CONTROSCENAIl teatro visto da Enrico Fiore |
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Immaginate un Don Chisciotte che abbia come scudiero Samuel Beckett invece di Sancio Panza. È questa, in estrema sintesi, la chiave di lettura che può portare al significato profondo di «Soprattutto l'anguria», il testo di Armando Pirozzi in scena nella Sala Assoli per la regia di Massimiliano Civica.
Sono in campo due fratelli, che tornano ad incontrarsi avendo alle spalle un padre caduto in trance metapsichica irreversibile in India, una madre suora laica in una missione nel deserto e una sorella che vive in un igloo in una regione antartica. E mentre l'uno dei due non dice una sola parola dall'inizio alla fine, l'altro parla e straparla, senza un attimo di respiro, su tutto e il contrario di tutto: dai divani rosa a forma di seno al funzionamento del cervello, dai musicisti che non sanno suonare al bisogno di Dio, dalle t-shirt alle lucertole.
Ma qui le cadenze surreali e i nonsense alla Ionesco costituiscono appena la superficie, ed esauriscono la loro funzione nel conferire allo spettacolo la leggerezza dell'ironia e, di tanto in tanto, persino la svagatezza della comicità. La molla decisiva, insisto, è nel rimando a Don Chisciotte, ovvero alla frattura tra le parole e le cose in cui consiste la crisi fondamentale dell'età moderna. Soltanto che, se Don Chisciotte non si rendeva conto d'«essere» quella frattura, i due fratelli in questione (autentici epigoni, appunto, del Vladimiro e dell'Estragone beckettiani) ne hanno piena coscienza.
In un simile scarto risiedono il pregio e l'interesse del testo di Pirozzi: e infatti, il silenzio e la logorrea chiamati in causa traducono, rispettivamente, la resa senza condizioni all'incomunicabilità e lo strenuo ancorché disperato tentativo di reagire all'impotenza delle parole con il loro accumulo iperbolico. Un'accoppiata dialettica che la regia di Civica illumina e potenzia con una lucidità non disgiunta dall'inventiva.
Vedi, a titolo d'esempio, la lampada a stelo utilizzata per «dire» il volante dell'automobile e l'albero: giacché, mentre Don Chisciotte s'illudeva di far esistere le cose «chiamandole» con un nome, qui le cose esistono a prescindere da quel nome ormai impronunciabile. E la stessa dicotomia esprime, del resto, la sostituzione delle parole, da parte del fratello «muto», con una fitta rete di minime azioni (autoreferenziali e maniacali insieme) quali, poniamo, l'accensione dell'incenso e la preparazione dello spinello.
Eccellenti, infine, gl'interpreti Diego Sepe e Luca Zacchini. Davvero uno spettacolo da non perdere.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 19 gennaio 2013)
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