«Torno ad essere umana nel ventre protettivo del mio albero». È questa la battuta-chiave di «Memorie di una schiava», lo spettacolo - tratto dal romanzo «Spedizione al baobab» della scrittrice sudafricana bianca Wilma Stockenström - che Pamela Villoresi presenta nel Ridotto del Mercadante per la regia di Gigi Di Luca.
Infatti, incontriamo la donna protagonista del monologo al termine di una vita di tormenti che - fra l'abbrutimento provocatole dai padroni che la vendevano all'asta come un oggetto e il dolore innescato dai figli che le venivano strappati con la forza - l'ha ridotta al livello di un animale. E non a caso, dunque, una delle sequenze iniziali dello spettacolo la vede impegnata, sotto specie di nevrotica e derisoria rivalsa, nella parossistica imitazione dei babbuini che si abbuffano o si accoppiano.
Questa sequenza, peraltro, rimanda al tema centrale della rappresentazione. Giusta la battuta citata, è chiaramente una metafora il fatto che la vecchia schiava si ritiri, per sciorinare i suoi ricordi, nel tronco di un baobab: sa che solo interponendo fra sé e il mondo una distanza radicale, e cioè tornando, mentalmente, nel ventre materno, può esaminare lucidamente e, quindi, raccontare e tentar di spiegare le sofferenze subìte; ma sa pure che, per farlo, ha a disposizione unicamente le parole, che sono o impotenti o traditrici. E non le resta, allora, che aggrapparsi all'unica forza e all'unica verità possibili, appunto quelle del corpo.
Di qui la struttura espressiva in cui Di Luca ha incastonato il flusso di coscienza della donna: ad intervalli più o meno regolari lei si svincola dalle parole e si abbandona a una danza lieve e perduta, sull'onda del canto e dei suoni sapienti - e di volta in volta dolcissimi o risentiti - che incunea nel tessuto verbale il griot del Mali Baba Sissoko.
Al limite dell'incredibile, infine, la prova fornita da Pamela Villoresi: giocata sull'esplodere di una tensione nervosa e di un'energia fisica spinte sino allo sfinimento, traduce come meglio non si sarebbe potuto l'a corpo a corpo inesausto che si determina, per questa donna che ricorda, fra il bisogno di ritrovare, comunicando, una dignità e il timore di precipitare, confessandosi, in una nuova schiavitù, quella della retorica e del fraintendimento.
Davvero, ho ritrovato negli occhi della Villoresi lo stesso sguardo, smarrito e pure fiero, che molti anni fa vidi in quelli delle ragazze nere che nelle bidonville di Capetown si vendevano per una sigaretta.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 4 marzo 2012)
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