CONTROSCENAIl teatro visto da Enrico Fiore |
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Un marito e una moglie che, con i nervi a pezzi per i pianti notturni del bambino, tornano in vacanza a Venezia nella stessa stanza d'albergo in cui avevano trascorso la luna di miele. Un marito e una moglie che ormai riescono a comunicare solo attraverso il piede di lui, l'unica parte del suo corpo capace di tradurre qualche emozione. E infine un marito e una moglie che, per errore, invitano a cena un amico e un'amica da poco separati insieme con il nuovo compagno di lei.
Sono le tre coppie protagoniste di «Due di noi», l'allestimento della commedia di Michael Frayn in scena al Diana per la regia di Leo Muscato. Il testo - costituito dagli atti unici «Black and silver», «Mr. Foot», «Chinamen» e «The new Quixote», il quale ultimo qui manca - segnò nel 1970 l'esordio di Frayn, che poi, una decina d'anni dopo, sarebbe diventato celebre in tutto il mondo con «Rumori fuori scena»; e già rivela, «Due di noi», le caratteristiche decisive dell'autore britannico, a partire dalla concezione del teatro come intrattenimento e dalla conseguente attenzione rivolta ai valori classici della comicità.
Ebbene, è proprio su tali valori, più che sullo scavo nella psicologia dei personaggi, che punta Muscato. In particolare, sottolinea quella che, nel terzo degli atti unici in questione, sembra davvero un'applicazione della regola aurea dettata da Feydeau: «Quando, in una delle mie commedie, due personaggi non devono assolutamente incontrarsi, io li faccio trovare puntualmente faccia a faccia». E siccome, da attore, ha avuto una lunga frequentazione con Luigi De Filippo, non dimentica gli espedienti canonici della vecchia, cara e buona farsa napoletana.
Vedi, poniamo, il meccanismo della ripetizione (il «mamma mia, mamma mia» e il «non lo so, non lo so» del primo atto unico) e la girandola degli equivoci innescata da gesti che vorrebbero suggerire tutt'altre azioni (gli autentici dialoghi fra sordi inscenati da moglie e marito nell'atto unico conclusivo). E il resto, s'intende, è affidato ai due interpreti in campo, Lunetta Savino ed Emilio Solfrizzi: i quali, lo dico senza esitazione, si dimostrano perfettamente all'altezza del compito.
In particolare, Solfrizzi è addirittura irresistibile quando, in «Chinamen», si sdoppia con rapidissimi cambi di trucco e di costume fra i personaggi del marito che dimentica sistematicamente i nomi e dell'amico separato che s'attacca alla bottiglia. Successo pieno, con molte risate e applausi convinti.
Enrico Fiore
(«Il Mattino», 16 aprile 2013)
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