Emilia Marty - l'affascinante e idolatrata cantante protagonista de «L'affare Makropulos» di Karel Čapek - dovette sperimentare su di sé gli effetti dell'elisir di lunga vita che il padre, medico e alchimista di corte, aveva preparato per Rodolfo II: sicché, oggi, conta ben trecentotrentasette anni, essendo stata, nel corso di quella sua interminabile esistenza, prima Elina Makropulos e poi, via via, la cantante scozzese Ellian MacGregor, la ballerina spagnola Eugenia Montez, la cantante russa Ekaterina Myskina ed Elsa Mueller.
Ora, però, Emilia è stanca, la vita, per lei, non ha più alcun senso. Dice, infatti: «L'uomo non può amare per trecento anni. Né sperare, né creare, né osservare per trecento anni. Non ce la fa. Tutto viene a noia. Sia l'esser buoni che l'esser cattivi. Cielo e terra vengono a noia. E poi ci si accorge che in realtà non c'è nulla. Nulla. Né il peccato, né il dolore, né la terra, assolutamente nulla».
Dunque, la singolare commedia dell'autore boemo, datata 1922, può esser letta anche come una favola allegorica che irride alle teorie superomistiche poste alla base delle dittature sorte in quegli anni in Europa. Ma, come già Ronconi nel '93 (a interpretare Emilia Marty era una straordinaria Mariangela Melato), Robert Wilson - nel suo personalissimo allestimento del testo di Čapek che, col titolo «The Makropulos case», ha aperto al Mercadante il Napoli Teatro Festival Italia - non cade nelle sabbie mobili dell'ideologia e, quindi, di un «messaggio» che oggi apparirebbe largamente anacronistico.
La differenza sta nel modo di moltiplicare i connotati da teatro «boulevardier» riscontrabili nel copione originale: mentre Ronconi puntava sul vaudeville, Wilson punta sul musical e (a partire dalla vera e propria «passerella» iniziale dei personaggi) sulla rivista. E, peraltro, non potrebbe darsi, circa la trama in questione, una sottolineatura migliore della dilatazione del tempo che, da sempre, costituisce uno dei fondamentali cardini espressivi di colui che Heiner Müller chiamò «il mago di Waco».
Ma, poi, l'invenzione che in proposito si rivela assolutamente geniale consiste nel fatto che - in questo spettacolo tanto elegante quanto significante - la verticalità (le pile di cartelle d'atti processuali che salgono fino alla graticcia, i personaggi che sbucano dal tavolato grazie ad elevatori o vanno su e giù in un autentico ascensore) sconfigge nettamente l'orizzontalità. In breve, Wilson sostituisce, alla sincronia dell'eterno presente scontato da Emilia, un'impagabilmente ironica diacronia.
In più, la stessa ironia consente che prenda corpo - attraverso il movimento a scatti dei personaggi, ridotti a marionette disarticolate o figurine da carillon - anche un non meno puntuale riferimento a «R.U.R.», l'opera, la più nota di Čapek, che coniò il termine «robot». E il resto è affidato - davvero nella magia delle luci, che, disegnate dallo stesso Wilson, cambiano colore a seconda dei nodi psicologici di volta in volta portati in superficie dal plot - alla prova superlativa fornita dagli attori del Teatro Nazionale di Praga: fra i quali, accanto all'ottantasettenne Soňa Červená (Emilia Marty, ovviamente), vanno citati almeno Miroslav Donutil (Jaroslav Prus), Pavla Beretová (Kristina) e Milan Stehlík (Hauk-Šendorf).
Infine, occorre rilevare che le musiche di Aleš Březina - eseguite dal vivo e tramate d'echi popolari che vanno fino al «Carnevale di Venezia» - conferiscono alla rappresentazione gli stessi effetti dei melologhi di Viviani. E siccome proprio a Viviani Robert Wilson dedicherà uno spettacolo nell'edizione 2013 del Festival, ecco che torniamo alla diacronia di cui sopra con un ulteriore guizzo d'intelligenza.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 9 giugno 2012)
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