuscendo a non essere mai banale o ripetitivo, ma questo livello recitativo forse non l’aveva mai raggiunto. Jeffrey Wright conferma la sua ascesa nel tutt’altro che banale ruolo di Bernard, una figura complicata che ne racchiude una ancora più complicata, che il nativo di Washington ha gestito egregiamente. Thandie Newton diventa sempre più bella ogni giorno che passa ed è credibile tanto nei panni di sciacquetta quanto in quelli della cibernetica leader rivoluzionaria. Ottime figure anche per James Marsden ed Evan Rachel Wood, che incrementano la loro performance man mano che i loro personaggi prendono vita. Insomma, la prima stagione di Westworld è praticamente priva di difetti e si presta ad essere guardata, riguardata e vissuta dalla prima all’ultima inquadratura fino all’arrivo della prossima, per essere pronti al ritorno dei residenti che si preannuncia mirabolante fin da ora.
Post n°13926 pubblicato il 02 Agosto 2017 da Ladridicinema
La produzione sarà invece curata da Chernin Entertainment per conto della Fox Searchlight. La sceneggiatura è stata scritta da David Gleeson e Stephen Beresford e sullo schermo si racconterà la gioventù del famoso autore mentre trova amiciza, amore e l'ispirazione artistica grazie all'incontro con alcuni studenti, che vengono emarginati, a scuola. Gli eventi saranno ambientati prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, evento che rischia di distruggere il legame tra i giovani. La situazione ispirerà poi Tolkien a scrivere i suoi romanzi ambientati nella Terra di Mezzo.
Post n°13925 pubblicato il 02 Agosto 2017 da Ladridicinema
24/07/2017 - GIORGIO ROMEO Il cantautore calabrese si esibirà in concerto con Gino Paoli e Danilo Rea a Zafferana Etnea il 5 agosto: «Insieme ripercorreremo i brani di grandi cantautori come Tenco, Lauzi ed Endrigo. I miei progetti futuri? Entro la fine dell’anno pubblicherò il mio primo disco di piano solo» Sergio Cammariere foto Manuela Kalì «Per il filosofo René Guenon La grande triade non è altro che il tempo, il passato, il presente e il futuro, ma anche, in un’ambientazione più teologica la triade dello spirito santo. Per me condividere il palco con questi due grandi artisti ha un significato del tutto particolare, perché si creano dei momenti davvero magici». Quando parla della sua collaborazione con Gino Paoli e Danilo Rea, Sergio Cammariere non nasconde l’entusiasmo per un progetto che vede intersecarsi la grande canzone d’autore con il jazz, due delle sue grandi passioni. In effetti il concerto che li vedrà assieme sul palcoscenico dell’Anfiteatro Comunale di Zafferana Etnea sabato 5 agosto (ore 21) si prefigura come un evento unico, in cui i tre musicisti ripercorreranno le tappe salienti del cantautorato italiano: da Bindi a Tenco, da Sergio Endrigo a Lauzi passando per Herbert Pagani. Ad affiancare Sergio Cammariere sarà inoltre la band formata da Amedeo Ariano (batteria), Luca Bulgarelli (contrabbasso), Bruno Marcozzi (percussioni) e Daniele Tittarelli (sax). Parliamo di questo nuovo progetto: cosa significa per lei condividere il palco con Gino Paoli e Danilo Rea? «È puro divertimento. L’approccio è molto jazzistico: non abbiamo mai fatto una prova, ci limitiamo a scegliere nei camerini i pezzi che abbiamo voglia di suonare. In alcuni casi non decidiamo nemmeno le tonalità. Del resto ho a che fare con due grandi musicisti: lo stile pianistico di Danilo è inconfondibile, Gino Paoli invece è il capostipite, il più grande cantautore italiano. Gran parte del suo repertorio ha ispirato noi cantautori di un’altra generazione». Sergio Cammariere, Gino Paoli e Danilo ReaNel 1993 lei cantava «Cantautore piccolino confrontato a Paoli Gino». Com’è nato quel brano? «È stato un divertissement. Ricordo che un pomeriggio Roberto Kunstler – cantautore col quale condivido il mio percorso artistico da venticinque anni – tirò fuori un foglietto in cui elencava cantautori italiani come Bruno Lauzi, Sergio Endrigo e Umberto Bindi, molti dei quali erano miei amici, soprattutto Lauzi. Gino Paoli all’epoca vantava già una carriera trentennale ed era all’apice del suo successo, per cui era normale che io al confronto mi definissi un cantautore piccolino». Che rapporto avevate all’epoca? «Ho conosciuto Gino al premio Tenco in occasione di un omaggio a Sergio Endrigo, che allora era ancora vivente. Era un momento felice per la canzone d’autore italiana. Poi lo incontrai nuovamente sul palco nel 2006, quando dopo la scomparsa di Sergio fummo invitati entrambi a prendere parte a un concerto-tributo organizzato da Sergio Bardotti. In quella occasione lui cantò tre brani, e io feci lo stesso. Tra questi pezzi c’era una canzone scritta da Endrigo assieme a Vinicius de Moraes che ho inciso nel mio ultimo album». Il suo nuovo disco contiene anche un inedito scritto a quattro mani proprio con Gino Paoli. Com’è nata Cyrano? E come si relaziona al resto del suo nuovo disco, Io? «Da tempo avevo il desiderio di lavorare a un pezzo assieme a lui. Gli mandai alcuni provini strumentali e lui ne scelse uno, su cui poi scrisse il testo. La storia di Cyrano de Bergerac la conosciamo tutti, in questo senso la canzone è una specie di confronto tra padre e figlio. È un brano cui tengo molto, contestualizzato in un disco importante all’interno del quale ripercorro i miei successi in una nuova veste, supportato dalla mia band e dall’orchestra che conferisce al tutto un colore particolare». Come sta la canzone d’autore oggi? «Credo che ogni esperienza sia basata sull’ascolto del prossimo, sia nella vita sia in musica. Durante l’adolescenza mi piaceva moltissimo ascoltare Fabrizio De André, Francesco Guccini, Francesco De Gregori. La mia generazione suonava le loro canzoni con le chitarre a scuola ed eravamo pervasi da questi endecasillabi meravigliosi. Probabilmente i giovani di oggi, in questo senso, hanno meno riferimenti». Cosa si può fare per far fronte a questa mancanza? «Credo che la canzone d’autore rimanga viva solo se riletta e riscritta in ogni momento. Mi spiego meglio: durante i miei concerti suoniamo sempre le stesse canzoni, ma le approcciamo sempre in maniera diversa. È come se l’arrangiamento nascesse nel momento in cui eseguiamo il pezzo, solo così un brano può diventare davvero un evergreen». Sergio Cammariere foto Manuela KalìL’idea è quindi quella di trattare le canzoni come fossero degli standard jazz? «In un certo senso sì. Del resto questa è anche la nuova tendenza che c’è a New York: oggi anche i grandi jazzisti preferiscono suonare le canzoni dei cantautori al posto degli standard di Cole Porter, Tony Bennett o Frank Sinatra. Herbie Hancock, che è sempre stato uno sperimentatore, sta lavorando molto in questa direzione e propone spesso brani di cantautori, anche più giovani di me». Ha nominato Herbie Hancock. Chi sono i suoi riferimenti jazzistici? «Sono molti, anche se non tutti noti. Ad esempio Umberto Cesari, un pianista italiano molto attivo negli anni ’50 che ebbi modo di conoscere alla fine del millennio. Tra i miei ascolti preferiti poi ci sono Miles Davis, John Coltrane e Bill Evans». E Keith Jarrett? Com’è nata l’idea di incidere My Song? «Amavo molto il disco che incise con Jan Garbareck e mi era venuta voglia di fare una versione solo piano, che divenne l’intro di tutti i miei concerti nel 2003. Dieci anni dopo la incisi nel mio disco Cantautore piccolino». Oltre al jazz nella sua musica fanno capolino tante altre influenze, come quelle latinoamericane. Come le concilia con la tradizione cantautorale italiana? «Tra l’88 e l’89 ho avuto la fortuna di vivere una parte della mia vita a Rio De Janeiro, dove ho avuto modo d’incontrare tanti musicisti e assorbire quelle vibrazioni. Ho sempre amato la bossa nova, che continuo a cantare, ad esempio nel nuovo disco abbiamo inciso Con te o senza te assieme a Chiara Civello. In generale, comunque, sono sempre aperto a nuove culture: i miei viaggi, da Cuba all’Africa, mi hanno sempre ispirato». Anche la Sicilia rientra tra questi luoghi d’ispirazione? «In Sicilia vengo tutti gli anni e ci torno sempre volentieri perché penso che sia una terra molto bella. Mi sono fermato molto tempo alle Eolie, vagando da isoletta a isoletta, sono fonti d’ispirazione mitologica». A proposito di miti, possiamo dire che questi siano una costante nella sua produzione artistica? «Senza dubbio. Dalla pace del mare lontano, che è divenuta una delle canzoni manifesto della mia collaborazione con Roberto Kunstler, viene dalla storia mitologica di Itti e Senia raccontata ne “I figli del mare”, una poesia scritta a inizio novecento dal filosofo goriziano Carlo Michelstaedter. Il brano è una sorta di “traduzione” del testo poetico». Che progetti ha in cantiere per il futuro? «Entro la fine dell’anno uscirà il mio primo disco di piano solo, una scommessa che avevo in mente da tempo e che in qualche modo era già stata anticipata da un brano, Sila, contenuto nel mio ultimo album. All’interno ci saranno composizioni che avevo realizzato per il cinema e altri inediti».
Post n°13924 pubblicato il 02 Agosto 2017 da Ladridicinema
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Tantissimo cinema italiano, grandi star e il debutto della realtà virtuale: la 74, Mostra del Cinema di Venezia (30 agosto – 9 settembre 2017) sarà all’insegna della sperimentazione, dei giovani autori e di quelli George Clooney, Matt Damon, Kirsten Dunst, Jennifer Lawrence, Julianne Moore, Javier Bardem, Penelope Cruz, Valeria Golino, Filippo Timi, Adriano Giannini, John Landis, Robert Redford e Jane Fonda (che riceveranno i Leoni d’Oro alla Carriera), Charlotte Rampling, Sienna Miller, Michael Caine, Isabelle Huppert, Jim Carrey, Frances MacDormand, Judi Dench, Takeshi Kitano, Micaela Ramazzotti, Claudio Santamaria, Ethan Hawke, Helen Mirren, Donald Sutherland, Paolo Virzì, Michele Placido, Gianni Amelio. Il concorso pullula di grandi nomi, con i nuovi film di Clooney (Suburbicon), Guillermo Del Toro (The Shape of Water), Darren Aronofsky (Mother), Alexander Payne (Downsizing). Ma la novità principale dell’edizione è il Venice Virtual Reality, nuovo concorso dedicato alla realtà virtuale, “che probabilmente non sarà il futuro del cinema”, ha detto Alberto Barbera, “ma s’imporrà visti i grandi investimenti che l’industria culturale sta facendo in questo settore. È un ambito di ricerca interessante e frequentato da moltissimi cineasti che, pur continuando a fare cinema in senso tradizionale, sono curiosi di sperimentare le sue nuove potenzialità”: come Laurie Anderson e Tsai Ming-liang. I film di VR saranno “di tre tipologie diverse: una all’interno di un teatro più o meno tradizionale, con sedie girevoli visore Gear Samsung per i cortometraggi. Poi ci saranno 5 postazioni stand up in cui la gente, utilizzando la tecnologia Vibe, potrà vedere prodotti più elaborati, e infine una modalità ancora più complessa e interattiva, 6 installazioni nelle quali lo spettatore è costretto ad interagire con quanto i creatori hanno predisposto per lui”. La 74. edizione è particolarmente ricca di cinema italiano: “Quest’anno i film italiani sono tanti e la qualità molto alta”, dice Barbera. “I grandi autori, da Sorrentino a Garrone, da Bellocchio a Moretti, sono ancora al lavoro”, ha proseguito il direttore. “Ma quest’anno oltre a Virzì ci sono tanti esordi interessanti che escono dagli schemi abituali. Per noi, quasi una “nouvelle vague” del cinema italiano“. Tra i titoli italiani vedremo il nuovo film di Paolo Virzì, The Leisure Seeker, Brutti e cattivi di Cosimo Gomez con Claudio Santamaria, Marco D’Amore, Sara Serraiocco. Gatta Cenerentola animazione Alessandro Rak, La vita in comune di Edoardo Winspeare, Il colore nascosto delle cose di Silvio Soldini, Hannah di Andrea Pallaoro, Una famiglia di Sebastiano Riso. Non mancano gli scandali annunciati: il documentario Caniba sulla vera vicenda di cronaca di un giapponese che uccise e mangiò la fidanzata belga, e che racconta in prima persona quei fatti agghiaccianti, e Brawl in Cell Block 99, “due ore di violenza allo stato puro, un film di genere puro”. 74. MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA: TUTTI I FILM IN PROGRAMMA – Human Flow di Ai Weiwei – Mother! di Darren Aronofsky – Suburbicon di George Clooney – The Shape of Water di Guillermo Del Toro – L’insulte di Ziad Doueri – La Villa di Robert Guediguian – Lean On Pete di Andrew Haigh – Mektoub, My Love: Canto Uno di Kechiche – The Third Murder di Hirokazu Koreeda – Jusqu’a La Garde di Xavier Legrand – Ammore e Malavita dei Manetti Brothers – Foxtrot di Samuel Maoz – Three Billboard Outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh – Hannah di Andrea Pallaoro – Downsizing di Alexander Payne – Jia Nian Hua di Vivian QU – Una famiglia di Sebastiano Riso – First Reformed di Paul Schrader – Sweet Country di Warwick Thornton – The Leisure Seeker di Paolo Virzì – Ex Libris – The New York Public Library di Frederick Wiseman ORIZZONTI – Nico 1988 di Susanna Nicchiarelli – Disappearance di Ali Asgari – Espèces Menacées di Gilles Bourdos – Les Bienheureux di Sofia Djama – The Rape of Recy Taylor di Nancy Buirsky – Caniba di Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel – Marvin di Anne Fontaine – Invisible di Pablo Giorgelli – Brutti e cattivi di Cosimo Gomez – The Cousin di Tzahi Grad – The Testament di Amichai Greenberg – La Nuit Ou J’ai Nagé di Damien Manivel e Igarashi Kohei – No Date, No Signature di Vahid Jalilvand – Los versos del olvido di Alireza Khatami – Krieg di Rick Ostermann – West of Sunshine di Jason Raftopoulos – Gatta Cenerentola di Alessandro Rak – Under the Tree di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson – La vita comune di Edoardo Winspeare FUORI CONCORSO (fiction) – Casa d’altri di Gianni Amelio (cortometraggio) – Thriller in 3D di John Landis e Michael Jackson – Our Souls at Night di Ritesh Batra – Il signor Rotpeter di Antonietta De Lillo – Vittoria e Abdul di Stephen Frears – La Mélodie di Rachid Hami – Outrage Coda di Takeshi Kitano (film di chiusura) – Loving Pablo di Fernando Léon de Aranoa – Zama – La Fidèle di Michael R. 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