Il merito, davvero non trascurabile, dello spettacolo - il primo allestimento in assoluto, presentato al Carignano di Torino, de «La serata a Colono», l'unico testo teatrale di Elsa Morante - sta innanzitutto nell'essere il punto di approdo di un percorso registico improntato a una coerenza esemplare. Mario Martone nel 2004 mise in scena l'«Edipo a Colono» e adesso mette in scena questa che della tragedia di Sofocle è una riscrittura («parodia» la definisce non a caso l'autrice) radicalmente confitta nella contemporanea impossibilità del tragico.
L'Edipo di Sofocle s'acceca non perché non vuole più vedere, ma perché vuole vedere oltre il limite dei significati dati: e in ciò, del resto, consiste il senso alto della sua morte, che - infatti - avviene, con i tempi e i modi di un vero e proprio rituale iniziatico, nel buio insondabile del bosco sacro alle Eumenidi, ossia in una dimensione «altra».
La Morante, invece, sostituisce a quel bosco sacro un anonimo corridoio d'ospedale. E il suo Edipo - che vi giunge legato su una barella da cinghie di contenzione, con la fronte e gli occhi avvolti in garze insanguinate e accompagnato da un'Antigone che si presenta come una zingarella del basso Lazio «di mente un poco tardiva» - è un vecchio alcoolizzato, tossicomane, preda di continue allucinazioni visive e auditive oltre che di una logorrea tramata degli stereotipi di una letterarietà d'accatto infiorata di citazioni classiche.
Insomma, non facciamo fatica a riconoscere, in lui, la metafora struggente della solitudine e dell'impotenza che toccano all'intellettuale (e, in genere, ad ogni persona pensante) di oggi. E il coro, composto dai ricoverati nel reparto psichiatrico dell'ospedale, scopriremo alla fine che non è altro che la proiezione moltiplicata dello stesso Edipo: una proiezione che, ancora non a caso, intona versi di quell'Hölderlin per il quale, appunto, «Tacere spesso dobbiamo, / mancano i Nomi Sacri».
Ma ecco la coerenza di cui parlavo all'inizio. Se, alle prese con la tragedia di Sofocle, Martone costringeva gli spettatori a seguire, spostandosi, il percorso di Edipo dal principio alla fine, ora, alle prese con «La serata a Colono», costringe il coro, che la Morante nascondeva dietro un muro, a sciamare nella platea intorno agli spettatori immobili. Di modo che la splendida sostanza dell'allestimento viene a risiedere in una lancinante storicizzazione: quest'Edipo è lo specchio di tutti noi, smarriti e orfani delle domande.
La messinscena, di conseguenza, realizza - in sintonia con le musiche di Nicola Piovani, che alternano, poniamo, rap e béguine - un'oltremodo significante fusione di concettualità e visionarietà, la quale ultima, ovviamente, discende dagli allucinogeni (nel testo si cita il peyote) di cui la Morante fece uso mentre scriveva «La serata a Colono».
Allo spazio scenico popolato soltanto da casse acustiche (la nudità e la dilatazione della parola) e dagli strumenti dei musicisti (la riduzione della parola a puro suono) fanno dunque riscontro quei «matti» che in ultimo, appollaiati sul disco abbagliante del Sole, l'artefice del destino di Edipo, lo fanno oscillare, giusto, come il pendolo impassibile della vita.
Sono due delle più belle e decisive invenzioni del teatro degli anni recenti. E superbo appare Carlo Cecchi nello spingere Edipo a perdersi tra dolore, invettiva e recita spudorata. Accanto a lui un'Antonia Truppo addirittura commovente, che fa di Antigone un animaletto impaurito, confuso e, pure, sorretto da un'invincibile fede nella dignità di esistere. Ma bravi sono anche tutti gli altri interpreti, nel quadro di uno spettacolo importante proprio perché, si sarà capito, va oltre lo spettacolo.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 27 gennaio 2013)
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