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Messaggi di Luglio 2015

 

Brancaleone alle crociate

Post n°12470 pubblicato il 30 Luglio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: STORIA

Brancaleone alle crociate 
Un film di Mario Monicelli. Con Vittorio GassmanPaolo VillaggioAdolfo CeliStefania SandrelliBeba Loncar
continua»
 Commediadurata 117 min. - Italia 1970

Seguito dell' Armata Brancaleone. Ma non un pigro seguito. Le avventure, i personaggi del secondo capitolo sono tanti e quasi tutti divertenti. Partito per le crociate con la turba del frate Zenone, Brancaleone scampa per un pelo al massacro dei compagni, salva una principessa francese e un'avvenente streghetta che stava per essere bruciata viva. Raggiunge in Terrasanta l'esercito di Boemondo, ma ne viene scacciato quando si scoprono i suoi oscuri natali. Duella con la Morte e questa volta è la streghetta a salvarlo ma a prezzo della vita. Manca al secondo Brancaleone la novità dei caratteri e del latino maccheronico. In compenso le trovate sono molte: dal personaggio dello stilista (ricalcato sul Simone del deserto di Buñuel) al giudizio di Dio fra papa e antipapa, dalla corte di Boemondo (vista come l'opera dei Pupi) ai personaggi di Toffolo e Villaggio.

 
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L'armata Brancaleone

Post n°12469 pubblicato il 30 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

 

L’Armata Brancaleone
Titolo originale: L’Armata Brancaleone
Italia: 1966. Regia di: Mario Monicelli Genere: Commedia Durata: 120'
Interpreti: Vittorio Gassman: Gian Maria Volontè, Catherine Spaak, Folco Lulli, Maria Grazia Buccella, Barbara Steele, Enrico Maria Salerno, Carlo Pisacane, Ugo Fangareggi, Gianluigi Crescenzi Taccone, Pippo Starnazza, Luigi Sangiorgi, Fulvia Franco, Tito García, Joaquín Díaz, Luis Induni, Luigi di Sangi, Carlos Ronda, Juan C. Carlos, Alfio Caltabiano, Philippa de la Barre de Nanteuil
Nelle sale dal: 1966
Voto: 4/5

L'armata brancaleoneQuesta pellicola è caratterizzata dalla straordinaria comicità del Monicelli che, proiettata nel medioevo, rievoca l’atmosfera che si respirava in quei tempi miseri e bui dominati dalla morte a causa di peste e dal terrore che scaturiva dai saccheggi che rozzi barbari compievano.
Atmosfera che il regista toscano ci fa rivivere in modo allegro, scorrevole ma anche a tratti con una punta di tragicità. Fornendo non poche nozioni storiche, dà modo di riflettere anche sulle condizioni di vita che la gente di bassa estrazione sociale era costretta a patire.

La storia, ambientata nell’ XI secolo, quando la religione cristiana predominava in tutti gli aspetti della società, e la minaccia delle incursioni saracene (‘… lo nero periglio che vien da lo mare…..’) avanzava con impeto, narra le avventure di uno sciagurato cavaliere e del suo seguito formato da elementi anche loro disgraziati. Il condottiero di questa ‘armata’ (così intesa in senso metaforico) si ritrova ad affrontare una serie di situazioni imbarazzanti (vedi il torneo tra cavalieri) e talvolta pericolose (così come quando le guardie di Guccione cercano di catturarlo). In queste ultime però, sia lui che i suoi seguaci, dimostrano di cavarsela piuttosto bene. Difatti Brancaleone da Norcia è in realtà un eccezionale combattente, le cui qualità sono affievolite e talvolta completamente annullate, a causa del suo cavallo ’Aquilante’ fifone e maldestro. Per giunta il protagonista si mostra onesto ed orgoglioso fino al punto che, per mantenere un giuramento fatto, rifiuta una bellissima donzella che li si era concessa (Matilda).  I suoi ‘seguaci’, altrettanto efficaci quando si tratta di salvare la pelle, si palesano come ignoranti, poveri fino alla fame, e pronti ad affrontare il lungo viaggio verso la Rocca di Aurocastro, che in loro speranza, dovrebbe regalarli la tanto desiderata ricchezza da padroni del feudo.

I costumi sono stati fedelmente riprodotti, vedi per esempio non solo quelli dei protagonisti ma anche quelli dei personaggi secondari che vengono rappresentati sia in ambito civile (gli abitanti del villaggio che vengono trucidati a inizio film, i partecipanti al banchetto di nozze tra Guccione e Matilda, i parenti di Teofilatto ed i cittadini di Aurocastro) sia in ambito bellico (i cavalieri partecipanti al torneo, le guardie al servizio di Guccione, i pirati saraceni ed i cavalieri di Sassonia). 
Il linguaggio si presenta variopinto poiché parlato da una moltitudine di personaggi  che provengono da diverse parti della penisola italica ed inoltre spicca l’inserimento di qualche arcaismo e qualche latinismo.
Dunque costumi e linguaggio, assieme alla scenografia che risulta minuziosamente elaborata, riproducono un realismo addirittura oltranzista.

Ad amplificare tale caratteristica sono i comportamenti che i personaggi tengono nel relazionarsi con gli altri.
Il modo in cui  ragionano che, per motivi ovvi di miseria e ignoranza allo stato di degrado, risulta chiaramente opportunista e venale; ricordiamo Abacuc come si dimostra desideroso di denaro in più occasioni, oppure Teofilatto che per rimediare un po’ di ‘Petecchioni d’oro’ è disposto ad attuare una messa in scena da lui concepita, ovvero inventare ai suoi genitori che è stato rapito per poi spartirsi il riscatto con i fantomatici rapitori, che sarebbero Brancaleone ed i suoi. 
Oltre agli aspetti comportamentali dei personaggi e quelli esteriori che riguardano anche l’ambiente (costumi, trucchi  e scenografia) di grande impatto è la direzione della fotografia condotta dal mirabile Carlo di Palma con la quale costui ha vinto il Nastro d’Argento.

È senza ombra di dubbio di fortissima risonanza la geniale interpretazione di Vittorio Gassman, che si è calato perfettamente nei panni del protagonista. Così come lo è anche quella di Gian Maria Volonté nella parte di Teofilatto, e quella di Carlo Pisacane in Abacuc.
L’immagine miserabile con cui viene riprodotta la gente dell’epoca, ben si confà con quella che la contemporanea collettività solitamente li attribuisce, e come difatti era. E così anche quella di personaggi crudeli che viene conferita ai saraceni che impalavano i prigionieri di guerra e agli eserciti cristiani che mettevano al rogo i peccatori di frode.
Al di sopra di tutto questo marasma fatto di sangue e morte si erge la simpatica figura di Brancaleone, il quale riesce ad ottenere una forte attrattiva e tanta reminescenza… anche dopo più di 40 anni.

 
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Il castello magico

Post n°12468 pubblicato il 30 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Il castello magico

Tuono è un gatto che viene abbandonato per strada dai padroni. La città è come una giungla per lui e il primo riparo che trova è in una vecchia casa che anche i cani del vicinato temono. Girano strane leggende sul fatto che quella magione sia infestata, di certo quello che Tuono trova al suo interno è una comitiva di animali e un padrone prestigiatore con i suoi "giocattoli". Quando il proprietario di casa viene ricoverato all'ospedale a seguito di un incidente il suo bieco nipote affarista farà di tutto per cercare di vendere la casa e sbarazzarsi degli altri inquilini animali.
Ben Stassen e Jeremy Degruson sono arrivati in Italia con i film d'animazione Le avventure di Sammy e Sammy 2 - La grande fuga, versione belga dei cartoni in computer grafica americani poco inventiva e molto ripiegata su storie, personaggi e standard d'oltreoceano. Ma se i due film con protagonista la tartaruga di mare Sammy saccheggiavano a piene mani l'universo e l'immaginario di Alla ricerca di Nemo (asciugandolo di qualsiasi secondo livello di lettura per adulti), Il castello magico sembra cominciare a conquistare una certa autonomia.
Stupisce infatti quanto sia migliorata l'animazione, più in linea con gli standard internazionali, ricca, precisa e realizzata in maniera impeccabile, e quanto poco questa volta il duo ricorra ad un immaginario già esistente. Sebbene infatti le avventure di animali parlanti non siano una novità nel mondo dell'animazione e nemmeno la prospettiva dei giocattoli che si animano quando gli umani non li vedono, è indubbio che Il castello magico sia un film che partendo da questi presupposti sviluppa una storia, dei personaggi e delle relazioni tra di essi totalmente originali.
La parabola è delle più semplici: il trionfo di un'alleanza di reietti contro la gretta avidità di un cattivo che (grande classico delle favole tradizionali) è il parente malvagio di uno dei protagonisti buoni. Degruson e Stassen non hanno la minima intenzione di guardare più in là del contenuto spicciolo e della storia, questo è ormai chiaro, tuttavia per la prima volta l'intrattenimento che mettono sullo schermo riesce a stare in piedi da sè. Grandi panoramiche, sequenze furiose, umorismo di bassa lega (ma funzionante) e qualche trovata a sorpresa condiscono un film che pur non inventando niente di particolare riesce comunque ad essere il migliore tra quelli prodotti dallo studio belga.

 
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Oblivion

Post n°12467 pubblicato il 27 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Nella seconda metà degli anni 2000 la Terra è stata devastata da una guerra nucleare che gli umani hanno combattuto e vinto contro gli invasori alieni. La Luna è stata distrutta e questo ha causato terremoti, tsunami e diversi sconvolgimenti che hanno reso il pianeta una landa desolata in cui è possibile solo scorgere qualche rovina di quel che è stato.
In seguito alla devastazione l'umanità è in esodo su Titano mentre sul nostro mondo gli ultimi impiegati si assicurano che i grossi macchinari che prosciugano le risorse naturali (per generare energia utile alla vita sul nuovo pianeta) non siano distrutti dai pochi alieni rimasti. Due di questi impiegati, quasi arrivati al termine del proprio impiego, si imbattono in alcuni astronauti lanciati nello spazio decenni prima ma ora atterrati rovinosamente, che il sistema inspiegabilmente riconosce come "minacce".
La storia, scritta dallo stesso Kosinski per una graphic novel mai realizzata, è diventata progetto cinematografico dopo l'interessamento di Tom Cruise. Questa genesi aiuta a comprendere molti dei pregi di un film che sancisce la definitiva fumettizzazione del cinema blockbuster statunitense. Dopo il successo e il profluvio (per nulla terminati) di film direttamente tratti dai fumetti, negli ultimi anni tutto il comparto d'azione, anche quello originale, è contaminato da dinamiche, figure e strutture tipiche del fumetto.
La forma della graphic novel è la nuova cianografia su cui raccontare l'eroismo per il grande pubblico e non ne è immune nemmeno il regista di un capolavoro sperimentale come Tron: Legacy, sebbene le invenzioni e l'audacia audiovisiva di quel film qui siano lontane. Oblivion riconduce il genio di Joseph Kosinski dentro il sistema hollywoodiano più canonico e incanala le sue intuizioni fantascientifiche in uno svolgimento più consueto, specialmente per ciò che riguarda la figura del protagonista, il cui carattere e il cui percorso appaiono modellati sul corpo, sui trascorsi e sulla carriera di Tom Cruise.
Benchè non si tratti di un sequel, Oblivion attinge a piene mani dall'immaginario della fantascienza recente. Il protagonista è un Wall-E potente e avventuroso che gira per una Terra distrutta, lavorando come ripulitore, raccogliendo scarti del mondo che fu per riunirli in una casa/museo mentre sogna un domani migliore nelle pause lavorative, a questo sono abbinate suggestioni da La fuga di Logan (il film) e "Modello due" di Philip Dick, aggiornate al loro rimaneggiamento operato in Moon di Duncan Jones. Inoltre, assieme al direttore della fotografia e al designer di Tron: Legacy, Kosinski descrive il suo futuro postapocalittico a colpi di architetture memori di Syd Mead e paesaggi miyazakiani, caratterizzati cioè da una rivolta della natura e una sua riconquista del pianeta in seguito ai postumi della guerra e degli eccessi umani. L'elenco dei riferimenti potrebbe andare avanti a lungo ma per fortuna non è nei debiti che si misura la forza del film.
Come la miglior fantascienza Oblivion sfrutta un contesto avventuroso per affrontare la dialettica tra speranze e timori per quelle evoluzioni dell'uomo e del pianeta che è possibile intravedere oggi, e lo fa attraverso il rapporto che egli intrattiene con la tecnologia e le sue possibilità. La visione cinematografica di Kosinski rimane sbilanciata sull'audiovisivo più che sul narrativo, sempre pronta a sacrificare la coerenza e l'inattaccabilità della sceneggiatura per una trovata visiva in più, purtroppo però la "normalizzazione" di questo secondo film porta con sè anche un ribaltamento del pensiero fondante del precedente, un ritorno alla tradizione del genere, ovvero il racconto della lotta per la riconquista della supremazia dello spirito sulla tecnologia. Non viene così portato avanti quel discorso molto più moderno e attuale di riscoperta dell'umanesimo proprio dentro il tecnologico e non in sua opposizione che poneva Tron: Legacy all'avanguardia nel genere.

 
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La cuoca del presidente

Post n°12466 pubblicato il 27 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

 

Hortense Laborie cucina per gli operai impegnati in una missione in Antartico. Ruvida e riservata, Hortense è una cuoca sopraffina che ha lasciato molti anni prima la sua fattoria nel Périgord per accettare un ruolo prestigioso all'Eliseo, dove si è presa cura della dieta del Presidente. Nonostante le insistenze di collaboratori e amici, Hortense non ama parlare di quegli anni e si rifugia in cucina a preparare un'ultima cena prima di ripartire di nuovo alla ricerca di una terra che possa accogliere lei e la sua coltivazione di tartufi. Per quanto provi a ricacciarli, i ricordi però riemergono e con quelli le gelosie di 'palazzo' patite ad opera di chef invidiosi che non hanno mai riconosciuto il suo talento e la preziosità dei suoi menù. Meschini e preoccupati, le complicarono la vita e le boicottarono la cucina, costringendola alle dimissioni. Ma adesso che è lontana, in quella terra battuta da venti gelidi, Hortense recupera il sapore dolce dell'amicizia che l'ha legata al Presidente della Repubblica francese.
Al cinema piace infilarsi in cucina, trasformando il cibo in protagonista e il racconto in convivialità. Cinema 'da bere' e 'da mangiare' è pure il film umanista di Christian Vincent, che mette in scena il vivere con quell'oscillazione tra il dramma e la commedia che è proprio della vita stessa. Liberamente ispirato alla storia di Danièle Delpeuch, cuoca della regione del Périgord, arruolata nel 1986 all'Eliseo per soddisfare appetito e gusto di François Mitterrand, La cuoca del Presidente ci introduce nell'alta cucina dimostrandoci che è un sistema chiuso dotato di rituali e regole che vanno rispettate o infrante ma solo dopo essere state ben apprese.
Romanzando l'avventurosa vita della Delpeuch, il regista francese realizza il profilo sincero di una donna che vive come cucina, sperimentando nuove esistenze e nuovi sapori senza perdere mai il piacere delle proprie radici. Lontana dalla sua fattoria, in missione in Antartide o in ricerca in Nuova Zelanda, per Hortense Laborie cucinare è l'unica cosa che conta e l'unico modo che conosce per integrarsi. Determinata e democratica, mette il suo talento al servizio di proletari o governanti producendo piatti che hanno la perfezione di un verso poetico e che traducono in forme perfette la tradizione culinaria francese. La cuoca del Presidente pratica la leggerezza e il sorriso, spostandosi indietro nel tempo e illustrando allo spettatore il passato di Hortense e i marosi che l'hanno spiaggiata sull'isola dove adesso vive il presente e da cui riparte per il futuro. Perché la vita per la Du Barry, come la chiamavano gli ostili colleghi della cucina centrale, è come uno dei suoi menù, in cui ogni portata ha valore per sé e valore in relazione alle altre. Per capire un'esistenza bisogna allora legare le parti, equilibrarne i frammenti e poi servirla ai commensali come un dono, una promessa a due passi dalla bocca. Alla maniera della protagonista, Christian Vincent 'cucina' il suo film separando e ricomponendo in forma ordinata la materia prima che compone Hortense.
Le portate servite, di cui si sentono addirittura i profumi e di cui ci si sazia con gli occhi, diventano il sottotesto che fa emergere differenze di vedute tra chi produce, vende, tratta, critica, ama i prodotti gastronomici francesi. I dialoghi piacevolissimi tra Hortense e il presidente, pieni di suggestioni filosofiche, storiche e antropologiche, rivelano un universo tutt'altro che elitario ma depositario di una ricchezza umana ingente, senza sospetto di nostalgia per il passato fine a se stessa.

 
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Box Office, Spy ancora in testa

Post n°12465 pubblicato il 27 Luglio 2015 da Ladridicinema
 


Box Office Italia
In Italia fino al 12 agosto, giorno in cui inizierà "ufficialmente" la nuova stagione con l'arrivo nelle sale nostrane di Ant-Man, ci sarà calma piatta e la top ten di questa settimana ne è un fulgido esempio. In testa troviamo Spy, con poco più di mezzo milione di euro, che la spunta su Babadook, secondo a poche migliaia di euro di distanza. Perde la vetta Terminator Genisys, che è arrivato al discreto totale di 2 milioni di euro. Jurassic World è prossimo a superare quota 14 milioni e dovrebbe avere ancora un mese di raccolta per provare ad arrivare a quota 15. Benino Ted 2, che in Italia è andato mediamente meglio rispetto agli altri paesi, che supera i 3.5 milioni. Briciole per tutti gli altri film in classifica: basti pensare che a Torno indietro e cambio vita, bastano 27mila euro per ottenere la decima posizione. Solo quattro uscite in settimana: Pixels, Left Behind, Kristy ed Ex Machina.

Box Office USA
In America settimana di transizione, anche se la notizia dell'anno è arrivata martedì, quando Jurassic World è diventato il terzo miglior incasso di sempre worldwide (ovviamente senza tenere conto dell'inflazione, quindi è un dato significativo, ma fino a un certo punto) scavalcando The Avengers e piazzandosi dietro al duo Avatar/Titanic. Nel weekend Ant-Man, complice anche la debolezza delle altre new entry, resiste in testa con 24.7 milioni di dollari (totale americano 106, mondiale 226) che bastano per tenere a bada Pixels, secondo con 24, Southpaw - L'ultima sfida con 16.5 e Città di carta con 12.5. Sul podio resistono i Minions, arrivati a 261 milioni (ben 759 a livello mondiale, il superamento del miliardo è praticamente certo) e la commedia Un disastro di ragazza, arrivato a 61 milioni, con buone possibilità di chiudere sopra i 100 milioni. In coda resistono i fenomeni Inside Out (320 milioni in casa, 550 in totale worldwide) e ovviamente Jurassic World, che, con i suoi 623 milioni, ha superato The Avengers nella classifica americana di ogni tempo, ottenendo il 27esimo posto. Il film dovrebbe chiudere con 650 milioni, dato che lo posizionerebbe al 23esimo posto, tra Fantasia e Il padrino (tanto per dare un senso al clamoroso successo ottenuto). In coda salutano la top ten Terminator Genisys, che fallisce il traguardo dei 100 milioni (però a livello mondiale il film è andato bene, con 305 milioni) e sorprende Mr.Holmes, con 4 milioni complessivi con appena 700 sale a disposizione. La prossima settimana il film forte è il quinto episodio della saga di Mission: Impossible - Rogue Nation, di cui si dice un gran bene. Un esordio da 80-100 milioni è più che possibile. In arrivo anche The Gift e Dove eravamo rimasti.

 
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Magic in the moonlight

Post n°12464 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Magic in the Moonlight

Berlino, 1928. Wei Ling Soo è un celebre prestigiatore cinese in grado di fare sparire un elefante o di teletrasportarsi sotto gli occhi meravigliati di un pubblico acclamante. Ma dietro la maschera e dentro il suo camerino, Wei Ling Soo rivela Stanley Crawford, un gentiluomo inglese sentenzioso e insopportabile che accetta la proposta di un vecchio amico: smascherare una presunta medium, impegnata a circuire una ricchissima famiglia americana in vacanza sulla riviera francese. Ospite dei Catledge sulla Costa azzurra e sotto falsa identità, si fa passare per un uomo d'affari; Stanley incontra la giovane Sophie Baker ed è subito amore. Ma per un uomo cinico e sprezzante come lui è difficile leggere dietro alle vibrazioni di Sophie un sentimento sincero. Un temporale e il ricovero della zia adorata, faranno crollare il razionalismo e le resistenze di Stanley: il soprannaturale esiste eccome e si chiama amore. 
Non va mai preso alla leggera un film di Woody Allen, anche se si presenta fresco ed estivo come una promenade lungo la Costa Azzurra. Perché il gusto che avvertiamo dopo averne goduto è sempre più complesso di quello inizialmente percepito. Nel suo cinema sono sempre i dettagli o le presenze marginali ad aprire gli spiragli che fanno intravedere la profondità di senso. Dietro alle coppe di champagne e alle maniere sofisticate, dentro i vestiti bianchi e le automobili decappottabili, sotto i cappellini a cloche, i temporali estivi e la comédie au champagne, quella dove lui e lei si conoscono, si detestano e poi finiscono col capitolare l'uno nelle braccia dell'altro, si prepara in fondo il crepuscolo della Jazz Age fitzgeraldiana e il collasso della Germania sotto i colpi della crisi e del nazismo. E Magic in the Moonlight apre proprio sul 'palcoscenico' di Berlino e davanti a un pubblico che a breve non vedrà più l'elefante nella stanza perché sceglierà di ignorarlo, ignorando col pachiderma una tragedia evidente. Nemmeno la magia può volatilizzare un elefante e una verità, la sparizione è soltanto un'illusione prodotta da un prestigio, una rimozione dal campo visivo che prima o poi ricompare, proprio come la madre di Sheldon-Woody nell'Edipo derelitto. Lo sa bene il mago very british di Colin Firth, che come il film possiede tutta la malinconia e l'esotismo di una cartolina postale. 
Non è certo la prima volta che Allen ricorre alla magia, che ha giocato d'altra parte un ruolo rilevante nella sua filmografia. Magia (Stardust MemoriesNew York StoriesAliceOmbre e nebbiaLa maledizione dello scorpione di giadaScoop) e divinazione (Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni) si impongono in primo piano e dentro le sue commedie, sublimando la dimensione comica e rivelando uno dei temi principali della poetica alleniana: la scelta. Il cinema di Allen arriva sempre al vicolo cieco dell'alternativa tra "orribile o miserrimo" (Io e Annie) o come per Magic in the Moonlight tra la vita vera e la sua illusione. Come ogni altro personaggio alleniano nemmeno Stanley Crawford troverà una risposta perché per il regista è più importante continuare a porsi nuove domande. Il protagonista di Colin Firth, un'implosione raffinata di cinismo e arroganza, sceglie allora lo slancio vitale, l'impulso irrazionale di agire e reagire dentro l'universo, "un luogo assolutamente freddo". Come l'arroseur arrosè dei Lumière, il prestigiatore finisce annaffiato dal suo stesso annaffiatoio e da un'avventuriera americana che sembra barare meglio di lui, provando che la magia non si trova sempre dove noi pensiamo. Così il suo razionalismo implacabile capitolerà sotto la luce brillante di Darius Khondji e lo charme preveggente di Emma Stone che, come il mago cinese di Alice, lo stana dalla codardia e lo porta a consapevolezza. Se i pessimisti sostengono che il nostro passaggio sulla terra è un disastro, l'avvenire non può essere che funesto e "l'eternità troppo lunga, specialmente verso la fine", esibendo soltanto la loro insofferenza e il loro malessere scoraggiante e lamentoso, gli ottimisti da par loro sono dei cretini assoluti, totalmente irragionevoli e privi di logica e di buon senso, proprio come la vecchia coppia sulla panchina di Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni. Così non resta che gettare la maschera cartesiana e ammettere di essere proprio come Sophie, non un essere candido magari ma nemmeno infame, che esercita la suggestione per ingannare e proteggere, la magia per rendere più piacevole la vita degli altri, il potere mistificatorio per richiamare i morti in vita, non quelli seppelliti ma quelli che vivono temporaneamente fuori dalla partita. Non datevi pensiero perciò se vedrete l'impostore rivelato pregare e implorare addirittura la misericordia divina in un momento di sconforto, è solo una boutade. Woody Allen non accetta mai il soccorso della religione ma non smette mai di trovarlo nell'illusione. L'illusione delle immagini, dei vecchi giochi di prestigio, di una bolla di champagne e di qualche nota jazz sul nero.

 
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Oldboy

Post n°12463 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

 

Dae-su, sposato e con figlia piccola, è uomo dalle molte amanti e con il vizio dell'alcol. Una sera viene fermato dalla polizia per ubriachezza molesta. Non appena rilasciato, scompare nel nulla. Si risveglia in una squallida stanza, dove è tenuto prigioniero. Poco dopo, scopre che sua moglie è stata assassinata e lui è il principale sospettato. La sua prigionia dura quindici anni. Un tempo infinito, passato a covare un odio profondo verso il suo sconosciuto aguzzino e a prepararsi fisicamente alla vendetta. 
Benvenuti nell'incubo visionario di Chan-wook Park, regista di spicco, al fianco di Kim Ki-duk, della Nouvelle Vague del cinema coreano. Che non ha nulla da invidiare, quanto a tensione e suspense, al cinema di genere americano, ma spesso e volentieri lo supera in profondità e torbidezza psicologica e in crudezza del racconto. Un cinema di genere estremamente nero, quello firmato da Park, che sa farsi d'autore, seppur in maniera molto diversa dallo stile di Quentin Tarantino, che lo ha insignito a Cannes del Gran Premio della giuria da lui presieduta. È vero che il cuore di Oldboy è la vendetta, proprio come nella maggior parte dei film del regista di Pulp Fiction. Ma qui la violenza consumata nella corsa della vittima all'inseguimento del suo carnefice non lascia nessuna concessione al ludico. L'affannosa ricerca di Dae-su - interpretato dall'ottimo Choi Min-sik - a caccia della verità sul suo carceriere è faccenda estremamente seria per il regista, che ne lascia traboccare tutta la gravità, avvinghiando lo spettatore in un vortice di passioni malate sempre più livido e allucinato, con l'andamento lacerante di una tragedia greca alla "Edipo Re". Il salto nel vuoto dell'incubo torbido del protagonista - scandito da una musica che più adatta non poteva essere - toglie il fiato e lascia stremati. Sopraffatti da un mondo dominato dalla violenza e dalla follia di istinti bestiali, dove persino l'amore è sbagliato. Così, più Dae-su si avvicina al suo rapitore e alle ragioni delle sue azioni criminose, più la luce in fondo al tunnel si affievolisce. 
Lo stile di ripresa e montaggio accentuano il senso di angoscia claustrofobica e asfissiante provata da un protagonista che, tornato libero, si rende conto di essere ancora prigioniero, solo in una stanza più grande. La sua fuga di uomo braccato, spiato e controllato non può che esplodere in una memorabile rissa in piano sequenza, in cui Dae-su affronta da solo, a calci, pugni e martellate, un fitto branco di aggressori. Ma l'incubo non è finito, i colpi di scena sono dietro l'angolo e mozzano il fiato. L'unica concessione al colore, e alla vita, è quel rosso finale nel bianco della neve, simbolo di speranza e forse anche di riscatto, ma non di una nuova purezza, impossibile da raggiungere nel mondo sporco di Chan-wook Park. Autore di un cinema che si conficca nella pelle e nell'anima dei suoi protagonisti, come dei suoi spettatori.

 
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Miracolo a Milano da cineblog

Post n°12462 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Lunedì scorso, ossia il 14 Febbraio, noi di Cineblog abbia avuto l'onore, nonché il piacere, di assistere alla versione restaurata di una delle pellicole più importanti del cinema nostrano. L'allusione è aMiracolo a Milano, film di Vittorio De Sicarisalente al 1951, tratto dal libro di Cesare Zavattini - intitolato Totò il buono. Per l'occasione il nostro Vittorio apportò alcune modifiche in sede di trasposizione, specie in relazione al finale - ben diverso da quello pensato da Zavattini.

A presentare questa brillante "riesumazione", con annesso restauro, c'era Manuel De Sica (figlio di Vittorio), che tanto si è adoperato e continua ad adoperarsi per valorizzare certi film senza tempo. Ci soffermeremo a breve sulla valenza del meritorio impegno in cui si sta profondendo Manuel, non prima però di menzionare chi altri sono intervenuti in occasione del breve incontro che si è tenuto nella rinomata Terrazza Martini.

Tra i presenti c'è stata anche la figlia di Vittorio De Sica, ossia Emi, un'amabile e anziana donna con cui è stato davvero un piacere scambiare quattro chiacchiere. Inoltre, non poteva certo mancare il presidente di SEA - Aeroporti Milano, Giuseppe Bonomi, alla cui azienda si deve il finanziamento di questa felicissima operazione.

Poco sopra abbiamo accennato riguardo l'impegno di Manuel De Sica, a cui si deve già il restauro di un'altro immenso film di suo padre, ossia Ladri di Biciclette. Miracolo a Milano segna quindi la seconda parte di un percorso che ci auguriamo abbia davanti a sé ancora un lunghissimo cammino. Ma è lo stesso fautore a metterci in guardia riguardo il futuro: "non sempre la nostra sensibilità ha trovato, o trova tuttora, degli altrettanto appassionati interlocutori". Sono queste le parole, seppur tutt'altro che testuali, di Manuel, il quale da tempo va girando scuole medie e superiori al fine di sensibilizzare le generazioni più giovani circa il peso di questo tremendo patrimonio.

 

 

 

Non a caso sta già pensando, nonostante tutto, ai prossimi film che verranno sottoposti a restyling, ossia I bambini ci guardano (1943) e il ben più blasonatoSciuscià (1946), probabilmente in questo stesso ordine. Solo che in futuro, ci dice, spera di trovare favore presso lo Stato anziché cercare fondi da parte di privati. In ogni caso fa davvero piacere sapere che la promozione di pellicole così capitali proceda e non s'intenda arrestarlo proprio ora.

Tornando a Miracolo a Milano, è interessante riportare qualche aneddoto. Tanto per cominciare, in un primo momento il titolo sarebbe dovuto essere I poveri disturbano, che poi fu in secondo momento evidentemente accantonato. Non tutti, in un'epoca di neorealismo imperante, riuscirono a comprendere questo film, mentre altri fecero fatica a digerirlo. Da notare che si trattava del lavoro successivo di De Sica, nei panni di regista, dopo Ladri di biciclette, spaccato notoriamente celebre per la vena tristemente realista dell'Italia del dopoguerra.

Non volendo essere, per certi versi, "etichettato" come autore prevalentemente pessimista, Vittorio decise di lavorare su di una storia che si poneva agli antipodi rispetto al suo ultimo film. Optando per trama decisamente più edificante, come quella tratta dal libro dell'amico Zavattini, lasciò perplessi in molti. Alcuni arrivarono addirittura a credere, prima dell'uscita, che Miracolo a Milano fosse incentrato sulla figura di Sant'Ambrogio.

Tra qualche incertezza, però, il film uscì e, come spesso accaduto nella storia del nostro cinema, anche Miracolo a Milano riscosse molto più successo all'estero che qui da noi - nemo propheta in Patria, diceva Qualcuno. Tuttavia anche nel Bel Paese non mancarono coloro che ne rimasero piacevolmente colpiti, nonostante questi rappresentassero una minoranza, seppur incoraggiante.

Soffermiamoci un attimo, quindi, sulla trama - dato che a questo punto sembra correre l'obbligo per noi. Totò è un solare ragazzino rimasto orfano della madre/nonna adottiva, e che per questo motivo passa pressoché la sua intera adolescenza in un orfanotrofio. Cresciuto, si ritrova a dover affrontare il mondo senza conoscerne apparentemente le più basilari dinamiche. Il suo "spaesamento" è reso palese dai momenti immediatamente successivi alla sua uscita da quel luogo in cui ha trascorso buona parte della propria vita: saluta tutti; si comporta come se ognuno dei passanti fosse un suo amico.

In un modo o nell'altro, però, si troverà in un campo di senza-tetto. Lì comincerà a rimboccarsi le maniche, fino a dirigere (nel vero senso della parola) i lavori per la riqualificazione dell'area - come direbbero quelli che ne sanno in ambito edilizio. Ciò che colpisce, però, è sempre quel suo atteggiamento sognante, mai crucciato e costantemente disteso. Qualcosa che tende a superare l'umana concezione.

Non è un caso, infatti, se da molti verrà successivamente scambiato per un santo, anche in virtù dell'improvviso dono di elargire miracoli. E' chiaro che di mezzo c'è molto altro, su cui non vogliamo soffermarci proprio per invogliare coloro che non avessero ancora visto questo film a rimediare quanto prima. Miracolo a Milano, di primo acchito, ha tante facce: quella religiosa, quella politica, quella sociale e via discorrendo. Ma se sul piano politico non mise d'accordo quelle che all'epoca erano le compagini principali, e su quello sociale poneva una questione di cui malvolentieri si voleva discutere, è sotto il primo aspetto che ci sembra di cogliere la chiave di lettura più corretta e appagante.

La refrattarietà nascente verso simili messaggi era ancora in fase embrionale probabilmente, ma già abbastanza solida da bollare e rigettare certe opere. Alludere ad episodi così "straordinari" come miracoli, promesse di Regni venturi et similia, era davvero troppo per un'impostazione che tendeva ad esaltare l'ordinarietà di tempi che, piaccia o meno, non raccontavano nulla di buono.

Eppure quella di Miracolo a Milano, a tutt'oggi, ci pare una sfida vinta sotto ogni aspetto. Nel suo mescolare realtà ed immaginazione riesce a vincere i pregiudizi di chi si sente troppo ancorato alla prima o alla seconda, fuggendo la banalità e quanto di smielato possa evocare uno scenario come quello proposto. Non ingenuo ma semplice; non ottimista ma speranzoso: questo è ciò a cui riuscì a dare vita il grande Vittorio. Ed in fondo il suo messaggio, preso certamente in prestito, sta tutto in quella sfilza di scope che svolazzano attorno ad un Duomo così fortemente reale, per poi scomparire dietro quelle nuvole. Ed ecco apparire una frase, la calligrafia tipica di un bambino (non a caso scritta dalla figlia Emi, allora alunna delle elementari): "verso un regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno!".

E se per le orecchie dell'epoca tutto ciò era troppo, figurarsi per quelle con cui ci troviamo a convivere ai giorni nostri...

 
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Jimmy's Hall

Post n°12461 pubblicato il 25 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Jimmy's Hall - Una storia d'amore e libertà

Nel 1921, un'Irlanda sull'orlo della guerra civile, Jimmy Gralton aveva costruito nel suo paese di campagna un locale dove si poteva danzare, fare pugilato, imparare il disegno e partecipare ad altre attività culturali. Tacciato di comunismo era stato costretto a lasciare la propria terra per raggiungere gli Stati Uniti. Dieci anni dopo Jimmy vi fa ritorno e sono i giovani a spingerlo a riaprire il locale. Gralton è inizialmente indeciso ma ben presto cede alle richieste. Chi gli era stato ostile in passato torna a contrastarlo. 
Ken Loach torna nell'Irlanda che aveva messo al centro del suo cinema ne Il vento che accarezza l'erba e lo fa in modo apparentemente inusuale. Perché al centro di questa storia ci sono uomini e donne che difendono quello che un tempo avremmo definito un dancing. La musica che accompagna le dure immagini della Depressione americana potrebbe aprire un film di Woody Allen ma il contesto è e resta quello più amato dal regista inglese: la vita di uomini e donne che cercano nella condivisione di idee e di spazi quel senso della socialità che altri vorrebbero irregimentare per poterlo controllare il più possibile. Quello che Jimmy Granton (attivista socialista realmente esistito) edifica per due volte è di fatto un centro sociale ante litteram in cui si possono condividere saperi ma anche la gioia dello stare insieme. Definire 'peccaminose' le danze che vi si praticano è, per la chiesa locale e per gli esponenti della destra, solo un pretesto per impedire la circolazione di idee ritenute pericolose. Chi frequenta la Pearse-Connolly Hall è spesso anche un buon cristiano che partecipa alla messa domenicale. È proprio questo che va colpito e debellato da quel potere ecclesiastico che però, a differenza dei reazionari più retrivi, è ancora capace di comprendere l'onestà degli intenti dell'avversario. Il film esce in un tempo in cui a Roma siede un pontefice che ha dichiarato di saper ballare la milonga e di non sostenere ovviamente il comunismo ma anche di aver conosciuto tante brave persone che erano comuniste.Jimmy's Hall potrebbe piacergli.

 
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Film nelle sale da giovedi

 

Tutta colpa di Freud

Post n°12459 pubblicato il 23 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

 
Locandina Tutta colpa di Freud

Uno psicologo cinquantenne, Francesco, è stato lasciato solo dalla moglie ad allevare tre figlie e continua a farlo con grande amore e attenzione nonostante l'ultima abbia già compiuto 18 anni e la prima abbia superato i 30. Le tre figlie sono particolarmente sfortunate in amore: Sara, omosessuale, viene regolarmente lasciata dalle fidanzate quando le cose si fanno serie; Marta, libraia, si innamora di scrittori che non la ricambiano; Emma, maturanda, ha avviato una storia con Alessandro, coetaneo di suo padre e per giunta sposato con Claudia. A complicare ulteriormente le cose, Claudia è l'amore segreto di Francesco, che la incontra ogni giorno ma non osa rivolgerle parola, inizialmente ignaro che sia proprio lei la moglie del fedifrago.
Da un soggetto pensato insieme a Leonardo Pieraccioni (del cui Un fantastico via vai è stato a sua volta coautore) e Paola Mammini, Paolo Genovese ha tratto una sceneggiatura che mette insieme il meglio e il peggio del suo cinema: dal lato positivo ci sono la leggerezza di un tocco mai volgare, alcune battute davvero azzeccate, una costruzione narrativa fresca e la capacità di orchestrare un coro di attori che, nelle sue mani, tirano fuori il meglio. Dal lato negativo la narrazione in voice over sostituisce quella filmica (una voce che parla sopra le immagini non è la stessa cosa di un racconto per voce e immagini), la musica a palla fa da grancassa a tutte le scene clou, e la sitcom americana (per non dire lo spot televisivo) informa ogni sequenza: dunque ogni scena viene "chiusa" con una battuta, un abbraccio, un ammiccamento, un pollice sollevato. Genovese è talmente cosciente di questa compulsione da farne una gag all'interno del suo stesso film, senza però riuscire ad affrancarsene.
Quel che funziona, senza se e senza ma, è il cast, in particolare Anna Foglietta nei panni della lesbica che cerca di cambiare orientamento (ma ricorda agli spettatori che "l'identità sessuale è una cosa seria") e la cui recitazione fisica, in America, avrebbe già fatto di lei una star; e Marco Giallini, sempre più duttile e profondo, capace di sottendere di dolorosa verità anche il più leggero dei dialoghi che lo vedono protagonista.
Funzionano anche la cura che Genovese dedica alla costruzione delle inquadrature e l'agilità del montaggio brillante, anche se entrambi evidenziano "la magagna", ovvero l'effetto schizofrenico fra le capacità del regista-sceneggiatore e le brutte abitudini accumulate sui set pubblicitari, e forse incoraggiate dalle produzioni cinematografiche. 
Il giorno in cui Genovese si sarà liberato di certi condizionamenti spiccherà il salto verso la commedia d'autore, per la quale è ampiamente qualificato: basti ricordare i suoi esordi. In particolare, dato che Tutta colpa di Freud fa spesso riferimento alla musica, potrà tenere presente che le scene più efficaci finiscono "in levare", e che l'occasionale affondo comico è cosa assai diversa dall'"uscita" televisiva.

 
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I giorni contatir

Post n°12458 pubblicato il 23 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

I Giorni Contatiregia di Elio Petri


De­va­stan­te in­ter­ro­ga­ti­vo sul­l'im­por­tan­za della vita. A cosa serve vi­ve­re? Per­chè vi­via­mo per moi mo­ri­re? Qua­l'è lo scopo della no­stra pre­sen­za sulla Terra? Ver­reb­be di pa­ra­fra­sa­re le li­ri­che di una nota can­zo­ne di Fran­co Bat­tia­to:"Pas­sa­no gli ali­men­ti, le vo­glie, i santi, i mal­con­ten­ti / Non ci si può ba­gna­re due volte nello stes­so fiume, né pre­ve­de­re i cam­bia­men­ti di co­stu­me. / E in­tan­to passa igna­ro

il vero senso della vita. / Ci cam­bia­no ca­pel­li, denti e seni, a noi che siamo solo di pas­sag­gio."

Basta poco per pen­sa­re a quan­ti gior­ni man­che­reb­be­ro alla no­stra fine. Non che vo­glia es­se­re vo­la­ti­le di cat­ti­vo au­gu­rio, vale anche per me. Ba­ste­reb­be anche vi­sio­na­re "Il set­ti­mo si­gil­lo", dove la morte ap­pa­re in carne, ossa e car­ti­la­gi­ne, pron­ta a sfi­da­re le vit­ti­me pre­vi­ste in de­sta­bi­liz­zan­ti par­ti­te a scac­chi.

A Ce­sa­re "lo sta­gna­ro" è ba­sta­to sa­li­re sul tram quo­ti­dia­no e as­si­ste­re ad un in­ter­ro­ga­ti­vo ine­va­so di un astan­te alla pras­si della ri­chie­sta del bi­gliet­to. In­far­to. Morto senza ac­cor­ger­se­ne. Dram­ma­ti­ca espe­rien­za che segna pro­fon­da­men­te il pro­ta­go­ni­sta che de­ci­de di "im­paz­zi­re" in­ter­ro­gan­do­si sui gior­ni che gli re­sta­no prima della chia­ma­ta estre­ma. De­ci­de di ve­stir­si con l'a­bi­to mi­glio­re, ghet­te alle scar­pe e di cu­rio­sa­re nella notte sulle vite degli altri. Ma forse non basta. Bi­so­gna fare qual­co­sa di me­glio in que­sta oni­ri­ca corsa con­tro il tempo, ra­ci­mo­la­re più ri­sul­ta­ti utili pos­si­bi­li.

Con­fi­da al­l'a­mi­co Amil­ca­re, im­bian­chi­no not­tur­no, di voler ab­ban­do­na­re il la­vo­ro per de­di­car­si ad altro e co­min­cia ad elen­ca­re una serie di mo­ti­vi che ap­pa­io­no piut­to­sto "stra­ni" a que­st'ul­ti­mo. Di­scor­si fu­ne­rei, pes­si­mi­sti­ci, cupi, anche estre­mi, tin­go­no di nero le gior­na­te di Ce­sa­re che sce­glie di fare ciò che non aveva mai im­ma­gi­na­to prima. O forse non ne aveva avuto mai il tempo. Che pun­tual­men­te scor­re senza alcun freno, vo­len­te o no­len­te.

La ri­sco­per­ta di un vec­chio amore al­l'om­bra di una to­let­ta pub­bli­ca o ma­ga­ri la pos­si­bi­li­tà di son­dar­ne uno mer­ce­na­rio tra le put­ta­ne che cal­ca­no il Lun­go­te­ve­re alla luce del sole e ti in­vi­ta­no a se­guir­le tra i cocci del ci­mi­te­ro degli otri. Op­pu­re sco­pri­re che la fi­glia della por­tie­ra vuole fu­ma­re di na­sco­sto e si pro­sti­tui­sce con adul­ti be­ne­stan­ti. O l'ar­te astrat­ta del mer­can­te me­ri­dio­na­le che ti in­fa­tua con di­scor­si fi­lo­so­fi­ci per poi crol­la­re dra­sti­ca­men­te nella ri­pa­ra­zio­ne di un la­va­bo ot­tu­ra­to dagli smal­ti. Ma cos'è la vita? Che va­lo­re ha? Che senso ha vi­ve­re per poi mo­ri­re da un mo­men­to al­l'al­tro? Que­sti sono gli in­ter­ro­ga­ti­vi che os­ses­sio­na­no Ce­sa­re che sta ormai sfio­ran­do il pa­ros­si­smo in que­sta in­quie­tan­te tesi. Gli amici lo "te­mo­no" an­nun­cian­do­lo ad­di­rit­tu­ra per an­ne­ga­to a causa di una ef­fi­me­ra ca­pa­ti­na alle ba­le­re di uno sta­bi­li­men­to bal­nea­re. Nes­sun ri­sul­ta­to fa­vo­ri­sce le aspet­ta­ti­ve di Ce­sa­re che de­ci­de di porre fine alla fol­lia ri­co­min­cian­do, senza trop­pa con­vin­zio­ne, a la­vo­ra­re. Ri­pren­de il tram tutte le mat­ti­ne e per­cor­re tutte le fer­ma­te, fino a quan­do dopo aver vi­sio­na­to la pel­li­co­la della vita alla stre­gua di "Re­vo­lu­tion 9" de­ci­de di scen­de­re al ca­po­li­nea. In tutti i sensi.

Ec­cel­len­te film del rim­pian­tis­si­mo Elio Petri sulla fu­ti­li­tà della vita in vista del­l'e­stem­po­ra­nea in­com­ben­za della morte. Pro­ta­go­ni­sta è il pur­trop­po di­men­ti­ca­to Salvo Ran­do­ne, at­to­re di al­tis­si­mo pre­gio che me­dian­te una sce­neg­gia­tu­ra so­stan­zial­men­te arida, do­mi­na il film in un mo­no­lo­go quasi co­stan­te. Nel senso che gli altri at­to­ri, tutti bra­vis­si­mi e pur­trop­po se­mi­sco­no­sciu­ti, (tran­ne Vit­to­rio Ca­prio­lifun­go­no da sa­tel­li­ti ri­spon­den­ti. Si af­fac­cia­no ai ro­vel­li del pro­ta­go­ni­sta al solo scopo di for­ni­re una ipo­te­si, un con­si­glio, una pos­si­bi­li­tà di usci­ta dai tor­men­ti per poi scom­pa­ri­re dalla scena. Tutto ciò crea una rea­zio­ne a ca­te­na nella mente di Ce­sa­re che lo porta a con­si­de­ra­re se­ria­men­te l'i­dea di va­lu­ta­re la morte per de­tro­niz­za­re vo­lon­ta­ria­men­te la vita co­stel­la­ta da trop­pe scon­fit­te.

Per bef­far­da coin­ci­den­za o per fato arit­me­ti­co l'a­ni­ma del film cela ad­di­rit­tu­ra qual­co­sa di in­quie­tan­te, qual­co­sa di ter­ri­bil­men­te pro­fe­ti­co per il re­gi­sta, tanto da non sot­to­va­lu­ta­re l'i­po­te­si di con­si­de­rar­lo come una sorta di "film-te­sta­men­to". Il pro­ta­go­ni­sta del film di­chia­ra di avere 53 anni nel mo­men­to in cui sente il peso dei gior­ni con­ta­ti. Petri fu con­su­ma­to da una ma­lat­tia alla stes­sa età.

Da ria­bi­li­ta­re Salvo Ran­do­ne, con Vo­lon­tè uno degli in­ter­pre­ti pre­di­let­ti da Petri, no­te­vo­le ar­ti­sta tea­tra­le e at­to­re di gran­de spes­so­re mai con­si­de­ra­to per le doti real­men­te espres­se.

 
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Togliete ogni riferimento ad Antonio Gramsci, per favore! da change.org

Post n°12457 pubblicato il 17 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Il quotidiano "L'Unità" è tornato recentemente in edicola, dopo uno STOP dovuto ai problemi economici, nonostante abbia costantemente attinto al finanziamento pubblico.

Siamo felici del ritorno, sia perché crediamo nel pluralismo dell'informazione, sia per i posti di lavoro dei giornalisti che lavorano in quella redazione.

L'Unità è un giornale storico, che per lunghi anni, in passato, ha dato voce ai lavoratori, ai contadini, ed a tutte le classi popolari. Ma il progressivo "cambiamento" del partito di riferimento, ovviamente ha influenzato anche l'Unità, che ha perso moltissimi lettori, poiché percepito da troppi eccessivamente "succube" della linea del partito.

Ora che il giornale è uscito di nuovo, questa percezione è aumentata, e l'apoteosi è stata raggiunta oggi, con il titolo "PROMOSSA LA BUONA SCUOLA" - "subito 100mila assunzioni e concorso per altre 60mila. 4 miliardi per investimenti".

Un titolo che ha suscitato grande indignazione tra i lettori stessi del giornale, come potete verificare leggendo i commenti alla foto della copertina pubblicata su FB: https://www.facebook.com/unitaonline/photos/a.306649224097.145051.292449724097/10153389751304098/?type=1&theater

Da cittadini italiani che nutrono grande STIMA per Antonio Gramsci, personalità coraggiosa degna di rispetto a prescindere dalle idee politiche di ciascuno, chiediamo alla redazione di ELIMINARE OGNI RIFERIMENTO AD ANTONIO GRAMSCI.

Scrivete ciò che vi pare, scrivete ciò che vi detta il partito democratico, ma per favore, NON FATELO A NOME DI GRAMSCI... che certamente oggi non sarebbe un fans ne del PD, tanto meno di Renzi. E chiunque conosce la storia, se ne può rendere conto.

Dal nostro punto di vista, titoli come quello sulla Buona Scuola, sono uno "schiaffo morale" ad una personalità come Gramsci che per portare avanti certe battaglie e certe idee, ha pagato con la vita.

Sappiamo benissimo che avete tutti i diritti di tenere il riferimento al Fondatore, ma vi chiediamo comunque, per favore: TOGLIETELO! Sarebbe meglio se il giornale cambiasse proprio nome, ma sappiamo che non lo farete mai, per il prestigio che ha il giornale (grazie a ciò che era mezzo secolo fa...) ma almeno il nome di Antonio Gramsci dalla copertina, toglietelo!

NOT IN THE NAME OF GRAMSCI, PLEASE!

 
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Film nelle sale da ieri

 

Un remake per La dolce vita di Fellini da ansa

Post n°12455 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Casa di produzione italo-americana ha comprato i diritti

Ora anche un mostro sacro come Federico Fellini e un film iconico come la Dolce Vita saranno assoggettati alla dura legge hollywoodiana del remake. La casa di produzione italo-americana Ambi Group ha comprato i diritti de La Dolce Vita dagli eredi di Federico Fellini e presto ne produrrà un remake. I fondatori di Ambi group, Andrea Iervolino e Monika Bacardi, scrive Hollywood Reporter, hanno in mente una versione moderna della storia raccontata dal regista romagnolo e dai protagonisti Marcello Mastroianni e Anika Ekberg, scomparsa di recente proprio a Roma all'età di 83 anni.

Nella produzione saranno affiancati da Daniele Di Lorenzo. Francesca Fellini, nipote del regista, è stata contattata diverse volte negli ultimi anni, ma ha sempre rifiutato offerte simili. "Daniele, Andrea e Monika hanno un progetto bellissimo e, considerando il loro patrimonio culturale italiano, la loro profonda approvazione e comprensione del lavoro di mio zio, credo siano i più adatti a questo ruolo", ha spiegato l'erede in un comunicato. Di Lorenzo, scrive sempre Hollywood Reporter, produrrà tramite la sua Ldm Productions mentre la Ambi si occuperà anche della distribuzione mondiale del film. "La nostra visione è quella di una storia contemporanea iconica e meritevole di premi proprio come l'originale", ha aggiunto Iervolino in un comunicato.

Di premi internazionali, La Dolce Vita ne aveva vinti due: la Palma d'Oro a Cannes nel 1960 e un Oscar per i costumi. "Marcello, come here!". Una frase celebre, un luogo immortale, la Fontana di Trevi, un'attrice, Anika Ekberg diventata un'icona. Questo e tanto altro è la Dolce Vita di Federico Fellini, l'emblema di un'epoca che di cui registi, attori, produttori cinematografici del mondo intero, Hollywood compresa, non hanno più potuto fare a meno. Difficile, difficilissimo, immaginare chi possa raccogliere dietro e davanti la macchina da presa, un'eredità così tanto complessa già entrata nel mito.

RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA
 
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Addio a Omar Sharif da cinecittùnews

Post n°12454 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 
Tag: news

Ang10/07/2015
E' morto l'attore egiziano Omar Sharif, straordinario interprete al cinema di Lawrence di Arabia e del Dottor Zivago. Aveva 83 anni. Steve Kenis, il suo agente, ha detto alla Bbc che l'attore "ha avuto un attacco di cuore questo pomeriggio in un ospedale del Cairo". Sharif era nato ad Alessandria d'Egitto il 10 aprile del 1932 e aveva vinto due Golden Globe per Lawrence d'Arabia, film per il quale aveva anche ricevuto una candidatura all'Oscar, e un altro per Il Dottor ZivagoSempre secondo quanto riferisce Kenis, gli era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer all'inizio di quest'anno.

Sharif (il cui vero nome era Michel Dimitri Shalhoub), figlio di genitori libanesi, era nato ad Alessandria d'Egitto. Diplomato all'inglese Victoria College, laureato in matematica e fisica al Cairo, scoprì il cinema quasi per caso nel 1953 grazie al regista Youssef Chahine, che lo scelse per Lotta sul fiume. In otto anni interpretò oltre 20 film in Egitto, tra cui La castellana del Libano e I giorni dell'amore che vennero distribuiti anche in Italia; per sposare l'attrice Faten Hamama si convertì all'Islam e scelse il nome che lo accompagnerà per la vita, Omar El Sharif. 

Così si presentò a David Lean che stava scegliendo il cast per Lawrence d'Arabia nel 1961: Lean gli affidò il ruolo dello Sceriffo Alì, tra Peter O'Toole, Anthony Quinn e altri grandi nomi del cinema anglosassone. La nomination all'Oscar del '63 fu la naturale conseguenza e gli aprì le porte di Hollywood. In Italia prestò il suo fascino esotico a film come La caduta dell'impero romano, Marco Polo Gengis Khan. Poi Lean lo travestì da russo per l'adattamento del Dottor Zivago (1965). 

Il successo fu planetario, accompagnato da un Golden Globe che a sorpresa non andò di pari passo con la candidatura all'Oscar. Tra le sue successive interpretazioni vanno ricordate C'era una volta di Francesco Rosi, La notte dei generali di Anatole Litvak e Funny Girl a fianco di Barbra Streisand, della quale si innamorò subito. Nell'immaginario collettivo ha incarnato la figura di un uomo ricco, bello, famoso, adorato dalle masse e conteso dalle donne più affascinanti del pianeta. 

Oltre al francese e all'inglese imparò l'italiano, il greco e il turco. Appassionato di bridge, su cui ha pubblicato anche un manuale, era entrato nella lista dei 'top players' del gioco. "Finisci a fare una vita - ha raccontato nella sua autobiografia - in totale solitudine: alberghi, valigie, cene senza nessuno che ti metta in discussione. L'attrazione del tavolo verde per me diventò irresistibile. E ci ho sperperato delle fortune. A un certo momento ho capito e ho deciso di smettere anche con il bridge per non sentirmi prigioniero delle mie passioni. Facevo film per pagare debiti - ricorda ancora - e alla fine mi sono stufato". Nel 2005 era stato oggetto di una fatwa in occasione della sua interpretazione di San Pietro in una fiction italiana. Dopo la quale Sharif ha deciso di tornare a vivere in Egitto insieme al suo unico figlio, Tarek, e i suoi due nipoti, di cui uno - che si chiama come lui - è a sua volta attore. 

 
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Santo, un giornalista “cane da guardia” della democrazia da articolo21

Post n°12453 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

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Non mi ero reso conto della gravità della malattia di Santo. Non ero presente all’ultima festa di Articolo 21, gli amici mi hanno detto che vi aveva partecipato con la solita carica nonostante i segni della sofferenza. La sua andata ci ha colpito profondamente perché inaspettata. Il dolore per me è doppio, mancano: una telefonata, un incontro, una parola di conforto per Teresa. Ci siamo conosciuti a Torino agli inizi degli anni Ottanta, in Rai non ci siamo professionalmente incrociati: lui al tg io alle reti. La lotta per il diritto di informare e di essere informati, dopo l’editto bulgaro, ci ha fatti rincontrare e l’associazione Articolo 21 ci ha uniti. Quanti dibattiti su e giù per l’Italia.

Che Santo sia stato grande e che lascia un vuoto lo dimostrano le tante e tante testimonianze che in questi giorni sono arrivate direttamente alla famiglia e al sito di Articolo 21. Lui era un giornalista vero, in un mondo di mezze tacche, era un “cane da guardia della democrazia”, tra tanti, troppi “cani da guardia del padrone”, soprattutto dopo l’avvento di Berlusconi e il berlusconismo. So bene che in questi momenti bisognerebbe mettere da parte le polemiche, ma ricordandolo non riesco, Santo Della Volpe è stato un giornalista dalla schiena dritta, mai prima donna, mai solo a parole sempre con i fatti. Don Ciotti aveva visto giusto: solo lui sarebbe stato in grado di sostituire Roberto Morrione aLibera Informazione. Così è stato. Qualche mese fa era diventato presidente della Federazione nazionale della stampa, impegno affrontato con la solita carica e competenza. Eravamo in disaccordo, lui convinto che ci fosse spazio per cambiare non solo la Fnsi ma anche l’Ordine dei giornalisti, io convinto che la deriva è inevitabile. Una categoria che di fronte alla violenza inaudita dell’editto bulgaro nei confronti di Biagi, Santoro, Luttazzi e delle relative redazioni, non è riuscita a creare uno sciopero, una protesta. La verità sta nei fatti: se la categoria fosse stata unita e avesse realmente combattuto il berlusconismo e non solo, non ci sarebbe stata la necessità di fondare Articolo 21 e altre associazioni.  L’ultima volta che ho sentito Santo abbiamo parlato della riforma della Rai e del tentativo dei partiti di non mollare l’osso nonostante le promesse di Renzi.

Di lui ho recentemente parlato in un dibattito dedicato proprio alla riforma della legge Gasparri. La proposta, che è in discussione in commissione al Senato, prevede che nel nuovo cda della Rai un consigliere rappresenti i lavoratori dell’azienda, Santo Della Volpe sarebbe stato perfetto: conosceva la Rai come nessun altro, professionalmente ineccepibile, indipendente dai partiti, amato da tutti noi e soprattutto un uomo perbene.

11 luglio 2015

 
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Noi e la Giulia

Post n°12452 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Locandina Noi e la Giulia

Diego è un venditore di auto senza più la capacità di costernarsi, Claudio l'ex gestore di una gastronomia che ha chiuso i battenti, Fausto un piazzista televisivo inseguito dai creditori. Li accomuna il sogno di cambiare vita e un identico piano B: aprire un agriturismo - la versione per quarantenni del chiringuito ai tropici. I tre uniscono le forze per completare l'acquisto dell'immobile giusto ma devono subito affrontare mille problemi pratici, da un bagno intasato ai camorristi locali che esigono il pizzo. Nella loro avventura verranno coinvolti anche Sergio, un veterocomunista fermo al '68, ed Elisa, incinta e fuori di testa.
Basandosi sul romanzo "Giulia 1300 e altri miracoli" di Fabio Bartolomei, Edoardo Leo prosegue il suo percorso di regista-autore (oltre che di interprete) e soprattutto di cantore dei nostri tempi precari e disillusi. Chi un giorno vorrà ricordare quest'epoca dovrà confrontarsi con la sua filmografia, tanto dietro quanto davanti la cinepresa. Questa volta però il racconto è meno a fuoco di La mossa del pinguino e meno spassoso di Smetto quando voglio (per ricordare due dei film recenti che lo vedono coinvolto e il cui successo si intende bissare).
Noi e la Giulia fatica ad acquisire un suo ritmo comico, complice anche un cast che funziona individualmente ma non coralmente: Leo è centrato nel ruolo del coatto fascistone, Anna Foglietta efficace nei panni (insufficienti a coprire il pancione) della sbullonata di buon cuore e Luca Argentero recupera finalmente il suo accento torinese, che lo fa uscire dalla trappola della dizione asettica di tante sue interpretazioni precedenti. Ma viene a mancare, per chi guarda, il lavoro di squadra, quell'alchimia fatta di improvvisazioni e non sequitur che vanno da sempre ad arricchire il filone della commedia all'italiana, in particolare quella alla I soliti ignoti, in cui un gruppetto di sfigati unisce le forze per fare il colpo del secolo e invece si caccia nei guai. 
Per parafrasare una battuta del film, a Noi e la Giulia mancano le armi giuste per sfondare: battute al vetriolo, interazioni veloci fra attori troppo diversi per funzionare all'unisono, svolte narrative deliranti. Ed è un vero peccato, sia perché il percorso autoriale di Leo merita grande attenzione, sia perché la nota giusta del racconto viene toccata in una scena, ma solo una: quella in cui i membri del gruppo fanno outing dichiarandosi falliti, e si riprendendo il diritto di rivendicare il fallimento come qualcosa non di cui vergognarsi, ma su cui al contrario costruire. 
Anche la regia di Leo fa passi avanti, azzardando angolazioni di ripresa originali, giochi di sovrapposizioni e ralenti. Ma, forse a causa del forte condizionamento produttivo che la IIF di Fulvio Lucisano impone ai suoi prodotti, Leo privilegia la macchina narrativa, mostrandone troppo scopertamente gli ingranaggi, alla scelta di momenti che da soli raccontano una storia. E il cinema si nutre di quegli istanti di rivelazione, di cui Leo è perfettamente capace, se lasciato a briglia sciolta.

 
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Jurassic World

Post n°12451 pubblicato il 12 Luglio 2015 da Ladridicinema
 

Sono trascorsi 22 anni dagli eventi di Jurassic Park e dall'incidente occorso allora, durante i quali a Isla Nublar, al largo di Costarica, si è sviluppato il progetto di John Hammond. Il parco dei divertimenti con i dinosauri come attrazioni è ora una realtà che attira orde di visitatori, ma il management della Masrani Corporation non si accontenta. Consapevole che il suo pubblico chiede sempre di più, il CEO Simon Masrani finanzia un progetto che prevede la generazione, attraverso incroci genetici, di una nuova specie di dinosauro, mai esistita prima. Il suo nome è Indominus rex, la sua caratteristica principale quella di unire la ferocia delle lucertole carnivore e un'intelligenza molto più sviluppata. Ma qualcosa sfugge al controllo dei gestori del parco e Indominus rex diventa una minaccia letale per i 20 mila visitatori di Jurassic World.
Le porte del parco si spalancano e provano a realizzare il sogno incompiuto di 22 anni prima, oltre a cercare di rivitalizzare un franchise dato per disperso nella babele di blockbuster odierni. Assumendosi diversi rischi: dopo tutto questo tempo saranno ancora cool i dinosauri? Faranno ancora paura?
Lo sforzo profuso da Amblin Entertainment e Legendary Pictures in termini di marketing è massiccio e fa leva sull'incrollabile fascinazione dei più piccoli per le lucertole giganti. Ma il semi-carneade Colin Trevorrow prova a ragionare su più livelli: se da un lato si rivolge ai ragazzini e alla realizzazione dei loro sogni - inutile negare l'effetto disneyano-horror della sequenza del mosasauro che divora lo squalo - dall'altro prova a imbastire una metafora sullo scontro generazionale tra verità e finzione, analogico e digitale, natura ed esperimenti genetici. Con la paradossale, ma non inconsueta, predilezione per la purezza del passato, in un film tecnologicamente spinto a velocità folle verso il futuro, con un 3D abbondante e una CGI invasiva, benché competente. Al di là della semplicità allegorica e del fatto che il saccheggio nei confronti del Godzilla di Edwards e dello scontro da kaiju eiga tra lucertolone e M.U.T.O. pare evidente, la competizione per ristabilire chi sia il predatore alfa e chi sia in cima alla catena alimentare convince e guida un epilogo trascinante. Che ha l'ulteriore merito di avvalersi di un elemento "dormiente" del plot, trasformato in risolutivo deus ex machina.
Il risultato, tutt'altro che ovvio, accontenta piccoli fan (irresistibile l'attrazione delle girosfere), animalisti, evoluzionisti e semplici nostalgici. Merito anche di buone scelte di casting, tali da correggere storture o manchevolezze di uno script talvolta troppo elementare: la coppia Chris Pratt-Bryce Howard funziona, con il primo sempre più candidato (dopo Guardiani della Galassia e The LEGO Movie) al ruolo di nuovo Harrison Ford, adattato alla consapevolezza dei propri limiti e al cinismo post-tutto della contemporaneità. Meno bene Irrfan Khan (Vita di Pi), mix di stereotipi sul mecenate vittima delle sue stesse ambizioni, e Vincent D'Onofrio (Full Metal Jacket), fuori giri sin dalla prima apparizione nei panni di un villain che pare un cliché vivente - ovviamente militare e scriteriatamente guerrafondaio - più antico degli stessi dinosauri. Nonostante l'abbandono della direzione da parte di Spielberg, a progetto ancora in uno stato embrionale, Colin Trevorrow risolve una impasse complicata, confermando le ottime impressioni lasciate dall'incursione nella sci-fi di Safety Not Guaranteed e cancellando (anche a livello di plot) il ricordo del secondo e del terzo episodio della serie, deludentissime prosecuzioni del capostipite.

 
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