Creato da WalterSantoSubito il 08/05/2008 |
Post n°22 pubblicato il 31 Marzo 2010 da WalterSantoSubito
31 marzo 2010 Inviato di human rights watch si firmava “Heil Hitler”Chi è l’esperto di diritti umani che accusa Israele e colleziona cimeli nazisti Tira una brutta aria nel quartier generale di Human rights watch (Hrw) a Manhattan, che contende ad Amnesty International il primato e i finanziamenti nella battaglia per i diritti umani. E l’imbarazzo della celebre Ong ha un nome di origine italiana: Marc Garlasco. E’ stato per anni il principale esperto militare dell’organizzazione, inviato in tutti i teatri di guerra, dall’Afghanistan a Gaza. Di giorno, Garlasco rispondeva ai giornalisti, accusando americani e israeliani delle peggiori nefandezze. Di notte, l’esperto si trasformava in “Flak88”, il suo nickname nei forum nazistoidi. Garlasco era un accanito collezionista di cimeli hitleriani. E’ stato un blogger a notare come l’esperto militare scrivesse su Amazon recensioni entusiastiche di libri sul Terzo Reich. Come simbolo in rete, Garlasco aveva adottato una svastica. Flak88 è un nome in codice per un’arma tedesca e il corrispondente numerico di “Heil Hitler”. Assidue erano le sue frequentazioni nei siti internet che inneggiano alla Wehrmacht (suo nonno aveva vestito la divisa della Luftwaffe). Il governo israeliano di Netanyahu aveva accusato più volte Hrw di parzialità. Se all’inizio l’organizzazione aveva offerto sostegno a Garlasco, evocando perfino una “cospirazione” contro l’organizzazione, adesso è come se l’esperto militare non avesse mai lavorato per il Nobel per la pace. Lo scorso 5 marzo, scrive il quotidiano Times, il nome di Garlasco è scomparso dal sito di Hrw. Era stato lui a denunciare come “crimine di guerra” il lancio a Gaza di proiettili traccianti al fosforo, usato da tutti gli eserciti per illuminare il campo di battaglia. Ma Garlasco era in preda a una vera e propria febbre per i cimeli nazisti. E’ il secondo incidente per la lobby dei diritti umani, dopo la denuncia del giro propagandistico alla ricerca di finanziamenti in un paese come l’Arabia Saudita. Il caso Garlasco non avrebbe attirato tanta attenzione se Hrw non avesse sposato una chiara linea antisraeliana. In poche settimane, l’organizzazione ha dedicato cinque rapporti a Israele. E per fare un raffronto, in vent’anni appena quattro memo sul conflitto in Kashmir, costato la vita a 80mila persone. E sulle repressioni in Iran, Hrw non ha scritto nulla. Dalla imbarazzante cacciata di Garlasco, altre ombre emergono al vertice dell’organizzazione. Joe Stork, vicedirettore del dipartimento mediorientale, elogiò il massacro di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco. E partecipò a una conferenza contro Israele promossa da Saddam Hussein. Darryl Li è l’uomo del Palestinian center for human rights, che definisce “atti di resistenza” gli attacchi contro i civili israeliani e che nel suo grossolano elenco delle vittime civili a Gaza enumera anche Nizzar Rayyan, il capo di Hamas che ha mandato uno dei figli a compiere un attentato suicida. Reed Brody è l’uomo che tentò di far processare in Belgio il premier israeliano Ariel Sharon e oggi dirige l’ufficio europeo di Hrw. Ci sono anche Charles Shamas, consulente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, e Gary Sick, che ha invitato Ahmadinejad alla Columbia University. Ad accusare Human rights watch di bancarotta è stato perfino il suo leggendario fondatore, Robert Bernstein, per il quale Hrw “ha perso la prospettiva critica su un conflitto che ha visto Israele ripetutamente aggredito da Hamas e Hezbollah, due organizzazioni che si accaniscono contro i cittadini israeliani e usano la propria stessa gente come scudi umani”. Il massimo esperto mondiale di uniformi hitleriane era anche quello che doveva giudicare la condotta degli israeliani in guerra. Troppo persino per un’organizzazione antipatizzante verso Israele come Human rights watch. Un’organizzazione che era nata con altri intenti in un piccolo appartamento nel cuore di Mosca, dove quarant’anni fa si riunivano i dissidenti sovietici assieme all’americano Bernstein. Fra di loro c’era anche Nathan Sharansky. © - FOGLIO QUOTIDIANO |
Post n°21 pubblicato il 31 Marzo 2010 da WalterSantoSubito
Le due sconfitte di Bersani e Di Pietro Due piccole sconfitte esemplari che dovrebbero far riflettere due leader che per varie ragioni escono malconci dalle elezioni. Il primo è Antonio Di Pietro (che ora ha trovato uno che urla più forte di lui e che gli ruba pure voti: Beppe Grillo). Il secondo è Pier Luigi Bersani (che può anche dire di non aver totalmente perso ma non può certo dire di aver certamente vinto). Ecco. A Montenero di Bisaccia, paesino dove è nato Tonino, ha vinto il centrodestra. A Bettola, paesino emiliano in cui è nato Bersani, la Lega è diventato il primo partito con il 36,9 per cento. © - FOGLIO QUOTIDIANO di Claudio Cerasa 30 marzo 2010 - ore 10:27 |
Post n°20 pubblicato il 30 Marzo 2010 da WalterSantoSubito
Clamoroso nel Lazio di Claudio Cerasa Non si sa come, ma il Pd è riuscito a compiere l'ultimo miracolo: perdere nel Lazio. La Polverini viaggia spedita verso la vittoria e il centrosinistra, dopo aver perso due anni fa Roma, continua a trovare buone strategie per stupire i suoi elettori riproponendo, appena due anni dopo aver offerto Roma ad Alemanno, l’efficace tecnica del suicidio politico. Stavolta perdere sembrava impossibile, ma il centrosinistra ha avuto la forza e il coraggio di stupirci ancora una volta. © - FOGLIO QUOTIDIANO 29 marzo 2009 |
Post n°19 pubblicato il 28 Novembre 2009 da WalterSantoSubito
la nuova norma, se approvata, dovrebbe entrare in vigore a partire dal prossimo anno Polonia: presentata una legge per mettere al bando tutti i simboli del comunismo Chiunque li utilizza o ne è in possesso potrebbe rischiare fino a 2 anni di carcere MILANO - Vent'anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino, decisero di buttare giù le statue di Lenin e di Marx e di seguire le democrazie occidentali. Adesso i politici polacchi hanno presentato un breve emendamento che mette al bando qualsiasi simbolo comunista dal paese dell'Est europeo. Il Senato ha infatti approvato una modifica all'articolo 256 del codice penale che dichiara illegali tutti i simboli comunisti. Chiunque li utilizza o ne è in possesso rischia fino a due anni di carcere per aver commesso il reato di «glorificazione del comunismo». Il Presidente della Repubblica Leck Kaczynski lunedì prossimo dovrebbe firmare la legge che probabilmente entrerà in vigore dal prossimo anno. A questo punto anche indossare t-shirt con l'immagine di Che Guevara o solamente canticchiare l'Internazionale nelle strade di Varsavia sarà considerato un crimine in Polonia. EMENDAMENTO – La nuova legge infatti proibisce espressamente tutte le immagini che inneggiano a sistemi antidemocratici: l'articolo afferma che è vietata «la produzione, la distribuzione, la vendita o il solo possesso di oggetti che richiamano al fascismo, al comunismo o ad altri simboli di totalitarismi». Uno dei principali promotori della norma è Jaroslaw Kaczynski, fratello gemello del Presidente della Repubblica e capo del partito di opposizione «Legge e Giustizia». Secondo Kaczynski questa legge è sacrosanta perché il comunismo è uno dei simboli negativi del '900: «Nessuna immagine del comunismo ha diritto di esistere in Polonia - ha spiegato ai media locali il leader dell'opposizione - Il comunismo e il suo sistema genocida deve essere comparato al nazismo». Molti storici polacchi condividono la tesi di Kaczynski: «Quello comunista era un sistema terribile e omicida che ha causato la morte di milioni di vite» ha dichiarato lo storico Wojciech Roszkowski. «Non è sbagliata la comparazione con il nazismo - sottolinea lo studioso polacco - e per questo i due sistemi e i loro simboli devono essere trattati allo stesso modo». PASSATO CHE NON PASSA - Sebbene i comunisti non abbiano più alcuna influenza politica, in Polonia sembra che il passato non voglia proprio passare. Nelle scorse settimane la Polonia infatti è stato il Paese che più si è battuto contro la candidatura di Massimo D'Alema a Ministro degli Esteri dell'Ue. L'ambasciatore della Polonia presso la Ue Tombinski definì D'Alema «un problema» per il suo passato comunista e precisò che era più adatto a quest'incarico «una persona la cui autorità non può essere contestata a causa delle sue appartenenze politiche passate». Recentemente l'uscita dell'ultimo film del famoso regista Andrzej Wajda che racconta il massacro di Katyn durante la Seconda Guerra Mondiale ( i sovietici uccisero oltre 20.000 tra civili e soldati polacchi) ha suscitato un rinnovato odio contro gli oppressori russi. LIBERTA' D'ESPRESSIONE - Come sottolinea il Times di Londra lo scopo dei politici polacchi è chiaro: «rendere invisibile il comunismo». Il ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski ha ribadito che il Palazzo della Cultura e della Scienza, il più alto grattacielo in Polonia, deve essere abbattuto solo perché è un regalo fatto da Stalin ai cittadini di Varsavia. Non importa che, nel corso degli anni, sia diventato una delle strutture simbolo della città: «Se lo abbattessimo, anche la Polonia avrebbe il simbolo della fine del comunismo come la Germania ha i resti del muro di Berlino. Poi in termini ecologici è anche una costruzione molto inquinante». La battaglia contro il comunismo ha comunque il sostegno della popolazione e della stampa: «Il punto centrale è dimostrare che non vi è nulla di romantico o di divertente nel comunismo» dichiara un cronista polacco al Times. «Il comunismo - prosegue il giornalista - non è stato un gioco. E neppure un’ideologia che riscaldava il cuore. Il comunismo invece fermava i cuori, li faceva appassire e li rendeva freddi». Francesco Tortora
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Post n°18 pubblicato il 31 Maggio 2009 da WalterSantoSubito
Carfagna: «In Aula c'è di tutto Il ministro delle Pari opportunità: «Fa il bene del Paese. Il resto sono affari suoi» Gentile Direttore, trascorso un anno da un attacco mediatico di inaudita volgarità a cui sono stata sottoposta, sono qui a fare alcune considerazioni su vicende che in questi giorni ci sono state date in pasto con una morbosità e un’ossessività che ricordano molto quelle che hanno riguardato la sottoscritta. Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità (Pdl) - 29 maggio 2009 |
Post n°17 pubblicato il 31 Maggio 2009 da WalterSantoSubito
Alla Reggia di Venaria Tutte con il velo. (Ma è libertà?) Il personale della Reggia di Venaria (Torino) ha lavorato con veli e kefiah per solidarietà con una collega marocchina contro il cui velo islamico avevano protestato alcuni turisti. Ma la testa coperta non è un’espressione della propria religione come tante altre, è un segno di sottomissione femminile. Se fosse un film americano, per chi tifereste? Per le impiegate e le guide della reggia di Venaria che sono andate a lavorare col velo per solidarietà con la collegO per la signora piemontese seccata per aver visto donne velate a contatto col pubblicoa marocchina Amellal? , che ha scritto alla Stampa «non sarebbe più corretto impiegarle in attività di ufficio? O utilizzare persone vestite con abiti d'epoca?». Solo la trovatona delle poverette in abito d'epoca fa antipatizzare con la signora e simpatizzare con le lavoratrici di Venaria; che non hanno paura di essere (non è cosa alla moda) solidali. Ma la questione è molto, molto più complicata. Perché mettere il velo non è un'espressione della propria religione come tante altre, come portare la croce o la stella di Davide (o la mezzaluna). È un segno di sottomissione femminile, non tanto ad Allah quanto ai maschi di casa. Alcune lo portano per scelta; la maggioranza per costrizione. È una condizione che non si risolve come propone il signore piemontese, nascondendo le impiegate velate per dimenticare che a Torino gli islamici sono ormai tanti. Si risolve — al momento pare utopico, ma meglio essere utopisti che pilateschi, che ignorare i problemi di tanta parte dell'umanità femminile — pensando che tutte le donne dovrebbero essere libere di scegliere cosa fare con la propria testa. E cercando di garantire loro dei diritti. In Francia, nella Francia dell'allora presidente Chirac, è stata fatta una legge che vieta di ostentare simboli religiosi nei luoghi pubblici. Legge discussa; ma lì si può applicare perché li proibisce tutti, di qualunque culto. In Italia, nelle nostre scuole e nei nostri uffici dove sono appesi i crocefissi, seguire l'esempio sarebbe molto, molto più complicato (sarebbe bello se le colleghe italiane fossero così solidali da dare a qualche islamica che non vorrebbe il velo la forza di toglierlo, casomai; senza sistemare tutte mettendole in costume, d'epoca o da bagno, come si tende a fare da noi). Maria Laura Rodotà - Corriede della Sera 31 maggio 2009 °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° Islam: Donne musulmane, il velo è sottomissione - 7 febbraio 2007 Fonte: repubblica.it L’85 per cento delle donne di fede musulmana che vive in Italia e risiede in diverse regioni del nostro paese, ritiene che il velo sia uno strumento di sottomissione e di controllo da parte della comunità maschile. È il clamoroso dato che emerge da un sondaggio condotto da “Al Maghrebiya”, unico organo di informazione il lingua araba diffuso in tutto il territorio nazionale, e illustrato oggi a Montecitorio dalla parlamentare di An Daniela Santanché, nel corso della presentazione della proposta di legge che vieta l’uso del velo nelle scuole di ogni ordine e grado per le ragazze minorenni. Dal sondaggio, condotto su un campione di 500 donne in prevalenza originarie del Marocco, ma anche egiziane, tunisine, algerine, somale e eritree, emerge inoltre l’85% delle donne islamiche porta il velo “per timore”. Non solo, il 95 per cento ritiene che l’obbligo del velo non sia un precetto del Corano, ma discende da una sua interpretazione forzata, mentre il 78 per cento lo considera un ostacolo all’integrazione dell’immigrazione nella società italiana. Il 98 per cento delle intervistate definisce inoltre la loro situazione dei diritti e delle libertà individuali “insoddisfacente o del tutto insoddisfacente”. Alla domanda su quali siano le situazioni che quotidianamente provocano alle donne immigrate maggiori problemi e sofferenze, il 42 per cento risponde “la disparità di diritti tra uomo e donna nella famiglia e nell’educazione dei figli”, mentre il 30 per cento la mancanza di una istruzione adeguata e la difficoltà di accedere al mondo del lavoro“. Quasi nove donne su dieci ritiene inoltre che le bambine non siano in condizione di maturare una scelta consapevole sull’uso del velo. Il 63 per cento delle interpellate, infine, si è detto favorevole ad un provvedimento di legge che impedisca l’uso del velo islamico nelle scuole italiane fino ai 16 anni. ”Ed è anche questo — ha commentato Daniela Santanché — che ci ha spinto a presentare una proposta di legge che vieti il velo nelle scuole italiane“. AGI °°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°° **DAL GIORNALE DELLA TOSCANA DEL 02/10/2005"SUBMISSION": TESTIMONIANZA CHOCH SULL' ISLAM "Submission è un pugno allo stomaco. Tre donne musulmane, interpretate dalla stessa attrice, raccontano la loro condizione in un dialogo con Allah. Raccontano storie di sopraffazione, negazione dei diritti umani, sottomissione. Agli occhi che spuntano dietro il velo, si frappongono le immagini di una donna che sulla schiena ha tatuati i versetti del corano. Il regista olandese Theo Van Gogh per questo film è stato ucciso, poi sgozzato da un fondamentalista islamico che sul suo cadavere ha lasciato un biglietto con la "fatwa" lanciata contro chi ha osato documentare la vita delle donne nei paesi dove il fondamentalismo è legge.(...)Sala gremita all'hotel Mediterraneo. (...) Dibattito moderato dal direttore de "Il giornale della Toscana" Riccardo Mazzoni, al quale hanno preso parte il coordinatore di F.I. Denis Verdini, la parlamentare Patrizia Paoletti, i consiglieri regionali Angelo Pollina e Anna Maria Celesti, il capogruppo di F.I. in Palazzo vecchio Paolo Amato, il consigliere provinciale Massimo Lensi.Al parterre di relatori si aggiunge il presidente della comunità islamica di Firenze Elzir Izzedin.(...) "Esiste il diritto sancito dalla Costituzione ad avere luoghi di culto, ma come ricorda Magdi Allam, certi diritti vanno anche contestualizzati" esordisce Amato che ricorda il caso della Moschea di Sorgane " (...) "La politica ha il dovere di scommettere sull' islam moderato, cosi come sta facendo il ministro Pisanu con la Consulta, ma all' islam moderato chiediamo di far sentire la sua voce (...). Credo che una società aperta non sia senza identità, ma l' identità e la sua salvaguardia è fondamentale per avviare il confronto in maniera corretta e costruttiva".(...) Mazzoni riprende per dire che " l' islam moderato esiste, ma non possiamo indulgere al buonismo, perchè non fa bene a noi e nemmeno all' islam moderato.(...) l' Occidente, seppur con passaggi storici complessi e dolorosi, alla fine ha garantito la libertà. Democrazia e libertà sono due valori irrinunciabili. (...) per ora l' Europa non non ha saputo dar risposte dinnanzi alla minaccia del terrorismo internazionale; (...) In Europa è stato commesso lo sbaglio di ritenere che tutto si può risolvere con la mediazione politica. Purtroppo la sfida del terrorismo islamico dimostra il contrario". Pollina richiama i contenuti del film " La penso come Oriana Fallaci e il presidente Pera sulla necessità di difendere la nostra identità. Occorre parlare chiaramente, prender coscienza di quanto sta accadendo in Europa. (...)Bisogna farlo senza tentennamenti, rifuggendo dal buonismo a senso unico che la sinistra diffonde a piene mani(...) Perchè non vengono prese le distanze da chi offende la nostra religione? Da chi ci porta in tribunale come ha fatto con la Fallaci? Perchè dopo gli attentati (...) non sono scesi in piazza a manifestare contro il terrorismo? Perchè nelle moschee spesso si predica l' odio contro l' Occidente? |
Post n°16 pubblicato il 23 Aprile 2009 da WalterSantoSubito
LA SINISTRA E I REALITY L’Unità, Gramsci e la scoperta del Grande Fratello Sei pagine del quotidiano sulla vittoria di Ferdi di ALDO GRASSO Che bello, l’Unità ha finalmente sdoganato il Grande Fratello; benvenuta fra noi mostri! Il giornale fondato da Antonio Gramsci e diretto ora da Concita De Gregorio ha dedicato alla vittoria di Ferdi ben sei pagine: copertina, fondo del direttore, testimonianza di un’attrice rom, intervista a un autore del GF, analisi di Carlo Freccero, intervista a Luxuria, commento preoccupato dello scrittore Roberto Alajmo. E dire che fino a poco tempo fa il reality era considerato la sentina di tutti i vizi possibili e immaginabili, lo schifo fatto tv. Si vede che le teorie gramsciane sul nazional-popolare alla lunga fanno effetto. Sì, qualche cautela c’è ancora ma l’interdetto è caduto. L’ultimo eroico resistente è Marco Belpoliti che dalla prima pagina della Stampa ci avvisa che non esiste più differenza tra spettacolo e vita e che gli intellettuali italiani sono stati piegati dal «pensiero unico» della neotelevisione berlusconiana. La verità è che il GF ha messo in scena il «sociale» e con il «sociale» non si scherza, bisogna fare i conti. Per questo la De Gregorio osserva che «televotare un rom aiuta a sentirsi antirazzisti... e costa poco». Insomma, va bene tutto ma attenzione: la realtà è ben altra cosa. Freccero parla della rivincita televisiva delle minoranze. Vladimir Luxuria spiega che il reality mette gli spettatori a contatto con realtà chiuse in cliché crudeli ma «qualche interrogativo in più la gente se lo pone dopo aver visto me, un trans, in tv». Eh, certo, qualche interrogativo in più. Alajmo (prestigioso consulente di Agrodolce, una delle più insulse soap mai realizzate dalla Rai) pensa infine che questo GF sia stato «un lavacro rituale per la cattiva coscienza degli spettatori». Sdoganamento sì, ma con giudizio. Il paradosso di queste sei pagine è che fino a ieri l’Unità si era sempre lamentata di una realtà troppo televisiva, plastificata, mediatica (come direbbe Belpoliti). Adesso scopre che la tv è meglio della realtà: l’una è un sogno, «una festa del Principe», l’altra una schifezza. Come recita un titolo del giornale, «la tv cambia, il Paese no». Potenza del telecomando.
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Post n°15 pubblicato il 19 Aprile 2009 da WalterSantoSubito
«la battuta migliore? Afef che per darmi un bacio si sbuccia un ginocchio» Brunetta: «È un momento magico, l'Italia cambia. Tremonti? A volte è tenero» Il ministro della Pubblica amministrazione: «D'Alema non mi è simpatico. E sull’energumeno non è finita qui» Renato Brunetta è in tour pre-elettorale sulle Langhe. Si apre una bottiglia di Fallegro Gagliardo, uno dei suoi vini preferiti. Rilegge le bozze del prossimo libro, in uscita la prossima settimana da Mondadori: Rivoluzione in corso. E ne sintetizza così lo spirito: «L’Italia sta vivendo un momento magico. Una grandissima transizione in positivo. Un’enorme voglia di cambiare, di non essere più l’Italietta del passato, di diventare diversa, migliore. Il governo ha tanto consenso proprio perché Berlusconi, con i suoi istinti, per primo ha capito questa voglia di cambiamento». Momento magico? E la crisi, ministro? Il terremoto? E più povero. Però l’economia è ferma, il Pil diminuisce. Il suo libro, un diario di bordo lungo un anno, comincia con la parola- chiave: fannulloni. Questa campagna l’ha fatta amare da molti, ma anche detestare dai dipendenti pubblici. O no? Lei cita minacce e insulti ricevuti, ma pare che le abbia fatto particolarmente male la battuta di D’Alema: energumeno tascabile. Di solito a destra D’Alema è molto apprezzato. Però la statura per lei ormai non è un problema. Un altro personaggio che lei critica, sia pure senza toni polemici, è il Papa: «È straordinariamente attento alla realtà politica e sociale del nostro Paese...». Si aspettava un’accoglienza migliore ai Didoré, il progetto suo e di Rotondi sulle coppie di fatto? Per Tremonti ha parole agrodolci. Cosa intende quando definisce un errore aver imposto le stesse regole del Nord al Sud? Erano davvero «orribili», come le definisce, le gondole che da ragazzo vendeva sulla bancarella a Venezia? Coprotagonista del libro, a cominciare dalla dedica, è Titti. Dove vi siete conosciuti? Lei scrive di aver declinato molti inviti nei salotti.
Aldo Cazzullo - Corriere della Sera |
Post n°14 pubblicato il 08 Aprile 2009 da WalterSantoSubito
I bambini nelle tende tra clown e bolle «Ma non dimenticano» Alcuni hanno perso i genitori, altri i nonni o i cugini Ridono e giocano. Poi chiedono di tornare a casa. L'AQUILA — L'altro ieri i vigili del fuoco hanno tirato fuori da una casa semidistrutta due bimbi ancora vivi. «Uno era sotto il corpo del padre, che è morto per proteggerlo — raccontano —. La sorella l'abbiamo trovata in un'altra stanza rimasta miracolosamente in piedi. Purtroppo sotto le macerie c'era anche il cadavere della madre». Quei due fratellini sono i primi orfani accertati in questa tragedia. Ma qui esistono ancora le famiglie allargate che popolavano l'Italia di qualche anno fa. «Non sappiamo di bambini soli — dice Stefania Pezzopane, presidente della Provincia dell'Aquila —. Chi ha perso la mamma o il papà, o tutti e due i genitori, è stato accolto e accudito. È scattata una grande solidarietà, sia familiare sia extrafamiliare. Anche per questo, finora, la questione dei minori non è stata trattata separatamente dalle altre. A parte il fatto che vorremmo dei container da usare come scuole: abbiamo fatto richiesta, stiamo aspettando». Nel campo degli sfollati c'è Jacopo che gira con il numero di cellulare dei genitori scritto sulla felpa arancione, e Michael che si è dipinto le guance e il naso e urla «sono un clown»; ci sono Paride e Davide, fratellini senza più nonni materni, e Tito in passeggino, spinto da una cuginetta. Sembrano i meno terremotati di tutti. Forse perché loro sulla terra si muovono leggeri: saltellano, sbandano di lato lungo traiettorie alternative, si rincorrono in ubriacanti zig zag. È successo anche ieri, quando la terra ha ripreso a tremare per una scossa fortissima che faceva ondeggiare i palazzi. Gli adulti gridavano rivolti al sisma: «Sta', per favore. Ora sta'. Piuttosto ammazzami però basta: stai fermo». I bambini invece hanno continuato a duellare con spade fatte di palloncini gonfiabili, a saltare per prendere le bolle di sapone, giocavano e ridevano. Un papà è arrivato e gli tremava la voce: «In tenda — ha tentato di urlare ai tre figli —. Venite subito». Risultato: dallo spiazzo del campo profughi è partito verso la sua tenda un corteo di bambini e di clown. Sono i pagliacci mandati dal ministero delle Pari opportunità. Ieri ne sono arrivati sei, tanto bravi che riuscivano a divertire anche i grandi. Oggi ne verranno altri e per Pasqua saranno all'opera anche i Nasi rossi d'Abruzzo, l'associazione locale di clown dottori. «Hanno le case distrutte e uno di loro non si trova più — spiega Mario Tallarico, psicologo e vice presidente della Federazione nazionale clown dottori —. Si sono presi due giorni per piangere». Altrimenti non riescono a far sorridere gli altri, che poi è la loro terapia. I bambini nei campi ancora non si sa quanti siano. Per adesso la priorità è dare alloggio agli sfollati, per contarli e registrarli tutti ci vorrà ancora un po' di tempo. «Ma è fondamentale farlo presto, in particolare con i bambini — dice Filippo Ungaro, che per Save the Children lavora nell'area colpita dal terremoto —. Solo così si possono sviluppare programmi di assistenza mirati». Ce n'è bisogno; perché questi bimbi, che adesso giocano davanti alle telecamere di mezzo mondo, non hanno dimenticato quello che è successo l'altra notte e se ne parlano ricordano la paura provata quando «papà e mamma mi hanno preso in braccio», o raccontano la nostalgia di casa, la voglia di tornarci. Quella di adesso è un impianto sportivo pieno di tende blu e allora usano la sabbia in fondo alla pedana del salto in lungo per fare formine con i bicchieri di plastica. A loro tutto sommato è andata bene. Ma ci sono anche 24 bambini abruzzesi ricoverati in ospedale. E quando il bilancio di questa tragedia sarà definitivo si saprà se qualche bimbo è rimasto solo. «È presto per parlare di orfani — dice il ministro Mara Carfagna, che è venuta a salutare pagliacci e bambini —. Ci siamo attivati per avere notizie certe poi ci occuperemo anche di questo». Mario Porqueddu |
Post n°13 pubblicato il 04 Aprile 2009 da WalterSantoSubito
vertice nato: almeno 40 arrestiViolenti scontri a Strasburgo I no global tentano di fermare il summit Black bloc tra i manifestanti hanno dato vita a episodi di violenza, lanciando pietre e appiccando incendi STRASBURGO (FRANCIA) - Violenti scontri sono avvenuti su uno dei ponti che collegano la città di Strasburgo alle rive del Reno, dove è prevista la mega manifestazione no-global di sabato pomeriggio contro il vertice Nato. Un volontario del pronto soccorso tedesco ha detto che almeno 50 persone sono rimaste ferite negli scontri con la polizia. Circa 5000 manifestanti, secondo gli organizzatori, si sono radunati sul ponte, che a un certo punto è stato bloccato dalle forze dell'ordine che hanno ripetutamente lanciato lacrimogeni. Vari gruppi di black bloc tra i manifestanti hanno dato vita a episodi di violenza, lanciando pietre e appiccando incendi. I maggiori problemi per l'ordine pubblico sono segnati sul versante tedesco del confine, dove vengono segnalati migliaia di manifestanti che stanno cercando di raggiungere Strasburgo. «Ci sono stati dei feriti», vittime dei gas lacrimogeni e dei proiettili di gomma, ha confermato un portavoce di Medical Team, senza precisarne il numero. Un giornalista dell’Afp ne ha visti due. Inoltre, dopo due ore di blocco, la polizia ha aperto l’accesso ai Giardini delle Due Rive, e un gruppo di una ventina di persone mascherate ha saccheggiato il negozio di una stazione di servizio e incendiato una postazione di polizia vuota, vicino al ponte dell’Europa. CAMPO DI BATTAGLIA - Il parco delle Due rive, nel centro di Strasburgo, è diventato il campo di battaglia dove polizia e black block si stanno scontrando con estrema violenza, Al lancio di lacrimogeni dei manifestanti, la polizia risponde con lacrimogeni. I contatti tra i due schieramenti sono molto violenti. Per raggiungere il parco, i black block hanno attraversato un quartiere popolare di Strasburgo lasciandosi alle spalle la devastazione. Intanto hanno incendiato la sede della vecchia dogana fluviale e distrutto due stazioni di servizio. Dando prova di perfetta organizzazione, alcuni «gruppi» di black block hanno dato l'assalto ad almeno due bar, prelevando i tavoli e incendiandoli, dopo avere fatto con essi della barricate. La polizia sta intervenendo ora con un fitto lancio di lacrimogeni. Assaltato anche l'hotel Ibis, nel centro della città. I manifestanti hanno anche divelto delle inferriate che usano per trasportare il materiale che poi incendiano. Nei loro raid, i black block hanno distrutto vetrate di negozi e uffici.
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Post n°12 pubblicato il 28 Marzo 2009 da WalterSantoSubito
Turchia, la strage delle ragazze Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera A Derya, 17 anni, la sentenza di morte è arrivata via sms: «Hai infangato il nostro nome — scriveva uno dei tanti zii — ora o ti uccidi o ti ammazziamo noi». A Nuran Unca, 25 anni, l'hanno detto i genitori, entrambi insegnanti. Lei ha resistito per un po', poi si è impiccata nel bagno di casa. Elif, invece, non ce l'ha fatta a togliersi la vita e ha deciso di scappare. Da otto mesi vive come una clandestina, costretta all'anonimato da un'assurda sentenza di morte emessa per aver rifiutato un matrimonio combinato. Sono solo alcuni dei tanti nomi di ragazze costrette al suicidio per motivi d'onore in Turchia. Un tempo venivano uccise dal fratello più giovane che se la cavava con qualche anno di galera, grazie alla sua età e alla legge che prevedeva forti attenuanti in casi del genere. Ma nel 2005, per avvicinarsi all'Europa, Ankara ha riformato il codice penale prevendendo l'ergastolo per il delitto d'onore. Così le famiglie sono corse ai ripari e, per non perdere due figli, hanno pensato di indurre le giovani ad uccidersi. In poco tempo le percentuali dei suicidi si sono impennate. Soprattutto nel sud-est del Paese, l'area abitata dai curdi, profondamente influenzata dall'Islam più conservatore. Batman, una cittadina grigia e polverosa di 250mila anime, vanta il triste primato di morti sospette, tanto da essere citata da Orhan Pamuk nel romanzo Neve in cui un giornalista investiga sulla strana epidemia di suicidi tra le adolescenti. Ma il fenomeno dilaga ormai anche nel resto del Paese. Nella moderna Istanbul, per esempio, si conta un delitto d'onore a settimana. Sui suicidi dati certi non ce ne sono, si parla di centinaia di casi. Gli esperti sostengono che l'emigrazione dei curdi verso le grandi città porta a un'esasperazione del conflitto tra modernità e tradizione. Le teenager scoprono Mtv, i jeans stretti, le feste, l'amore. Basta un'occhiata a un ragazzo o una gonna troppo corta e il loro destino è segnato: il consiglio di famiglia si riunisce e le condanna a morte. «Questo scontro di civiltà — ha spiegato a una troupe della britannica Channel Four Vildan Yirmibesoglu, capo del dipartimento dei diritti umani a Istanbul - sta rendendo la situazione ancora peggiore. Aumenta la pressione sulle donne perché rispettino i dettami conservatori della tradizione. E, chiaramente, ci sono più tentazioni». Ogni giorno decine di giovani bussano alla porta di Ka-mer, il centro fondato nel 1997 da Nebahat Akkoc per aiutare le donne in pericolo. La sede di Diyarbakir ha le pareti color corallo e una poltrona di pelle dove le ragazze sprofondano raccontando la loro storia. L'associazione le aiuta a trovare una casa-rifugio e a rivolgersi a un tribunale. Per rendere le cose più facili è stata creata anche un'hotline, ma telefonare e denunciare la propria famiglia può diventare improponibile nella regione curda dove, secondo i dati delle Nazioni Unite, si stima che il 58% delle donne sia vittima di abusi e che il 55% sia analfabeta. Vista da qui l'Europa appare ancora più lontana. Monica Ricci Sargentini - Corriere della Sera |
Post n°11 pubblicato il 27 Marzo 2009 da WalterSantoSubito
Il Pdl - Le prime assise «L’era Silvio? Non avevamo capito nulla» Violante: nel Pds si ironizzava. Solo Pecchioli comprese, D’Alema intuì qualcosa. ROMA - «L’inizio di tutto? Ho un ricordo netto, visivo, e quasi fisico: ero nel mio ufficio di presidente della commissione Antimafia, a Palazzo San Macuto, e stavo guardando i tigì di mezza sera. All’improvviso sentii dare questa notizia: "L’imprenditore Silvio Berlusconi ha deciso di appoggiare il leader dell’Msi Gianfranco Fini che, nella corsa a sindaco di Roma, è impegnato contro Francesco Rutelli, candidato del centrosinistra"... Beh: mai, prima di quel momento, c’era stato qualcuno così sfrontato nell’appoggiare un esponente di destra, e di una destra vera, autentica... che anno era?». Era il 23 novembre 1993. Berlusconi—all’epoca padrone di tv e strepitoso presidente del Milan — decide di mettersi a fare politica: voi del Pds cosa pensaste? Tutti sorpresi. Tipo? E i diccì? E i socialisti? Cosa dicevano? E quindi? Voi, invece, rigidi. Perché? E voi? Ingenui. Per esempio, quando? E quando, il 26 gennaio del 1994, Berlusconi registrò il suo primo messaggio televisivo, mettendo una calza da donna davanti all’obiettivo della telecamera per garantirsi così un effetto visivo più fascinoso? Achille Occhetto, avversario designato. Ma lo sottovalutaste davvero a lungo. Veltroni, all’epoca direttore dell’«Unità », gli consentì addirittura di scrivere un editoriale in prima pagina per spiegare l’uso delle sue tivù. Vittorio Foa lo definì una «bolla di sapone»... Eppure voi, fino all’ultimo, pensaste di vincere. Occhetto definì la vostra armata elettorale una «gioiosa macchina da guerra». Ci fu un suo incidente con Marcello Dell’Utri. Oggi comincia il congresso di fondazione del Pdl. E stavolta? Fabrizio Roncone - Corriere della Sera |
Post n°10 pubblicato il 25 Marzo 2009 da WalterSantoSubito
Costruito a Chongqing dalla Jinguan auto Cina: il bus dei condannati a morte Iniezione letale a bordo mentre si dirige al più vicino ospedale per l'espianto degli organi Viene costruito a Chongqing dalla Jinguan Auto il bus dei condannati a morti in Cina. Oltre ad avere il record mondiale delle condanne a morte (1.718, pari al 72% nel 2008, ma Amnesty International segnala che i numeri potrebbero essere più alti), la Cina ha inventato anche le esecuzioni mobili. Per risparmiare tempo e denaro, e soprattutto recuperare i preziosi organi dei condannati, che vengono subito espiantati per poi essere rivenduti per i trapianti. E per poter fare questo, i cadaveri dei condannati devono essere portati subito in sala operatoria. Quindi, cosa c'è di meglio di fare loro l'iniezione letale direttamente sul pullman che li porta in ospedale? ASETTICI - La notizia dell'esistenza di questi veicoli non è nuova, ne ha parlato alcuni anni fa la stessa stampa cinese. La Jinguan ha finora venduto una decina di questi minibus lunghi 7 metri e da 17 posti, spiega il sig. Zhang dell'ufficio marketing dell'azienda all'Indipendent, senza però voler dare il proprio nome. La Jinguan dal 1992 costruisce ambulanze, veicoli per la polizia, pullmini per il trasporto di preziosi e auto blindate. Zhang spiega che i condannati vengono posti su un lettino, legati mani e piedi, poi viene fatta loro l'iniezione letale. C'è anche un sistema video per filmare l'esecuzione e assicurarsi che tutto venga fatto a norma di legge. VANTAGGI - L'altro «vantaggio» del pullmino è che può raggiungere anche le località cinesi più remote dove c'è da giustiziare qualcuno, senza doverlo portare nella prigione provinciale con costi e tempi aggiuntivi. L'esecuzione tramite iniezione letale è stata richiesta dagli stessi boia. In precedenza i condannati a morte venivano finiti con un colpo di pistola alla nuca (a volte più di uno). Gli esecutori dovevano indossare tute e stivali di gomma per non essere imbrattati dal sangue delle vittime. Inoltre, con l'aumento delle esecuzioni di spacciatori di droga (spesso a loro volta drogati) i boia temevano di prendere malattie come l'Aids. Paolo Virtuani - Corriere della Sera |
Post n°9 pubblicato il 22 Marzo 2009 da WalterSantoSubito
Caffarella Misteri sui due nuovi arrestati per l'aggressione di San Valentino Il romeno, latitante e ospite del ComuneL'accusato dello stupro era ricercato da un anno. Ma ha avuto il posto usando il vero nomeROMA — Era ricercato da oltre un anno Oltean Gravila, uno dei presunti stupratori della Caffarella. Ma dalla fine di gennaio viveva con moglie e figlio all'interno del padiglione della Fiera di Roma messo a disposizione dal Comune per ospitare i nomadi sgomberati dal campo di villa Gordiani. Nessuno si è accorto che si trattava di un latitante, nonostante il romeno avesse fornito le stesse generalità indicate nell'ordine di arresto firmato il 15 febbraio 2008 da un giudice della capitale e si fosse regolarmente registrato presso la struttura di accoglienza. È una storia piena di interrogativi e di misteri quella dei due stranieri accusati di aver aggredito i fidanzatini il pomeriggio di San Valentino e di aver violentato ripetutamente la ragazza di appena 15 anni. Perché Gravila, 27 anni, appare abituato a violare la legge e con l'amico Alexandru Jean Ionut, 18 anni, anche lui ora accusato di essere uno degli aggressori della Caffarella, si sarebbe vantato di aver stuprato un'altra giovane sei mesi fa. Sarebbe stato lui ad organizzare le rapine contro i minorenni nei parchi cittadini e a vendere la refurtiva ai ricettatori. Ostentava la sicurezza di restare impunito. «PERICOLOSITÀ SOCIALE - Sono i carabinieri di Ladispoli i primi ad occuparsi di lui, proprio per una storia di merce rubata. Lo arrestano, ma il 23 gennaio 2008 Gravila ottiene la scarcerazione con obbligo di firma. Una settimana dopo il comando dell'Arma comunica alla Procura che l'uomo non si è mai presentato e il 14 febbraio il pubblico ministero chiede al giudice una nuova misura di arresto. L'istanza viene accolta il giorno dopo. Il provvedimento dà conto di quale sia la personalità del romeno: «Considerato che l'osservanza delle suddette misure costituiva garanzia della permanenza del predetto sul territorio dello Stato al fine di consentire il prosieguo delle indagini ancora in corso e che tali misure erano state applicate per contenere la pericolosità sociale già evidenziata dal medesimo in occasione della sua partecipazione al reato di ricettazione di un'autovettura rubata. Ritenuto che le gravi trasgressioni degli obblighi hanno evidenziato nell'indagato una pervicace e più rilevante pericolosità sociale, si ordina la misura della custodia cautelare in carcere ». Gravila è già irreperibile. Ricompare il 22 gennaio alla Fiera di Roma, fornisce nome e cognome, ottiene ospitalità assieme ai familiari. Nessuna segnalazione scatta sul suo conto, lui gira indisturbato per la città. E — questo dicono le indagini — compie una serie di rapine contro minorenni. La moglie giura che la sera torna a dormire nel padiglione, il racconto è confermato da altri nomadi. Lo dice anche Ionut. Il 18 marzo, quando i poliziotti della squadra mobile lo vanno ad arrestare per l'aggressione avvenuta il 15 febbraio a parco Lemonia, il giovane non nega. Poi fa dichiarazioni spontanee. E accusa Gravila: «È un mio amico, noi lo chiamiamo "Gabriele". È stato lui a propormi di guadagnare soldi facili e abbiamo rapinato quei due ragazzi». Non gli contestano lo stupro della Caffarella, lui si mostra collaborativo: «Gabriele è partito». IL DNA - In realtà in quelle stesse ore Gravila viene fermato dai carabinieri nei pressi del valico italo-sloveno di Fernetti, in provincia di Trieste, a bordo di un furgone con targa tedesca. Una coincidenza che si rivelerà decisiva per le indagini. È insieme ad un altro romeno e trasportano tre motori di automobili risultati rubati. La loro intenzione è varcare il confine. Il suo nome viene inserito nella banca dati e così si scopre che è ricercato da oltre un anno. I militari lo trasferiscono nel carcere cittadino. La sera i poliziotti di Roma arrivano a Trieste per il prelievo della saliva, così come hanno già fatto per Ionut. Poche ore e arriva il Dna: per il test gli stupratori sono loro. Ieri è stato convalidato il fermo di Ionut per la rapina. Domani saranno interrogati per la violenza alla Caffarella. La polizia cerca di scoprire se nella storia criminale dei due romeni ci siano altri stupri. Ma adesso si deve anche accertare come mai Gravila l'abbia fatta franca, pur avendo fornito la sua reale identità ai responsabili della struttura gestita dal Campidoglio. Fiorenza Sarzanini - Corriere della Sera |
Post n°8 pubblicato il 21 Marzo 2009 da WalterSantoSubito
«Parcelle troppo alte» Contestata separazione con un anticipo di 39 mila euro. Tre mesi di stop per Annamaria Bernardini de Pace MILANO — «L'avvocato non può decidere di autoesonerarsi dalla tariffa professionale e dai canoni deontologici relativi alla determinazione del compenso » solo perché «li ritiene non adeguatamente remunerativi della propria attività» svolta. Duplicazione o meno di voci di parcella all'interno della distinzione tra attività giudiziale e stragiudiziale, rapporto tra fondo spese e attività svolta, modalità di risposta ai chiarimenti chiesti da una cliente: sono questi gli ambiti per i quali il Consiglio nazionale forense (Cnf) ha inflitto la sospensione per tre mesi dall'Albo degli avvocati ad Annamaria Bernardini de Pace, una delle matrimonialiste più gettonate d'Italia, spesso alla ribalta pubblica sia per l'assistenza professionale prestata a tanti volti noti (da Simona Ventura e Eros Ramazzotti, da Katia Ricciarelli a Romina Power) sia per i riflessi di legami familiari (è la suocera dell'attore Raul Bova), sia per la presenza costante su giornali e tv e in libreria quale esperta del settore. I CASI - Quattro i casi sui quali il Cnf presieduto da Guido Alpa, in conformità alle richieste dell'avvocato generale di Cassazione, Domenico Iannelli, ha ritenuto di accogliere le conclusioni disciplinari dell'Ordine milanese (rappresentato dall'avvocato Alessandra Noli) sugli esposti di altrettante clienti, optando per la sanzione della «sospensione» dall'11 marzo all'11 giugno che è misura (esposta in Tribunale nelle bacheche dell'Ordine) più severa dell'«avvertimento» e della «censura», e meno grave solo della «radiazione». In un caso il problema verte su un fondo spese di 39 mila euro chiesto, secondo l'esposto della cliente, anche in vista delle future azioni processuali che invece poi non ci furono perché i coniugi si accordarono per una separazione consensuale: a quel punto la cliente chiese la restituzione di parte della somma anticipata, ma l'avvocato rispose che l'intera somma compensava l'attività stragiudiziale già svolta (studio della controversia, elaborazione delle strategie, ricerca dei documenti) e rivelatasi così efficace da indurre il marito a capitolare in due mesi. Due altri esposti nascono da note spese nelle quali, accanto alla parcella per l'attività giudiziale prestata nel processo, l'avvocato esponeva alle clienti un'altra richiesta (18 mila euro e 10 mila euro) per attività stragiudiziale: per il Cnf in questo modo sarebbe stata duplicata la voce «consultazione con il cliente», con applicazione di un ulteriore onorario per ogni telefonata o lettera con il committente. Una quarta cliente, che (dopo aver ottenuto un forte sconto sulla parcella per la sua causa matrimoniale) a distanza di tempo aveva chiesto all'avvocato se fosse possibile ipotecare gli immobili del marito, ha lamentato che l'avvocato le avesse risposto o di aprire una nuova pratica presso lo studio (quindi nuovo onorario) oppure di rivolgersi a un altro legale. Atteggiamento che Bernardini de Pace rivendica, sostenendo che rispondere alla domanda avrebbe comportato (alla luce di una sentenza della Cassazione uscita poco prima) lo studio di tutt'altra e diversa questione rispetto a quella precedentemente trattata. Luigi Ferrarella - Corriere della Sera |
Post n°7 pubblicato il 27 Febbraio 2009 da WalterSantoSubito
«Ingrid più pericolosa dei nostri rapitori» Le confessioni dei compagni di prigionia: «La Betancourt ci rubava il cibo» Arrogante, egocentrica, ladra, scriteriata al punto da mettere a repentaglio le loro stesse vite, cercando di convincere i loro aguzzini che erano spie della Cia. E' spietato il ritratto di Ingrid Betancourt che emerge dal libro "Out of Captivity". Si tratta del volume di memorie edito da Harper- Collins dove i tre militari americani detenuti assieme alla Betancourt dalla guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) si confessano. Nell’autobiografia a tre mani di 457 pagine Keith Stansell, Thomas Howes e Marc Gonsalves ripercorrono i 1.967 giorni da incubo trascorsi nella giungla sudamericana infestata da insetti e parassiti letali, tra torture, marce forzate in catene e continue minacce di morte, fino alla loro miracolosa liberazione, il 2 luglio 2008, cinque anni e mezzo dopo la data del sequestro. Ma le rivelazioni più provocatorie del libro riguardano la 48enne attivista e politica franco-colombiana, rapita un anno prima di loro. «Era lei la padrona del gulag», punta il dito il 44enne Stansell, ex marine. «Ho visto con i miei stessi occhi mentre cercava di impadronirsi del campo con una arroganza fuori controllo. Gli aguzzini — aggiunge — ci trattavano meglio di lei». Durante la prigionia la Betancourt avrebbe più volte sottratto cibo ai suoi compagni di sventura, cercando sempre di accaparrarsi il giaciglio migliore dove dormire. Quando lei e Gonsalves divennero amici, gli altri prigionieri del campo (tra cui 11 cittadini colombiani) si ingelosirono. «È una donna molto dura», dice il 36enne Gonsalves, che prima del libro era in contatto email con la Betancourt. «Ha tirato scemi anche i guerriglieri». Dopo il suo tentativo di fuga assieme al connazionale Luis Eladio Perez — peraltro fallito — i terroristi tenevano spesso la Betancourt in catene, giorno e notte. «Eppure non l’ho mai vista piangere o lamentarsi », precisa Gonsalves. Interpellate dalla Associated Press, sia la Betancourt che sua sorella Astrid si sono rifiutate di commentare. Ma a difenderla è adesso Eladio Perez, secondo il quale «non è vero che Ingrid abbia cercato di convincere i ribelli che i tre americani erano agenti della Cia». Comunque sia, il libro ha tutte le carte in regola per diventare un bestseller. E non solo per le sue dettagliate descrizioni dei metodi definiti «da campo di concentramento» usati dalle Farc. «È un libro insolito », teorizza Keron Fletcher, uno psichiatra inglese esperto in ostaggi. «È molto inconsueto che un ex ostaggio critichi pubblicamente un altro ostaggio con cui ha condiviso un’esperienza tanto traumatica. Chi sopravvive ad un trauma del genere tende a nascondere le eventuali tensioni della prigionia e fa di tutto per sostenersi a vicenda». Alessandra Farkas - Corriere della Sera |
Post n°6 pubblicato il 20 Febbraio 2009 da WalterSantoSubito
Arresti, denunce, condanne dal 2007, poi l'espulsione annullata Stupro Caffarella: fermato 9 volte e graziato. Per il giudice non è pericoloso ROMA — Due arresti per rapina con lesioni e furto aggravato, più una denuncia per ricettazione collezionati nel giro di due settimane, tra il 27 settembre e l'11 ottobre 2007. E una condanna a cinque mesi di carcere, arrivata l'8 febbraio 2008. Questo c'era a carico di Alexandru Isztoika Loyos (o Loais, o altri alias) quando il prefetto di Roma l'aveva espulso dall'Italia. Ma non è bastato. Gli arresti, la denuncia e la condanna «non appaiono sufficienti a integrare l'ipotesi della minaccia concreta, effettiva e grave ai diritti fondamentali della persona ovvero dell'incolumità pubblica, e tale da determinare l'ulteriore permanenza sul territorio incompatibile con la civile e sicura convivenza». Neppure la sentenza di colpevolezza «per uno dei reati di cui al decreto prefettizio», segnalata dal rappresentante della questura durante l'udienza, «non fornisce l'indicazione di fatti circostanziati e idonei a giustificare l'allontanamento immediato del cittadino rumeno». Così ha scritto, il 15 luglio scorso, il giudice onorario del tribunale civile di Bologna, Mariangela Gentile, quando ha annullato il provvedimento della questura di Viterbo (città nella quale il rumeno aveva scontato la pena, e dove era stato scarcerato) in esecuzione del decreto di espulsione «per motivi imperativi di pubblica sicurezza», emesso il 2 maggio dal prefetto di Roma. Una decisione presa da uno dei giudici onorari appunto, quindi non magistrati in carriera, ai quali la legge ha affidato i ricorsi contro i decreti di espulsione. Amministratori di giustizia reclutati in maggior parte tra gli avvocati, come la dottoressa Gentile; rappresentanti del popolo, potrebbe dire qualcuno. In questo caso, uno di loro ha stabilito che Isztoika Loyos (indicato con l'ulteriore alias di Stoika Loatos) non era un pericolo per la collettività, e quindi l'ha fatto uscire dal Centro di identificazione e espulsione di Bologna, dov'era rinchiuso, facendolo tornare un cittadino della comunità europea libero di circolare in Italia. E di rientrare nel sottobosco dell'illegalità, come testimonia il nuovo arresto del 10 ottobre scorso, sempre per furto aggravato, oltre a una seconda condanna a due mesi di galera. Fino allo stupro di San Valentino, orribile degenerazione del furto di un telefonino e di circa 70 euro ai due ragazzini sorpresi nel parco della Caffarella; venti ne aveva ancora con sé al momento della cattura. Girava per giardini comunali, Alexandru Loyos, e la foto decisiva mostrata dagli uomini della Mobile di Roma alla giovanissima vittima della violenza sessuale che l'ha riconosciuta al primo sguardo è saltata fuori dal cosiddetto «album dei parchi»; una serie di immagini segnaletiche messe insieme dagli agenti guidati dal dirigente Vittorio Rizzi con l'ausilio degli uomini della Guardia forestale che accompagnano i poliziotti nelle perlustrazioni e annotano i nomi degli stranieri identificati nel verde pubblico in appositi elenchi. Si muoveva parecchio per la città, il rumeno non ancora ventenne; gli arresti e le denunce di Roma sono stati effettuate dal commissariato di Primavalle, dai carabinieri della Storta e della borgata Ottavia, da quelli di Trastevere. Rubava, ma per il giudice onorario Gentile i fatti riassunti dal prefetto per rimandarlo a casa (in base al decreto legislativo approvato dal governo Prodi nel novembre 2007, all'indomani dell'omicidio della signora Reggiani a Tor di Quinto) erano «non circostanziati ma solo genericamente indicati». I fotosegnalamenti di Loyos, nel corso dei tre anni passati in Italia, sono stati in tutto nove. L'ultimo alla fine di gennaio, dopo un altro stupro avvenuto a Primavalle. E all'Ufficio immigrazione della questura di Roma, prima dell'arresto dell'altra notte, stavano già preparando una nuova proposta di allontanamento. Ne sottolineavano la «pericolosità sociale in relazione alla condotta» dovuta alla «mancata integrazione», elencando daccapo denunce, arresti e condanne, nonché «l'assenza di una stabile occupazione lavorativa, tale da ritenere che il soggetto tragga le fonti del proprio sostentamento attraverso la commissione di reati contro il patrimonio». Dopo la cattura per lo stupro, ieri, ne è stato predisposta un'altra - aggiornata con gli ultimi reati - e il prefetto ha firmato il decreto. Diventerà esecutivo se e quando Loyos uscirà di galera, giudici onorari permettendo. Perché c'è sempre l'incognita del ricorso e della mancata convalida dell'allontanamento, anche se le cifre indicano che si tratta di una quota ridotta. Da quando è in vigore il decreto del governo Prodi, a Roma sono stati emessi 1.115 provvedimenti di espulsione di cittadini comunitari, e quelli annullati sono 89, circa il 7 per cento. Le persone da rispedire in patria sono quasi tutti rumene, 458 delle 507 passati dai centri di identificazione; seguono a grandissima distanza i polacchi (32) e poche unità provenienti da altri Paesi. Tornando ai 1.115 da mandare via, quelli effettivamente rimpatriati sono soltanto 357 (31 per cento), altri 188 stanno in carcere in attesa di giudizio o per scontare una pena. Attualmente liberi, e in teoria ricercati, sono 464, il quaranta per cento del totale. Giovanni Bianconi - Corriere della Sera |
Post n°5 pubblicato il 07 Febbraio 2009 da WalterSantoSubito
Il reportage La prigione delle ragazze afghane: schiave, spose forzate, suicide Il governo di Kabul ammette: «Le figlie restano proprietà delle tribù» HERAT—Sorride dolce Leilah, l'assassina. Arrossisce Fatemeh, l'adultera. Si nasconde Guldestan che in un paio di settimane ha perso tutto: papà, mamma, tre sorelle, l'intera rete familiare, probabilmente il futuro. Ha visto il padre uccidere la madre perché sospettava che sotto il burqa covasse il tradimento; ha visto lo zio uccidere il padre per vendicare l'onore della sorella; lei stessa è diventata assassina sparando a quello stesso zio che aveva adottato lei e le sorelle. L'uomo dormiva dopo averla stuprata. Guldestan è in prigione, le sorelline, dai 3 agli 11 anni, in orfanotrofio. La maggior parte delle detenute del carcere minorile di Herat non sono arrivate a tanto. Sono colpevoli di aver disobbedito alla legge tribale e alla tradizione. Ragazze in fuga da matrimoni forzati con uomini che non avevano mai visto, più o meno vecchi, danarosi o poligami, comunque decisi a portarsi a casa manodopera gratuita e compagnia notturna. Sono ragazze pagate al padre-padrone 5-6 mila dollari oppure tre tappeti, otto capre e due paia di scarpe, come nel caso di Sarah. Ragazze che a 13-14 anni si sono trovate una mattina il mullah in casa che chiedeva loro se volevano fidanzarsi, il padre che le minacciava e l'aspirante sposo che le blandiva con un vestito nuovo in mano. «La famiglia prepara tutto in segreto—racconta Chiara Ciminello, cooperante per l'Ong italiana Intersos — e senza capire quel che succede le bambine si ritrovano fidanzate. A quel punto dire "no" diventa reato». Se l'adulterio viene consumato, in teoria, la condanna è ancora la lapidazione prevista dalla Sharia, ma il governo di Kabul ha imposto una moratoria. Gli ospedali funzionano abbastanza da verificare la verginità e, se non c'è stato tradimento, la condanna per la ribellione di una minorenne varia da 3 mesi a un anno di carcere. Il peggio viene dopo. Le famiglie non vogliono riaccogliere chi, con la disobbedienza, ha portato il disonore. La Ong inglese World Child lavora a Herat per aiutare proprio il reinserimento delle reprobe. Ma il problema è enorme. Lo stigma della rivolta mette queste ragazze ai margini della società. Chi non ha una rete familiare attorno non può lavorare, affittare casa, vivere sola. L'esito della ribellione per amore o libertà diventa così la prostituzione. Meglio morire. Lo pensano in tante. Così a Kabul le fidanzate a sorpresa o le giovani spose si danno fuoco al ritmo di due-tre a settimana. In tutto l'Afghanistan si calcola che le suicide siano minimo una al giorno. Herat, forse la provincia più sviluppata del Paese, non fa eccezione. Nel 2006, una (rara) Commissione governativa ha contato una media di 7 torce umane al mese. «Il nodo è che le figlie sono considerate una proprietà. Prima dalla famiglia del padre poi da quella del marito — spiega ancora Ciminello —. A Herat la situazione è particolare a causa della vicinanza all'Iran. Mentre tra i sunniti, soprattutto se pashtun, le cifre sono importanti, tra gli sciiti di influenza iraniana l'uso di pagare la moglie è quasi simbolico. A volte lo sposo firma una sorta di caparra, la shirbaha, per cui in caso di divorzio si impegna a risarcire la donna con una buona uscita che le permetta di tirare avanti. Ma quel che manca in entrambi i gruppi è il rispetto della volontà delle ragazze». In attesa di un piano dalla nuova Casa Bianca di Barack Obama, per sopravvivere all'Afghanistan la comunità internazionale si affida alla triade «sicurezza, ricostruzione, governabilità ». L'ordine non è casuale: consistente è l'impegno militare, scarsi i soldi per la ricostruzione, insufficienti i risultati in materia di legalità. La supremazia resta alle tradizioni tribali più ancora che religiose. A Herat il riformatorio è una delle principali realizzazioni in sette anni di presenza internazionale. Costruito nel 2007 dagli ingegneri militari del Prt italiano (Provincial Recostruction Team) con 2 milioni di euro, all'80 per cento europei. E' una bella scatola con alcuni problemi, il riscaldamento per dirne una, ma le mura da sole non incidono sui rapporti sociali. «Il nostro è un impegno a lungo termine — dice il generale Paolo Serra, comandante della Nato per la Regione Occidentale afghana —. I successi ci sono. Abbiamo costruito 34 scuole, convinto molti capi villaggio a far studiare anche le bambine, aumentato del 20 per cento le elettrici per le prossime presidenziali. Però le condizioni di partenza sono quelle che sono. Dubito sceglieranno da sole chi votare, piuttosto seguiranno le indicazioni dei capi clan. La strada per una democrazia come la intendiamo noi è lunga». Corriere della Sera - Andrea Nicastro |
Post n°4 pubblicato il 30 Gennaio 2009 da WalterSantoSubito
Lo ha detto a margine di un incontro con il segretario del Tesoro Timothy Geithner Obama: «Irresponsabili e vergognosi i compensi dei top manager Usa» «I dirigenti hanno assegnato a se stessi bonus per 20 miliardi di dollari. Questo è l’apice dell’irresponsabilità» NEW YORK - Irresponsabili e vergognosi. Così il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha definito i premi ricevuti dagli amministratori delegati delle società con sede a New York, complessivamente oltre 18 miliardi di dollari nel 2008. Parlando dalla Casa Bianca a margine di un incontro con il segretario al Tesoro Timothy Geithner, Obama ha puntato l’indice contro Wall Street, dicendo che «è vergognoso chiedere aiuto ai contribuenti e continuare ad assegnare ai dirigenti premi favolosi». LE CIFRE - In un rapporto diffuso da Thomas DiNapoli, revisore dei conti dello Stato di New York, i bonus pagati complessivamente nel 2008 sono stati pari a 18,4 miliardi di dollari, in calo del 44%, mentre la media è stata di 112.020 dollari, in calo del 36,7 per cento. Proprio a questo rapporto ha fatto riferimento il presidente: «quando ho letto che i dirigenti hanno assegnato a se stessi bonus per 20 miliardi di dollari, la stessa cifra che percepirono nel 2004, e in un periodo in cui la maggior parte di queste istituzioni sono vicine al collasso e chiedono aiuto ai contribuenti, ho pensato che fosse l’apice dell’irresponsabilità». Obama non ha rinunciato ad aprire un varco all’ottimismo: "arriverà il momento in cui potranno tornare ad avere bonus e a realizzare guadagni, ma quel momento non è ora". Motivo per cui, ha ribadito Obama, è necessario lavorare velocemente sul piano di incentivi all’economia, approvato ieri dalla Camera dei Deputati e che la settimana prossima passerà al vaglio del Senato. "Il presidente condivide la sensazione degli americani che si tratti di un oltraggio", aveva detto poco prima il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs, anticipando le parole di Obama e il fatto avrebbe discusso della questione dei compensi dei vertici delle società americane con il segretario al Tesoro Geithner.
Corriere della Sera - 29 gennaio 2009 |
Post n°3 pubblicato il 29 Dicembre 2008 da WalterSantoSubito
Previsioni sbagliate, rito di fine anno. di Pierluigi Battista Ora che il 2008 ha demolito la prosopopea degli analisti accreditati, ha sgominato legioni di specialisti della previsione scientifica, ha messo all'angolo gli esperti nella decifrazione delle tendenze e delle dinamiche mondia-li, non sarà meglio seguire l'esempio dell'Economist e astenersi pubblicamente dall'annuale esercizio della profezia che non si autoavvera e non si autoavvererà mai? Ed evitare il rito umiliante, alla fine del 2009, dell'autocritica per le previsioni fallite, gli scenari smentiti, la rivincita dei fatti sui disegni ambiziosi ma fallaci? Scrive Jérome Fenoglio su Le Monde che gli stessi colleghi dell'Economist, con invidiabile autoironia e raro sense of humour, hanno fatto precedere il loro numero speciale dedicato all'anno che verrà da un preambolo in cui si chiede scusa per la sequenza di clamorosi errori commessi dodici mesi fa, in circostanze analoghe. Fosse stato per il settimanale, la Casa Bianca sarebbe stata ora occupata, grazie al consenso plebiscitario degli americani, dalla signora Hillary Clinton. Non ci sarebbe stata una crisi economica squassante, destinata a mutare radicalmente il volto del potere finanziario e industriale internazionale. Il prezzo del petrolio si sarebbe mantenuto in modo passabilmente stabile, senza la vertiginosa altalena di altre stagioni. La politica militare russa non avrebbe avuto scosse significative, conservando invece un basso profilo, scevro da ambizioni nazionalistiche e tutt'altro che animato da pericolosi rimpianti per un'età del passato in cui la Grande Russia rivendicava orgogliosamente un ruolo da grande potenza. La parola chiave del 2008 sarebbe stata indubitabilmente l'«ambiente», il capitolo numero uno dell'agenda internazionale e dei singoli governi e non l'ancella dei consessi mondiali a cui si è effettivamente ridotta. Una sequenza impressionante di smentite: i fatti si sono incaricati di ridimensionare il prestigio di chi, nei giornali e attorno ai giornali, si atteggiava come l'oracolo della modernità ma che alla fine, tirate le somme, si è dimostrato più avventuroso, implausibile, inaffidabile del più grossolano fabbricante di oroscopi. Il 2008 ha posto la pietra tombale sulle pretese di decifrare il mondo e i suoi avvenimenti facendo finta che mai una colossale rivoluzione concettuale possa sconvolgere gli schemi più collaudati e disintegrare le certezze più solide. Chi avrebbe immaginato che il verbo statalista avrebbe spazzato via il mondo regolato dai dogmi del mercato? Che l'America si sarebbe dovuta ricredere sull'unicità del suo dominio? Che un nero alla Casa Bianca non sarebbe stato più un tabù invalicabile? Un consiglio per i giornali e per gli «analisti» presuntuosi fino alla spocchia: evitare, in questa transizione d'anno, esercizi di futurologia applicata presentati come infallibile scienza dell'avvenire, lasciare agli oroscopi il compito di suscitare speranze che verranno regolarmente frustrate dai fatti. Impedire che il confronto tra ciò che si prevedeva e ciò che si è effettivamente realizzato sancisca un tale divario tra i pensieri e la realtà da gettare il discredito su chiunque volesse azzardare una previsione compiuta: non c'è peggior indovino di chi non ne azzecca una (specie se laureato).
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