Sul fondale, alle spalle dell'interprete, viene proiettata in bianco e nero (così da richiamare la pallida indeterminatezza dei ricordi: «queste ombre troppo lunghe / del nostro breve corpo», per dirla con Cardarelli) una serie di frammenti: una mano, un bicchiere in cui si versa del tè, una rosa lasciata cadere o ridotta ai suoi petali sparsi... Ed è l'idea, bella e decisiva, che sorregge la regia di Maria Luisa Bigai per «Clitennestra», il monologo - tratto da «Fuochi» di Marguerite Yourcenar - in scena nel Ridotto del Mercadante.
Infatti, il frammento è l'agonia del tutto, una tappa del percorso inevitabile dal pieno al vuoto; allo stesso modo che il ricordo è una cesura fra il tempo che scorre e il nostro assurdo desiderio di fermarlo. E in un simile quadro si definisce e spasima la Clitennestra della Yourcenar: non uccide Agamennone per vendicare, come nel mito greco, il sacrificio della figlia Ifigenia, ma nel tentativo folle di annullare, attraverso quel delitto, la frattura tra il pieno del passato (la passione totalizzante per un Agamennone giovane e bello come un dio) e il vuoto del presente (il disprezzo separante per un Agamennone imbolsito dai dieci anni di guerra e arreso a una fraschetta d'Oriente).
In altri termini, questa Clitennestra uccide perché non può sopportare la sproporzione tra l'ieri e l'oggi. E bella e decisiva - giusta un'osservazione fuori testo dell'autrice, che immaginava i personaggi della tragedia greca collocati nella Turchia degli anni Venti - è anche la scelta della Bigai di ambientare il monologo di cui parliamo in un locale della Istanbul coeva: magari uno di quelli che (ancora lo scarto fra il tutto e il frammento!...) offrivano, in luogo dell'aria condizionata, solo le microparticelle d'aria refrigerata diffuse da tubicini attaccati al soffitto.
Infine, accompagnata dalle avvolgenti musiche di Alessandro Molinari eseguite al piano, al flauto e al darbuka da Danilo Blaiotta, quella di Anita Bartolucci si rivela come una delle più intense e raffinate prove d'attrice degli ultimi tempi. Non so trovarle un elogio migliore della constatazione che essa traduce un pertinente aforisma della Yourcenar: «Non è necessario per un bevitore abdicare all'uso della ragione, ma l'innamorato che conservi la sua non obbedisce fino in fondo al suo demone».
Ecco, Anita Bartolucci è una Clitennestra che con quel demone addirittura s'identifica. Giacché accade, qualche rara volta, che il teatro si ubriachi di vita.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 24 gennaio 2012)
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