«Tu per me sei la milonga / se sei un frocio non m'importa». Così nel '96, in «Tango barbaro» di Copi, il «macho» Cachafaz diceva all'amante Raulito, ermafrodito, transessuale o semplice travestito che fosse. Nei panni di Cachafaz c'era Toni Servillo, in quelli di Raulito c'era Mariangela Melato e la traduzione del testo era di Franco Quadri.
Credo che si possa parlare della sintesi di un po' del meglio espresso dal teatro italiano della seconda metà del Novecento. Mariangela Melato, dopo una lunga malattia, si è spenta ieri mattina, a 71 anni, in una clinica romana. A Milano, dove nacque, era stata vetrinista alla Rinascente, per poi esordire, in «Piccola città» di Wilder, col Carrozzone di Fantasio Piccoli, una compagnia stabile ma girovaga di Bolzano. Pronunciava appena qualche battuta, ma fu l'inizio della strada che doveva portarla, appunto, al singolarissimo ruolo di Raulito: con il quale la Melato - riuscendo nella difficilissima impresa d'interpretare (lei donna!) un uomo che si finge donna - trasferì in un'aura mitica tutto l'alternarsi di tragico e di farsesco, di poetico e di comico, di surreale e di quotidiano, di sublime e di volgare che comunemente chiamiamo vita.
Già, potrebbe bastare questo a dire della grandezza d'attrice di Mariangela. E adesso è quasi superfluo elencare le tappe della sua carriera incomparabile: cito a caso - senza contare, naturalmente, il leggendario «Orlando furioso» di Ronconi, in cui lei incarnò la bellezza, lancinante perché lontanissima, di Olimpia - «Settimo ruba un po' meno» con Fo e la Rame, «La monaca di Monza» di Testori diretta da Visconti, «El nost Milan» di Bertolazzi diretto da Strehler, «Alleluja, brava gente» di Garinei e Giovannini, «Medea» di Euripide, «La bisbetica domata» di Shakespeare, «La dame de chez Maxim» di Feydeau, «Fedra» di Racine, «Madre Courage e i suoi figli» di Brecht, «Chi ha paura di Virginia Woolf?» di Albee...
Sì, Mariangela Melato o della versatilità. Ed è sufficiente, per sottolineare i vertici assoluti a cui condusse tale versatilità, ricordare che lei, sempre sotto la guida di Ronconi, fu capace di diventare sia la cantante pluricentenaria de «L'affare Makropulos» sia la bambina fra i sei e i nove anni di «Quel che sapeva Maisie». E la modestia, insieme: puntualmente - dopo ogni recensione che davvero non faceva fatica ad essere elogiativa - mi diceva per telefono: «Lei mi vizia troppo».
Era la distanza che metteva fra sé e il teatro, fra la vita e la finzione. Mi ripeteva spesso che il mestiere dell'attore ha sempre meno senso. E per questo, evidentemente, in una pausa della malattia che poi l'ha uccisa volle portare in scena «Il dolore» di Marguerite Duras. Perché, nella nota introduttiva di quel diario, la Duras scrive: «Mi vergogno della letteratura».
Fu, quella, una prova sontuosa come la rivolta, intima come lo smarrimento. E sempre a proposito della versatilità, bisognerà accennare anche al coraggio e alla dedizione che Mariangela Melato dimostrò nell'affrontare, lei che napoletana non era e proveniva da esperienze diametralmente opposte, il ruolo di Filumena Marturano nell'edizione televisiva del capolavoro eduardiano diretta da Massimo Ranieri.
Ma penso, nel concludere questo ritratto, all'one-woman-show «Sola me ne vo...». A un certo punto vi si accavallavano la vita come un'ombra di Macbeth, la vita come un film di Vasco Rossi e la vita come un sogno di Prospero, mentre, rannicchiata in un angolo del proscenio, la Blanche Dubois di «Un tram che si chiama Desiderio» tornava a ripetere il suo lamento e la sua preghiera in nome dei deboli e degli sconfitti.
C'era spazio, nell'eco di Giorgio Gaber, sinanche per chiedersi dove fossero finiti i comunisti. E in ultimo, Mariangela… il lampo biondo della sua zazzeretta, là in quel cono di luce che sembrava una proustiana intermittenza del cuore, compiva il miracolo di accendere per un attimo il ricordo di Marilyn.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 12 gennaio 2013)
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