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Messaggi del 22/04/2020

 

Ma allora l'Italia aveva bisogno dei russi? da antidiplomatico

Post n°15663 pubblicato il 22 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

Ma allora l'Italia aveva bisogno dei russi?
 

di Fabrizio Verde
 

Il quotidiano ‘La Stampa’ informa che «alla luce delle esigenze emerse nel territorio piemontese» la regione ha chiesto l’intervento delle unità speciali russe che attualmente di trovano ad operare in quel di Bergamo. La richiesta sarebbe già stata avanzata all’ambasciata della Federazione Russa in Italia che ha informato come la decisione sull’eventuale invio del personale russo in Piemonte spetti alla Protezione Civile, che decide la dislocazione degli uomini russi già al lavoro in Lombardia e Puglia nell’ambito della missione d’aiuto decisa Conte e Putin «Dalla Russia con amore». 

 

A questo punto una domanda viene spontanea: visto che la coraggiosa inchiesta condotta proprio dal quotidiano torinese ‘La Stampa’ aveva informato che la missione russa è sostanzialmente inutile e gli specialisti di Mosca sarebbero venuti in Italia per compiere opera di spionaggio, in un luogo strategico come Bergamo, perché la regione Piemonte decide di rischiare di subire lo spionaggio di Mosca e chiede l’invio dei suoi uomini?

 

O forse quella del quotidiano torinese era l’ennesima sparata propagandistica realizzata per servilismo filo-atlantico? No, non possiamo credere a questa opzione. D’altronde vi è mai capitato sulle colonne de ‘La Stampa’ di trovare fake news volte a portare avanti la strategia di Washington? 

 
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George R. R. Martin e la Guerra delle Due Rose: la genealogia dei protagonisti di Game of Thrones

Post n°15662 pubblicato il 22 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

 

da pickline.itDalle lotte di potere tra Lancaster e York alla follia di Carlo VI, dalla deformità Riccardo III all’ostinazione di Margherita D’Angiò e Maria I Tudor. Tutte le analogie con i personaggi storici alla base della saga dei record

 

Se pensavate di aver già visto abbastanza in quel capolavoro di tecnica e scrittura che è Il Trono di Spade, potrete ricredervi leggendo dei fatti realmente accaduti nel corso di oltre due secoli di storia europea. Sanguinolente quanto basta, intricate lotte di potere con continui rovesciamenti di fronte suggeriscono e riportano alla mente la genealogia dei protagonisti e alcuni degli eventi di Game of Thrones che hanno lasciato il pubblico a bocca aperta. Lannister come Lancaster, Stark come York: due famiglie per un solo regno.

Sono tante le similitudini, ammesse dall’autore George R. R. Martin, tra la guerra che oppone le due grandi famiglie di Westeros e quella, storica, tra i due rami della dinastia dei Plantageneti in lizza per il trono d’Inghilterra nel ’400. Un conflitto che nell’Ottocento la fantasia dello scrittore Walter Scott ribattezzò Guerra delle Due Rose (la rossa e bianca), con una fantasiosa allusione agli stemmi delle due casate. Per trent’anni, i Lancaster e gli York, discendenti da figli cadetti di Edoardo III, si contesero il trono: a partire dal 1455, quando le pretese regali di Riccardo, duca di York, iniziarono a contrapporsi a quelle del re Enrico VI Lancaster, debole e mentalmente instabile, e della moglie Margherita d’Angiò. Dopo una lunga sequela d’intrighi, alleanze e battaglie, il figlio di Riccardo divenne sovrano col nome di Edoardo IV ma, alla sua morte nel 1483, suo fratello, un altro Riccardo (di Gloucester), si sbarazzò dei nipotini e legittimi eredi Edoardo V e Riccardo di Shrewsbury, dichiarandoli illegittimi e facendoli sparire nella Torre di Londra. Intanto, convinse il Parlamento a “supplicarlo” di diventare re, come Riccardo III. La contesa York-Lancaster riprese con il nobile gallese Enrico Tudor, discendente per via femminile dai Lancaster: nel 1485 uccise Riccardo in battaglia e sposò la figlia primogenita di Edoardo IV, Elisabetta di York, ricomponendo la frattura dinastica e inaugurando una lunga era di pace.

LEGGI ANCHE: Tutti gli eventi storici che hanno ispirato Game of Thrones

C’è da dire che, in Game of Thrones, gli Stark non sembrano aspirare poi troppo al trono, soddisfatti del loro antico ruolo di Protettori del Nord. Eddard Stark accetta, infatti, di malavoglia il ruolo di Primo Cavaliere del Re, che l’inadeguato sovrano Robert Baratheon gli impone (Riccardo di York divenne invece Lord Protettore del Regno dopo l’insorgere della pazzia di Enrico VI). Solo in seguito, con l’uccisione a tradimento di Ned e la diaspora della sua famiglia, gli Stark si vedono costretti al “gioco dei troni” contro i Lannister e i loro alleati. Un convincente filo rosso lega Eddard a Riccardo di York: entrambi sono guerrieri esperti e uomini d’onore, ed entrambi finiscono decapitati e con la testa infilzata su una picca. Ma sono tante le somiglianze anche con Guglielmo, Lord Hastings, grande amico di Edoardo IV e alleato di Riccardo III nell’ascesa al trono. Frutto di un incesto, Re Joffrey Baratheon è invece uno dei personaggi più crudeli e controversi dell’intera saga: capriccioso e ormai fuori controllo, viene sopportato a stento dai suoi sudditi, che organizzano una sommossa popolare nel tentativo di liberarsene. Ricorda molto la figura di Riccardo II e di Edoardo di Lancaster: unico figlio di Enrico VI d’Inghilterra e della consorte Margherita d’Angiò, si dice fosse frutto di una relazione tra la regina ed Edmund Beaufort. Il re adolescente a soli 13 anni si divertiva a tagliare teste, attaccare i suoi amici con la spada, la lancia o altre armi per puro svago e, ovviamente, andare in guerra. Sul fronte femminile, sono numerosi i paralleli tra la regina Cersei Lannister e la volitiva Margherita d’Angiò, moglie di Enrico VI e regista della causa Lancaster. L’umiliazione che precede la sua espiazione segue le orme della camminata in tunica di Jane Shore. Daenerys, ultima superstite dell’antica dinastia Targaryen, strizza invece l’occhio a Enrico Tudor: un lungo esilio oltremare, un’antica vendetta di famiglia da onorare, un trono da riconquistare. Tosta e indipendente, espande la sua influenza sguinzagliando draghi ma soprattutto regimentando flotte come la Regina Vergine, anch’essa rimasta nubile per preservare il proprio potere. Ma ci sono elementi che rimandano anche ad Alessandro Magno e Cleopatra.

Suo padre Aerys II, ultimo sovrano della dinastia Targaryen sul Trono di Spade, è il “re folle”: lo stesso epiteto che, nella dimensione della Francia medioevale, fu cucito addosso alla figura tragica di Carlo VI di Valois (1368-1422). In entrambi la pazzia si manifesta solo dopo anni di governo tutto sommato felici: Carlo VI si meritò all’inizio l’appellativo di “Beneamato”, salvo poi essere colto da delirio – a 24 anni, in un’afosa mattina dell’agosto 1392 nella quale attraversava una foresta – e, gridando al tradimento, avventarsi a spada sguainata contro i suoi cavalieri, uccidendone diversi prima di venire immobilizzato. L’anno dopo fu la volta del Ballo degli Ardenti, un ballo in maschera durante il quale per un incidente alcuni danzatori finirono arsi vivi: lo stesso re rischiò la vita, fu salvato dalla Duchessa di Berry e si giocò l’ultimo barlume di lucidità, lasciando spazio di manovra allo zio Filippo di Borgogna e alla moglie Isabella di Baviera. Le sue psicosi si aggravavano e Carlo fu colpito da una malattia misteriosa che gli provocò la caduta di tutti i denti e capelli. I suoi deliri erano ormai noti in tutto il regno, a un certo punto fu convinto di essere di vetro e decise di indossare delle stecche di ferro nei suoi vestiti per evitare di rompersi. Una follia, tra l’altro, “ereditaria”: nipote di Carlo fu Enrico VI d’Inghilterra (1421-1471), la cui demenza favorì l’insorgere della Guerra delle Due Rose, mentre Aerys è nipote di Aerion Targaryen, convinto di essere un drago sotto mentite spoglie umane.

“Deforme, incompiuto, spedito prima del tempo in questo mondo che respira, finito a metà, e questa [metà, ndr] così storpia e brutta che i cani mi abbaiano quando zoppico accanto a loro”. Nel monologo del Riccardo III di Shakespeare (1592), l’ultimo degli York, sovrano tra i più controversi della storia inglese, descrive così la sua sgraziata condizione fisica. Il nanismo e l’acume del Folletto traggono ispirazione dall’ultimo sovrano d’Inghilterra della dinastia di York e, stando alla descrizione di Tommaso Moro confermata nel 2012 dal ritrovamento dei suoi resti sotto un parcheggio di Leicester, il sovrano era davvero gobbo a causa di una grave scoliosi: deformità del corpo che secondo la versione shakespeariana, ispirata dai vincitori Tudor, era specchio dell’immoralità di quello che consideravano un usurpatore.

Nelle Cronache del ghiaccio e del fuoco a declamare quelle parole avrebbe potuto certamente essere il nano Tyrion Lannister, a cui quasi tutti gli altri membri della casata guardano con malcelato odio, fatta eccezione per il fratello. All’inizio della narrazione letteraria e televisiva, Tyrion è presentato come un gaudente dedito al bere e alle prostitute. Il frivolo scherzo di natura si rivela però pian piano meglio di come sembra, diventando un personaggio di primo piano nell’epopea della saga. Nel corso degli eventi dimostra grande acume, capacità di giudizio, lealtà verso la famiglia e persino coraggio in battaglia. Tratti positivi che a ben guardare, e al netto del cliché del “villain”, si ritrovano anche nel Riccardo storico, specie nelle interpretazioni più recenti. Riccardo III fu fedele alla causa del fratello Edoardo IV fino alla morte di questi, salvo poi, come Stannis Baratheon, dichiarare i nipoti illegittimi e avanzare pretese sul trono dopo la morte del congiunto. E fu veramente un guerriero valoroso, al punto di affrontare nella battaglia di Bosworth Field (1485), ormai praticamente solo, le armate soverchianti di Enrico Tudor. I soldati di Enrico, come l’esame delle sue spoglie ha dimostrato, infierirono crudelmente sul cadavere del deforme sovrano. Inoltre, proprio come Tyrion, Riccardo era un uomo di cultura, che sapeva discorrere in latino e che amava leggere. Entrambi hanno però una “macchia”: Tyrion fugge dopo aver ucciso il padre Tywin Lannister – ispirato a sua volta a Edoardo I, eternamente deluso dai figli – mentre il sovrano inglese è indicato, senza prove certe, quale mandante dell’uccisione dei principini nella Torre di Londra. Insomma, due personaggi in chiaroscuro. E due “cattivi” per i quali è difficile non provare una certa simpatia.

Altra figura decisiva nella Guerra delle Due Rose è Giorgio, il duca di Clarence, che a molti ricorda Theon Greyjoy, il vichingo evirato nella serie Tv. Giorgio e Theon si trovano entrambi ostaggi da bambini per colpe non loro, separati dai propri genitori. E devono affrontare la dilaniante scelta tra fedeltà al padre o al fratello (che per Theon era Robb Stark, adottivo ma non meno amato), scegliendo il primo, e pagando questo destino a caro prezzo. Theon viene torturato per tutta la terza stagione di Game of Thrones, Giorgio di Clarence fu annegato in una vasca di vino Malvasia. Jaime Lannister, Sterminatore di Re, è ispirato a Richard Neville (1428 –1471) Conte di Warwick: condottiero inglese e rampollo di una ricchissima famiglia inglese, cambiò schieramento appoggiando prima Enrico VI d’Inghilterra e poi Riccardo Plantageneto, guadagnandosi il soprannome di “Kingmaker”. Re Robert Baratheon – la cui morte in Game of Thrones scatena la guerra dei cinque Re – somiglia a Edoardo IV negli ultimi anni di vita, quando da carismatico condottiero si era trasformato in edonista e donnaiolo. Inoltre, come Robert, Edoardo IV è deceduto in uno strano incidente. Nella serie, Robert perde la vita andando a caccia, Edoardo morì durante una battuta di pesca. Se il machiavellico Ditocorto ha basato, invece, il suo villan doppiogiochista sul Principe manipolatore, figura controversa nella Firenze dei Medici, la sacerdotessa di R’hllor arde vive le persone in puro stile Maria I Tudor, meglio nota come Bloody Mary. La donna rossa condivide con la sovrana inglese l’attrazione per il fuoco, o meglio l’idea di condannare al rogo tutti coloro che osano opporsi alla sua religione.

E i fratelli Stark? Sansa, Arya, Bran, Robb e Rickon sono nati sì dalla fervida immaginazione di George R.R. Martin che ha aggiunto ai loro personaggi anche quel mix mistico e magico che li ha resi ai nostri occhi decisamente irresistibili. Ma nella realtà l’autore ha estrapolato da alcune leggende celtiche gli elementi più amati della Casa Stark, come la relazione con i loro lupi, la capacità di leggere nella loro mente e di controllarli. La storia dei principi nella Torre di Londra, che ricorda alla lontana quella dei due eredi più giovani degli Stark, Bran e Rickon, ispirati ai due principi infanti scomparsi e uccisi nella fatidica torre, alla morte del re padre. Figli di Edoardo IV e di Elizabeth Woodville, Edoardo V d’Inghilterra e Riccardo di Shrewsbury furono rinchiusi nella torre di Londra dallo zio Riccardo di Gloucester, lord protettore e capo del consiglio di reggenza, che avrebbe dovuto badare a loro in assenza del padre. Brienne di Tarth condivide con la Pulzella di Orleans la predilezione per abiti maschili, armatura e spada. Entrambe sono accumunate da un destino infausto, con la prima destinata a perdere le persone che ha servito e la seconda bruciata sul rogo con l’accusa di eresia. Sansa Stark rimanda infine ad Anne Neville che, dopo essersi sposata molto presto, perse padre e marito in battaglia, prima di convolare all’altare con l’ambizioso Riccardo III, dando inizio a un matrimonio sfortunato che ricorda quello della figlia maggiore di Eddard Stark con il folle Ramsay Bolton.

 
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Verso il 25 Aprile da wuming foundation (2a parte)

Post n°15661 pubblicato il 22 Aprile 2020 da Ladridicinema
 
Tag: STORIA

Molte «persone comuni» sono più avanti dei militanti

Numerose compagne e compagni hanno fatto un bel capitombolo, cadendo nelle trappola di cui sopra senza più riuscire a venirne fuori. Da là dentro hanno inveito,  con gli stessi “argomenti” dei cacciatori di untori, contro chi la differenza tra «a casa» e «in casa» continuava ad avercela presente e la rimarcava.

È prevalso un insieme di discorsi e posture regressivo, quando non reazionario. Col risultato che oggi la pratica reale di molte presunte «persone comuni» – che da settimane adottano microtattiche di disobbedienza e resistenza – è più avanzata di quella di molti super-ligi militanti.

Come abbiamo cercato di documentare, la rottura delle compatibilità dell’emergenza è partita come “sciame” di disobbedienze singole, visibili e invisibili, ma poi si sono avuti momenti collettivi.

In questa congiuntura, a «salvare l’onore» della sinistra antagonista, attuando la più esplicita messa in crisi del dispositivo securitario, sono state le compagne e compagni di Roma che hanno dato l’ultimo saluto a Salvatore Ricciardi. Quell’evento ha colpito l’immaginazione anche fuori dall’Italia, tanto che l’articolo in cui ne parlavamo è stato tradotto in diverse lingue: inglesespagnolo e portoghese.

San Lorenzo, 11 aprile 2020.

Che l’umore generale stesse gradualmente cambiando era evidente da almeno un paio di settimane, ma ora il cambiamento pare aver subito un’accelerazione. Riscontriamo che in molte discussioni on line chi difende lo #stareincasa si ritrova per la prima volta in minoranza, soprattutto quando si parla di abusi in divisa. Certo, come ha scritto Giulia Q in un commento,

«non è il caso di cantar vittoria: è in minoranza solo perché le vittime della violenza sbirresca stavolta sono italiane. Molti commenti chiedono “dov’erano le pattuglie e i droni quando chiedevamo di arrestare gli spacciatori?”»

Ma non è sempre così, ed è comunque una situazione diversa rispetto a dieci giorni fa.

Manovre intorno al 25 Aprile / 1

L’appello dell’ANPI nazionale a festeggiare il 25 Aprile dai balconi, cantando Bella ciao e sventolando il tricolore, ha lasciato l’amaro in bocca a molte persone.

A pensarci, è un rovesciamento ironico: il 25 Aprile siamo soliti ricordare la sconfitta di un tizio che comunicava dal balcone, e anche a quel balcone era appeso il tricolore. Siamo soliti ricordare quella sconfitta in piazza, anche perché è in una piazza che quel tale, consumato il tempo dei suoi flash mob, fu appeso a testa in giù.

Una settimana fa Massimo Zanetti ha condiviso qui su Giap la lettera che ha scritto all’ANPI di Bologna:

«Buongiorno,
leggo della vostra iniziativa per il 25 Aprile e rimango sinceramente sgomento.
Mi riferisco in particolare alla vostra concertazione con il Comune di Bologna.
Vorrei ricordarvi che il sindaco di Bologna è stato uno dei primi in Italia a chiudere i giochi e parchi pubblici, relegando i bambini in casa. Non pago, pochi giorni dopo in una intervista radio ha usato improprie metafore guerresche, chiamando alle armi i sindaci dei comuni limitrofi, che prontamente hanno chiuso i parchi e giardini pubblici, per combattere le, testuale, “sacche di resistenza” di cittadini che ancora portavano i propri figli al parco. Curioso, vero, definire resistenti chi ha a cuore la salute dei propri figli?
Vi ricordo anche che tutte le forze dell’ordine, carabinieri, polizia, esercito, vigili urbani, (ma anche le Guardie Ecologiche Volontarie) sono in giro spesso a redarguire, se non a multare chi fa raccogliere una margherita al parco al proprio figlio. Ho visto direttamente e ho raccolto testimonianze di interventi sbirreschi per impedire a bambini di giocare a ping-pong nel giardino condominiale o a fare un breve giro in bici attorno a casa.
Perfino la delazione è incentivata da quei signori con cui voi concertate di fare un flash mob!
Beh, ritengo che le misure coercitive prese contro i bambini siano non solo ingiustificate scientificamente (e questo lo ritiene pure l’OMS!) ma anche opprimenti.
Quindi, rimanere in casa e cantare dal balcone (per chi ce l’ha) è esattamente quello che vuole l’oppressore di mia figlia.
Spero cambiate idea e proporrete un atto di resistenza e di lotta per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza.»

Sono arrivate molte esortazioni a celebrare il 25 Aprile in modo degno e, soprattutto, non solo virtuale e nemmeno solo alla finestra. In strada. Sono circolate proposte magari incerte, sfocate, ma che testimoniavano di un’esigenza sentita da sempre più persone, e di una frustrazione crescente. Non solo la dimensione telematica non basta, ma qualunque iniziativa che cerchi di riprodurre nel virtuale ciò che di solito si fa per strada non può che risultare parodica.

Alle richieste di tornare in piazza sono seguite solo risposte vacue.

E come sempre accade, il vuoto viene riempito.

Manovre intorno al 25 Aprile / 2

Pochi giorni fa scrivevamo in un commento: «Subito dietro l’angolo potrebbe esserci qualcosa tipo Gilets Jaunes, purtroppo però più simile ai forconi, perché quanto già detto sull’assenza dei movimenti italiani impedisce quel lavoro che i movimenti francesi hanno fatto, il surf trasversale dentro l’ondata dei Gilets Jaunes».

Ed eccola arrivare, la convocazione in stile forconi per il 25 Aprile, con tanto di gruppo Telegram usato impropriamente come canale pubblico. Nel momento in cui scriviamo ha circa 23.000 iscritti. Sia detto en passant: la stragrande maggioranza degli aggiornamenti riguarda nuove iscrizioni: «Tizio si è unito al gruppo», «Caio si è unito al gruppo»… Si vedono nomi e cognomi ed è quasi tutto rumore, i pochi messaggi si perdono nel marasma. Siamo convinti che la maggior parte delle persone abbia già silenziato le notifiche. Chi ha aperto il gruppo sembrerebbe poco esperto di Telegram, ignaro della differenza tra gruppo e canale.

Che dentro questa chiamata per la festa della Liberazione – hashtag: #ilnuovo25aprile – ci sia l’estrema destra è tanto paradossale quanto certo: se ne sentiva l’odore lontano un miglio, anche prima di sapere dell’adesione esplicita di Forza Nuova.

Clicca per ingrandire. Il «nuovo 25 aprile» sarebbe, insomma, quello senza antifascismo.

È invece improbabile siano di estrema destra tutte le persone che stanno aderendo, molte per autentica disperazione. La rabbia è reale e non vede più steccati.

Se il primo tentativo neofascista di capitalizzare l’insofferenza diffusa – la «processione» di Pasqua organizzata da Forza Nuova – si è risolto in un flop, stavolta potrebbe andare diversamente.

Ma anche dovesse finire tutto in una bolla di sapone, resta grande amarezza nel vedere il 25 Aprile “dirottato” [détourné] in questo modo, per assenza di chi era solito celebrarlo, e i fascisti più avanti dei compagni nel proporre un passaggio all’azione.

A poco serve usare i forconi come babau – è già accaduto dopo gli “espropri proletari” di Palermo – se al malcontento si chiude ogni altra strada. Come ha scritto Tuco:

«Questo succede perché la quasi totalità della sinistra, in tutte le sue declinazioni, nemmeno il mugugno ha considerato ammissibile, nei confronti di questa contenzione di massa. Hai figli che stanno male perché non possono uscire all’aperto e vedere i loro amici? In realtà sei tu che malsopporti il sacro lockdown e proietti sui tuoi figli il tuo desiderio piccoloborghese di bere un campari. Allora è ovvio che il primo fascio che ti dà ipocritamente un po’ di ascolto, se non hai una preparazione e una convinzione politica profonda ti si piglia in due agili mosse. E mica dico che si dovrebbe organizzare cose, eh. Dico che anche solo un minimo sindacale di empatia per chi sta vedendo la sua vita implodere in un cubicolo di 50mq sarebbe qualcosa di meno reazionario dell’accelerazionismo da mosche cocchiere del virus.»

Il fatto che ampi settori dei movimenti si siano automarginalizzati con l’adesione acritica – o troppo poco critica – all’ideologia dello #stareincasa oggi impedisce loro di incontrare questa rabbia, o anche solo di capirla.

Non è comunque detto che riescano a farlo i fascisti. Al momento è qualcosa di ancora troppo inarticolato, di imprevedibile. È un rumore sordo che sale.

Tornando a noi: vogliamo farci scippare il 25 Aprile da camerati e affini?

Senza annunci e fuori da ogni ufficialità, «piccole unità mobili e intelligenti» stanno organizzando blitz comunicativi, pellegrinaggi a luoghi della memoria partigiana, azioni di vario genere. Che cento fiori sboccino. Magari molte azioni non sembreranno chissà cosa, alcune non verranno bene, altre verranno bloccate dalle fdo prima di cominciare… Ma sempre meglio del tricolore al balcone, che è quanto di più regressivo e fuori fase si potesse proporre in un momento così.

Riprendersi lo spazio pubblico: due condizioni necessarie

È urgentissima una riflessione su come ricominciare a prendersi lo spazio pubblico, su come rompere le compatibilità dell’emergenza, senza farsi illusioni sulla cosiddetta «Fase 2».

È possibile organizzarsi anche rimanendo formalmente dentro le norme ma sostanzialmente tornando a fare iniziative pubbliche nello spazio fisico, nelle città. La settimana scorsa, in Polonia, il movimento delle donne è sceso in piazza – rispettando le distanze di sicurezza – per protestare contro l’ennesimo tentativo di vietare l’aborto. Bisogna ragionare almeno – almeno – su modalità simili.

Varsavia, 14 aprile 2020. Protesta contro l’ennesimo attacco al diritto di abortire.

Una condicio sine qua non per ragionare su come riprendersi lo spazio pubblico, naturalmente, è dissipare l’equivoco tra «stare a casa» e «stare in casa», e combattere in ogni modo la demonizzazione dell’aria aperta. Demonizzazione che si perpetua anche tramite l’obbligo di mascherina pure quando non serve.

L’altra condizione necessaria è ritenere che videoriunioni e assemblee virtuali siano palliativi, o comunque forme a cui siamo costretti obtorto collo, che dovrebbero lasciarci fortemente insoddisfatti e desiderosi di tornare a fare quelle vere.

Videoriunioni ne abbiamo dovute fare tutti. La differenza d’approccio è tra chi le ha sopportate senza farsele piacere per forza, e chi invece ne ha parlato con entusiasmo, con spreco di retorica e toni e titoli roboanti. Cattiva utopia, per dirla col compagno Marco Bascetta, che ha pienamente ragione quando scrive:

Marco Bascetta

«Qualcuno valuta con speranza l’impossibile ritorno alla “normalità”, poiché questa era contrassegnata da ingiustizie, diseguaglianze, sfruttamento. Ma anche prescindendo dal fatto che non serviva certo un virus per smascherarle e che nulla ce ne mette automaticamente al riparo, “normalità” ha anche un altro irrinunciabile significato.

Vale a dire la natura sociale, relazionale, affettiva, corporea, sensibile, dell’animale umano. La sua propensione ad attraversare situazioni e ambienti sempre diversi e a sperimentarvi tutti i suoi cinque sensi.

Quali effetti possa determinare una prolungata privazione di questa “normalità” per una intera popolazione (e per la sua salute in senso pieno), nonché l’assurda demonizzazione dell’aria aperta, è qualcosa che non possiamo prevedere nella sua devastante portata.

Che la dimensione telematica possa riassorbire e restituire tutto questo, o anche solo surrogarlo pro tempore è più che una cattiva utopia, una triste illusione.

Dietro la mimica impoverita, lo sguardo perso nel vuoto, l’ordine sequenziale di ogni comunicazione virtuale si percepisce facilmente questa semplice verità. E poiché altra forma attualmente non ci è concessa (non è una possibilità “in più”, ma molte in meno) lo schermo ci appare più che altro come il parlatoio di un carcere con i suoi orari e le sue regole.»

E ha ragione la già citata Ginevra Bompiani quando scrive

«non lasciamoci addomesticare dalle serie tv, dagli zum, dai webinar, senza i quali non sarebbero mai riusciti a tenerci rinchiusi».

Soprattutto, ha ragione Filo Sottile quando, nel preambolo al suo spettacolo on line Pesci rossi, dice:

«Fare spettacoli così È UNA MERDA».

Anche fare riunioni così è una merda.

Spacchiamo il vetro del parlatoio e usciamo di prigione. Scagliamo il lavabo di marmo contro la vetrata. È ora di fuggire dal manicomio e tornare per strada.

In forme per ora diverse da quelle di prima, ma tornare per strada.

Prima cominciamo, meglio è.

 
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Verso il 25 Aprile da wuming foundation

Post n°15660 pubblicato il 22 Aprile 2020 da Ladridicinema
 
Tag: STORIA

 

Verso il 25 Aprile. Riflessioni urgenti sulla necessità di rompere il vetro e tornare in strada

 

di Wu Ming

Oggi, 21 Aprile, celebreremo a modo nostro l’anniversario della Liberazione di Bologna. Non in “telepresenza”, ma nello spazio fisico. Niente “convocazioni”, ci muoveremo da soli, prendendoci in prima persona le responsabilità del caso.
Vogliamo fare qualcosa anche il 25 Aprile. A tale proposito, ecco alcune riflessioni.

Pochi giorni fa, a Torino, due auto e due jeep dei carabinieri hanno inscenato una vera e propria retata per prelevare, perquisire e multare un militante del Centro Sociale Gabrio, reo di aver distribuito un volantino davanti a un supermercato, nell’ambito della raccolta di beni di prima necessità SOSpesa, organizzata per aiutare chi è in difficoltà economica.

L’altroieri, sempre a Torino, l’incrocio tra corso Giulio Cesare e Corso Brescia è stato occupato da uno squadrone misto di forze dell’ordine ed esercito, decine di divise, allo scopo di accerchiare e portare via di peso quattro compagne/i, colpevoli di aver contestato il trattamento inflitto a due giovani immigrati. Tutt’intorno, per strada e alle finestre, molte persone protestavano per l’eccessivo dispiegamento di forze e la tracotanza degli uomini in divisa.

Media e politici hanno subito giustificato l’operato di agenti e soldati dicendo che a monte c’era lo scippo di una collanina. Come se, partendo da un aneddoto di microcriminalità individuale, fosse accettabile una simile escalation.

Toh, la repressione!

Questi non sono exploit isolati, né la repressione colpisce solo immigrati o militanti. La decretazione d’emergenza e l’epidemia di ordinanze e divieti – sovente assurdi – hanno dato alle forze dell’ordine molta più discrezionalità di quanta già ne avessero (ed era già molta). A farne le spese direttamente, in queste settimane, sono state migliaia di persone.

Questa, a titolo di esempio, è una rassegna di episodi significativi accaduti in Sardegna nei giorni scorsi. Un’altra rassegna si può leggere su Osservatorio Repressione. Noi stessi, qui su Giap, riceviamo testimonianze da settimane, basta leggere queste discussioni: 123 e 4.

Dopo una lunga fase in cui a occuparcene eravamo in pochissimi, ora persino alcuni media mainstream sembrano avere scoperto gli abusi in divisa in tempi di lockdown. Addirittura Repubblica!

Negli ultimi due mesi, quel giornale ha fatto di tutto per seminare terrore, paranoia e leggende metropolitane. Al volo, ricordiamo solo «il virus è nell’aria», le foto di resse che non c’erano, i titoli a cinque colonne che descrivevano già situazioni di due settimane dopo, col risultato di orientare scelte politiche, divieti, comportamenti… Due mesi trascorsi a difendere anche gli aspetti più inaccettabili e vessatori della politica del lockdown, a indicare capri espiatori e tormentare presunti «furbetti» in modi che per rozzezza avevano poco da invidiare alle cacce all’uomo condotte da Barbara d’Urso, di cui erano solo una versione più appetibile al pubblico di “centrosinistra”.

Dopo due mesi così, a un certo punto Repubblica comincia a parlare di «clima pesante», e ti piazza pure un articolo contro gli abusi compiuti dalle fdo, con tanto di attacco allo «stato sceriffo». Diffonde anche un video dove un parroco del cremonese, don Lino Viola, si oppone con fermezza e dignità all’interruzione manu militari della messa che sta celebrando di fronte a pochissimi fedeli, tutti con mascherine e ben più che a distanza di sicurezza.


Naturalmente non si va un millimetro oltre la narrazione delle «mele marce»: questi episodi sarebbero da imputare a membri troppo zelanti o singolarmente «spietati» di PS, polizie locali e Arma.
Come se non fosse stato il clima di timor panico creato dai media a rendere possibili questi abusi.
Come se la discrezionalità di operare in quei modi non l’avesse data alle forze dell’ordine la stessa decretazione d’emergenza di cui Repubblica è stata punta di lancia mediatica.
Ora si sono accorti che il clima è cambiato e, dopo il cerchio, danno qualche colpo anche alla botte, confidando nella smemoria diffusa e nell’abitudine a far passare tutto in cavalleria.

Repubblica è il giornale di riferimento della sedicente “sinistra” neoliberale, non era lecito aspettarsi niente di diverso. Dal nostro punto di vista, il problema è che nella comunicazione delle sinistre più “radicali” e “di movimento”, con poche lodevoli eccezioni, non s’è visto granché di meglio.

Quelli che «la libertà? Pfui!»

C’è chi si è ostinato a negare il problema delle libertà compresse dal lockdown, usando con sarcasmo gli stessi diminutivi banalizzanti dei governatori o sindaci celoduristi, da Fedriga a De Luca: la «corsetta», la “passeggiatina”… Si è arrivati a dire che la libertà era faccenda da borghesucci annoiati del proprio salotto, una pseudo-questione agitata da intellettuali che scalpitavano per tornare a farsi l’aperitivo ecc.

Questo mentre l’intera popolazione – e alcuni soggetti molto più di altri, come sempre – era sottoposta all’arbitrio indiscriminato delle fdo, senza nemmeno la possibilità di sapere come e quando stava infrangendo una legge, perché a consentire ogni arbitrio era il caos normativo: decreti nazionali, circolari interpretative, ordinanze regionali, circolari interpretative delle ordinanze regionali, ordinanze comunali, circolari delle polizie municipali, aggiornamenti del modulo per l’autocertificazione…

Si sono sprecate battute e invettive su «i Wu Ming si occupano di passeggiate» e – horribile dictu! – di «libertà individuali». Più di qualcuno ha fatto finta di non capire – o forse, imparanoiato e succube, davvero non riusciva più a capire – che a essere colpite in ultima istanza erano e sono le libertà collettive.

A subire un attacco preventivo è la libertà di organizzarsi e di lottare nella crisi, nella recessione che sta arrivando. Ne va della possibilità futura di fare riunioni, assemblee, manifestazioni, presidii, sit-in, picchetti e in generale di attraversare e vivere lo spazio pubblico fisico. Per stroncare le prossime lotte, le prossime occupazioni, la repressione adotterà motivazioni sanitarie. Con alcune lotte di lavoratori è già successo, e non solo in Italia, come dimostra il caso Amazon/Smalls.

Si è arrivati a questa situazione principalmente perché i due precetti più ribaditi in quest’emergenza, «stare a casa» ed «evitare assembramenti», rotolando giù dal piano inclinato senza che nessuno li fermasse per verificarne le implicazioni, si sono trasformati in prescrizioni mostruose.

«Stare a casa» non vuol dire per forza stare in casa

Dalla necessità di «stare a casa», cioè di chiudere i luoghi dove ci si assembrava lavorando o consumando, in men che non si dica si è passati all’obbligo di «stare in casa», che è cosa ben diversa.

Sentirsi ripetere fino alla nausea, a reti unificate e titoli sbraitati di fronte alle edicole, che bisognava stare in casa, ha portato milioni di persone a blindarsi vive, con conseguente demonizzazione dell’aria aperta.

Demonizzazione selettiva e incoerente, però. Colpiva solo le attività disinteressate, gratuite, fatte per mantenere un minimo di qualità della vita: correre, passeggiare, giocare col proprio figlio… Guardacaso, attività non in linea col produci-consuma-crepa del capitalismo.

Durante il lockdown, il produci-consuma-crepa si è imposto come mai prima, e senza il minimo contrasto: o andavi al supermercato, o andavi a farti sfruttare, o non andavi da nessuna parte. E c’erano pure sedicenti “anticapitalisti” che erano d’accordo.

Che cos’è un «assembramento»?

L’altra dinamica a cui abbiamo assistito è stata l’estensione a qualunque cosa del concetto di «assembramento», già problematico di per sé.

Sul rapido e prepotente riemergere di questo termine nell’immaginario italiano abbiamo già scritto qualche appunto. Pensiamo si sia trattato di un «riflesso condizionato culturale», una risposta pavloviana legata alla mancanza di un’elaborazione seria del passato fascista. L’interpretazione di «assembramento» che si è affermata all’istante proviene direttamente dal ventennio, dal Titolo 2 del TULPS (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) del 1931 e dal regolamento delle colonie di confino, dove era «assembramento» il semplice passeggiare insieme se in numero superiore a due.

Durante l’emergenza coronavirus siamo andati persino oltre: è diventata «assembramento» praticamente qualunque azione compiuta fuori casa a parte il lavorare in fabbrica e lo stare in fila – sovente chilometrica – davanti al supermercato. Se esci di casa con tua moglie e tua figlia è già assembramento, anche se vivete insieme; se porti tuo figlio a fare la spesa è già assembramento; se ti fermi a salutare un’amica a distanza di sicurezza è già assembramento, come nell’aneddoto raccontato qualche giorno fa da Ginevra Bompiani:

Ginevra Bompiani

«Oggi, per andare in libreria, ho attraversato per la prima volta un pezzo di città. Ho cercato d’imprimermi negli occhi quel che vedevo: rari passanti che si aggirano con la museruola bianca. A un certo punto ho incrociato un’amica e a salubre distanza ci siamo sbracciate per salutarci. Una macchina della polizia si è fermata. «È possibile incontrare per strada un’amica e non salutarla?». E il poliziotto: «Ci vuole pazienza..». Sì, ce ne vuole molta, ma con chi? Con l’epidemia? O con chi sta sostituendo al nostro il suo libero arbitrio? A chi faccio del male salutando un’amica da lontano? A nessuno. E allora perché la polizia ha facoltà d’interromperci? E quella di comminarci fino a 4000 euro di multa? Quando è stata votata la legge che ci toglie la facoltà di decidere il margine di rischio che vogliamo correre?»

 
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In Olanda falla nell'app per il tracciamento dei casi covid: esposti i dati degli utenti da huffingtonpost

Post n°15659 pubblicato il 22 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

"Un errore umano, in mezz'ora abbiamo risolto", ha detto uno dei creatori dell'app Covid19 Alert

In tutto il mondo, compresa l’Italia, i paesi si stanno dotando di un’app di tracciamento del contagio del coronavirus e si è aperto un dibattito sulla privacy e la sicurezza. E proprio in questi giorni, una delle applicazioni proposte al governo olandese, Covid19 Alert!, ha subito un ‘data breach’, cioè una esposizione di dati. Mentre il Liechtenstein sperimenta anche un braccialetto elettronico.

Stando a quanto scrive il quotidiano DeStandard, circa 100-200 nomi, email, password criptate sono state rese pubbliche. “Un errore umano, in mezz’ora abbiamo risolto”, dice uno dei creatori dell’app Covid19 Alert!. I dati, non si comprende la causa, erano accessibile da una diversa app degli sviluppatori, un problema causato, secondo gli stessi, dalla fretta e “da un errore umano”. L’app consente di comprendere se con il telefono si è stati vicini a quello di un paziente con il coronavirus, esattamente come accade per altre applicazioni, compresa Immuni, quella scelta dal governo italiano. Gli sviluppatori hanno invitato le persone che hanno usato l’app ad eliminare i dati memorizzati ed è stato anche informato il Garante privacy olandese.

Oltre alle app, alcuni paesi sperimentano il tracciamento del Covid-19 con i braccialetti. Accade nel Liechtenstein dove è in corso uno studio su base volontaria che coinvolge oltre duemila persone tra i 33 e i 52 anni che useranno un braccialetto elettronico per monitorare la salute. Se funziona, l’esperimento verrà esteso. A metà marzo a Hong Kong è stato imposto il braccialetto elettronico ai viaggiatori provenienti da altri paesi.

 
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Distanziati dalla democrazia da il manifesto

Post n°15658 pubblicato il 22 Aprile 2020 da Ladridicinema
 

«Il distanziamento sociale è qui per rimanere molto più di qualche settimana. Stravolgerà il nostro modo di vivere, in un certo senso per sempre»: lo hanno annunciato i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, una delle più prestigiose università statunitensi (MIT Technology Review, We’re not going back to normal, 17 marzo 2020).

Essi citano il rapporto presentato dai ricercatori dell’Imperial College London, secondo cui il distanziamento sociale dovrebbe divenire una norma costante ed essere allentato o intensificato a seconda del numero di ricoverati per il virus nei reparti di terapia intensiva.

Come bene hanno spiegato i due speciali de il manifesto («Data Virus» e «Post Virus»), il modello elaborato da questi e altri ricercatori non riguarda solo le misure da prendere contro il coronavirus.

Esso diviene un vero e proprio modello sociale, di cui già si preparano le procedure e gli strumenti che i governi dovrebbero imporre per legge. I due giganti statunitensi dell’informatica Apple e Google, finora rivali, si sono associati per inserire nei sistemi operativi di miliardi di cellulari iPhone e Android, in tutto il mondo, un programma di «tracciamento dei contatti» che avverte gli utenti se qualche infettato dal virus si sta avvicinando a loro.

Le due società garantiscono che il programma «rispetterà la trasparenza e la privacy degli utenti».

Un sistema di tracciamento ancora più efficace è quello dei «certificati digitali», a cui stanno lavorando due università statunitensi, la Rice University e il MIT, sostenute dalla Bill & Melinda Gates Foundation, la fondazione statunitense creata da Bill Gates, fondatore della Microsoft, la seconda persona più ricca del mondo nella classifica della rivista Forbes.

Lo ha annunciato lui stesso pubblicamente, rispondendo a un imprenditore che gli chiedeva come poter riprendere le attività produttive mantenendo il distanziamento sociale: «Alla fine avremo dei certificati digitali per mostrare chi è guarito o è stato testato di recente, o quando avremo un vaccino chi lo ha ricevuto» (The Blog of Bill Gates, 31 questions and answers about COVID-19, 19 marzo 2020).

Il certificato digitale di cui parla Gates non è l’attuale tessera sanitaria elettronica. La Rice University ha annunciato nel dicembre 2019 l’invenzione di punti quantici a base di rame che, iniettati nel corpo insieme al vaccino, «divengono qualcosa come un tatuaggio con codice a barre, che può essere letto con uno smartphome personalizzato» (Rice University, Quantum-dot tattoos hold vaccination record, 18 dicembre 2019).

La stessa tecnologia è stata sviluppata dal Massachusetts Institute of Technology (Scientific American, Invisible Ink Could Reveal whether Kids Have Been Vaccinated, 19 dicembre 2019). L’invenzione di questa tecnologia è stata commissionata e finanziata dalla Fondazione Gates, che dichiara di volerla usare nelle vaccinazioni dei bambini principalmente nei paesi in via di sviluppo.

Essa potrebbe essere usata anche in una vaccinazione su scala globale contro il coronavirus. Questo è il futuro «modo di vivere» che ci viene preannunciato: il distanziamento sociale ad assetto variabile sempre in vigore, la costante paura di essere avvicinati da un infettato dal virus segnalato da uno squillo del nostro cellulare, il controllo permanente attraverso il «codice a barre» impiantato nel nostro corpo.

Senza sottovalutare la pericolosità del coronavirus, qualunque sia la sua origine, e la necessità di misure per impedirne la diffusione, non possiamo lasciare in mano agli scienziati del MIT e alla Fondazione Gates la decisione di quale deve essere il nostro modo di vivere. Né possiamo smettere di pensare, ponendo delle domande.

Ad esempio: è molto grave che le morti da coronavirus in Europa siano attualmente quasi 97.000, ma quali misure si dovrebbero in proporzione prendere contro le polveri sottili, le Pm2,5, che – dai dati ufficiali della European Environment Agency (Air quality in Europe, 2019 report) – ogni anno provocano in Europa la morte prematura di oltre 400.000 persone?

 
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