Creato da giulio.stilla il 21/04/2014
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« IL FINE DELLA STORIA (2)L'UNITA' IDENTITARIA D... »

L'UNITA' IDENTITARIA DEL POPOLO ITALIANO (1)

Post n°42 pubblicato il 30 Marzo 2015 da giulio.stilla

 

 

L'UNITA' IDENTITARIA DEL POPOLO ITALIANO

 

Al cospetto di tante malefatte, corruzione,  evasione fiscale, criminalità organizzate  ed ombre minacciose che si addensano sul cielo della Penisola e mettono terrore sulle onde del Mare Mediterraneo e nei Paesi del Maghreb, assale spontanea la paura e insorge l'uzzolo di voler  sapere verso quale meta cammini il popolo italiano e in quale misura sia preparato a superare le presenti difficoltà economiche ed evitare possibili rivolte sociali,  probabili conflitti bellici e scontri di civiltà che si stagliano nitidi ai nostri orizzonti meridionali.

Nell'ambito della ricerca storica è stato sempre dibattito di grande rilievo voler definire il profilo identitario del popolo italiano. Ma le difficoltà per rinvenire i tratti salienti, che nel corso dei secoli hanno caratterizzato la popolazioni abitanti la penisola, sono risultate sempre molto complesse e difficilmente riconducibili ad una risoluzione esaustiva della questione storiografica.

Non è mio proposito ripercorrere i processi storici che dalla caduta dell'Impero Romano d'Occidente sono giunti fino alla nostra età contemporanea. Basti sfogliare alcuni testi scolastici per conoscere sia pure sommariamente i grandi movimenti migratori, le invasioni e gli spostamenti di grandi masse di genti, di razze e di etnie, che hanno contribuito nel corso del tempo a gettare le basi perché s'incominciasse a parlare di "popolo italiano".

Prima, quindi, di definire il carattere fondamentale del popolo italiano, è necessario muoversi nella ricerca della formazione del concetto di "popolo". E' una ricerca difficile perché il divenire di un popolo non è una gestazione biologica, ma corrisponde a innumerevoli componenti demografiche e dinamiche di sovrapposizioni di civiltà, di lingue, di costumi e consuetudini, di retaggi culturali e conflitti bellici e sociali.

E' il caso delle genti e delle popolazioni che hanno abitato la nostra penisola e che meritano delle valide considerazioni storiografiche, a partire almeno dalla invasione dei Longobardi, che hanno lasciato tracce molto importanti della loro presenza sulla penisola, sia nel settentrione sia nel meridione d'Italia. A seguire, devono essere studiate le altre grandi presenze dei Bizantini, dei Normanni che dal Nord d'Europa si stabilirono nel Sud d'Italia, degli Svevi, degli Spagnoli, dei Francesi, dei Tedeschi e degli Austriaci, senza trascurare i tentativi di invasione da parte dei Turchi nel Meridione della Penisola o la presenza della civiltà araba in Sicilia.

In questo coacervo di invasioni, di occupazioni e di sovrapposizioni di etnie e di civiltà, molto diverse e in costante lotta fra di loro,  non è possibile identificare la formazione del carattere fondamentale del popolo italiano, a meno che non si voglia concludere sbrigativamente, affermando che, alla fine, i tratti salienti  degli Italiani, intesi come popolo, risiedano nella composizione ibrida di tutti i fenomeni quantitativi e qualitativi, che hanno perdurato nel corso dei secoli in tutte le lande della penisola.

Sinceramente, io penso che sia così, senza porsi la preoccupazione di voler ricercare ad ogni costo la "purezza della razza" come tentò di fare, in forma tragica e farsesca al tempo stesso, il fascismo del 1938, sull'esempio della follia criminale del nazismo hitleriano.

Ma con altrettanta sincerità mi permetto di osservare che, proprio per la storia remota e moderna dei processi migratori sopra ricordati, non è possibile parlare del carattere fondamentale o del profilo identitario del popolo italiano, alla stessa stregua con cui parlano del loro carattere collettivo i Tedeschi, i Francesi, gli Spagnoli e gli altri popoli del Nord-Europa.

Una osservazione, la quale, a mio modesto giudizio, non può essere revocata in dubbio, è che prima dell'Unità d'Italia non si può parlare di carattere fondamentale del popolo italiano. Anzi  -  mi spingo ancora più oltre  -  nemmeno subito dopo l'Unità nazionale ritengo si possa parlare in termini di identità omogenea delle popolazioni italiche.

D'altronde, già Massimo D'Azeglio, nella prefazione de "I miei Ricordi", scrive: "Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani".  Citazione che poi è stata tramandata in maniera più sintetica con l'espressione: "Fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani", la quale, secondo alcuni storici, non sarebbe attribuibile a Massimo D'Azeglio.

Il senso, però, del pensiero politico dello scrittore è fatto salvo soprattutto se si leggono altre celebri citazioni, che sottolineano le "dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina", cioè la rovina degli Italiani.

Massimo D'Azeglio moriva a distanza di 6 anni, nel 1867, dalla data ufficiale della proclamazione del Regno d'Italia, il 17 marzo del 1861. Cavour era già morto il 6 giugno di questo stesso anno, all'età di 51 anni, con il forte dubbio se si dovesse dare al nuovo Regno Sabaudo una organizzazione amministrativa e politica decentrata, cioè federalistica, oppure accentrata secondo il modello dei regimi napoleonici.

Sarà scelta la strada dell'accentramento, per il timore che una forma organizzativa federalistica avrebbe potuto mettere a rischio la neonata Unità politica dell'Italia.

 Così attraverso il concorso prima delle annessioni militari e poi dei plebisciti si avvia il processo dell'Unificazione territoriale.

Difficile e travagliata risulterà l'annessione del Regno dei Borbone, nonostante la grande epopea garibaldina che nel giro di pochi mesi consegnerà nelle mani di Vittorio Emanuele II un terzo dell'intero territorio della Penisola.

 Anzi, se Garibaldi non fosse stato fermato a Teano, in provincia di Caserta, il 25 ottobre 1860, dall'incontro con Vittorio Emanuele II, l'esercito garibaldino avrebbe potuto occupare Roma e il Lazio, con le gravi conseguenze di costringere Napoleone III ad invadere il Regno Sabaudo o addirittura l'Italia intera.

Sarebbe stata vanificata tutta la decennale diplomazia di Cavour, volta a tenersi amico l'Imperatore di Francia con ogni mezzo, anche con l'arte amatoria della Contessa di Castiglione.

Cavour, infatti, quasi sempre in contrasto con la strategia di Garibaldi, in oculata sintonia con il suo realismo politico, non aveva mai progettato di allargare i confini del Regno di Sardegna a tutta la penisola italiana.

Gli eventi invece prenderanno il sopravvento. Non restava, allora, che prenderne atto e lasciare che Garibaldi si ritirasse a Caprera, in volontario esilio.

Il processo d'integrazione del Regno borbonico sarà lento e molto difficile per la estrema arretratezza civile e le spaventose miserie socio-economiche in cui versavano le genti meridionali. Si consideri che Il 90% delle popolazioni delle regioni borboniche non sapeva né leggere né scrivere. Molte famiglie, nel Molise, nella Terra del Lavoro e nella Lucania, sopravvivevano nelle grotte e nei tuguri con mezzi di sostentamento assolutamente insufficienti. Il tasso di mortalità specie dei bambini mal nutriti era molto elevato.

Scrive Luigi Carlo Farini in una relazione d'indagine conoscitiva delle condizioni socio-economiche delle province napoletane, inviata il 27 ottobre 1860 a Cavour:

« Ma, amico mio, che paesi son mai questi, il Molise e Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile! Il Re [Francesco II] dà carta bianca; e la canaglia dà il sacco alle case de' Signori e taglia le teste, le orecchie a' galantuomini, (cioè ai Liberali). ......... Anche le donne caffone ammazzano; e peggio: legano i galantuomini pe' testicoli, e li tirano così per le strade; poi fanno ziffe zaffe: orrori da non credersi se non fossero accaduti qui dintorno ed in mezzo a noi».

In questi contesti di estrema miseria morale e materiale esploderà il fenomeno del brigantaggio, il giorno appresso la proclamazione dell'Unità d'Italia, in tutta la sua endemica virulenza, anche perché organizzato e fomentato da ex-ufficiali dello scomparso esercito borbonico, privi oramai dei precedenti privilegi economico-sociali, e da agenti segreti di Francesco II e dello Stato della Chiesa.

Sarà debellato nel giro di due o tre anni con manu militari dal generale Enrico Cialdini, al comando di una esercito di oltre Centomila uomini, con processi sommari ed esecuzioni capitali sulle piazze dei piccoli Centri urbani delle province napoletane.

Scrive Giuseppe Massari nella sua "Relazione d'Inchiesta sul Brigantaggio, letta alla Camera nel Comitato segreto del 3 e 4 maggio 1863", pp.19-20:

"A Foggia, a Cerignola, a San Marco in Lamis havvi un ceto di popolazione, addimandato col nome di Terrazzani, che non possiede assolutamente nulla e che vive di rapina. Nella sola città di Foggia i terrazzani assommano ad alcune migliaia. .....I terrazzani e i cafoni  -  ci diceva il direttore del demanio e tasse della provincia di Foggia  -  hanno pane di tal qualità che non ne mangerebbero i cani.

Tanta miseria e tanto squallore sono naturale apparecchio al brigantaggio. La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino. ..... Su 375 briganti che si trovavano il giorno 15 aprile (1862) prossimo passato nelle carceri della provincia di Capitanata, 293 appartengono al misero ceto dei così detti braccianti".

Il genio lirico di Alessandro Manzoni non avrebbe potuto immaginare tanta inciviltà e desolato degrado di esistenza umana, quando, nel marzo 1821, in seguito ai moti carbonari piemontesi, cantava nell'Ode, "MARZO 1821":   

"Una gente che libera tutta

O fia serva tra l'Alpe ed il mare;

Una d'arme, di lingua, d'altare,

Di memorie, di sangue e di cor."

 

"libera tutta" da che cosa? Dall'occupazione del dominio austriaco tra "l'Alpe ed il mare". Non immaginava il suo entusiasmo romantico che bisognava liberare la Penisola da ben altri guai: dalla ignoranza, dall'analfabetismo, dalla miseria, dall'abbrutimento morale, e via via, attraverso i decenni fino ai nostri giorni, dalla criminalità organizzata, dalla corruzione elevata a sistema, dalla camorra, dall'ndrangeta, dalla mafia, che infestano l'Italia in tutta la lunghezza della penisola, a distanza di 154 anni dalla proclamazione dell'Unità nazionale.

Altro che "libera tutta...Una d'arme, di lingua, d'altare, / di memorie, di sangue e di cor".

Non era invece dello stesso avviso dell'autore de "I Promessi Sposi", Massimo d'Azeglio, il genero del Manzoni per aver sposato la sua figlia Giulia, che il 17 ottobre 1860, scriveva in una lettera a Diomede Pantaleoni:

"In tutti i modi la fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso". (dal "Carteggio inedito" di M. d'Azeglio e D. Pantaleoni, 1888).

Si comprende ancor meglio, oggi, con tutto l'acume critico-storico e le interpretazioni realistiche delle grandi questioni storiche, di cui siamo capaci, la citazione del d'Azeglio, che con sorprendente acribia, libera da una certa retorica patriottica, aveva intuito che "fatta l'Italia, bisogna fare gli Italiani".

Intanto l'Unità territoriale era al di là da venire. Bisognava combattere una "Terza Guerra d'Indipendenza", nel 1866, in alleanza militare con la Prussia del conte Otto von Bismarck, il cancelliere di ferro, per ottenere il Veneto e ancor più bisognava attendere la disfatta di Napoleone III, imperatore di Francia, a conclusione della guerra franco-prussiana, perché Vittorio Emanuele II potesse procedere alla presa di Roma con la famosa Breccia di Porta Pia, aperta dall'artiglieria del generale Raffaele Cadorna  e dall'impeto dei bersaglieri, il 20 settembre del 1870.

Roma diventava capitale d'Italia, ma il Pontefice Pio IX, nonostante tutte le garanzie assicurate dal governo italiano nel rispetto di tutti i diritti internazionali alla dignità, alla autonomia e alla sovranità dello Stato Vaticano, non vorrà mai accettare l'esproprio del suo potere temporale. Anzi, impartirà ai Cattolici d'Italia disposizioni perentorie, riassunte nella formula "non expedit" della Curia pontificia, perché non collaborassero in alcun modo alla vita politica del nuovo Regno Sabaudo.

Soltanto con l'ascesa sul soglio pontificio del papa Leone XIII, nel 1878, i Cattolici iniziano ad organizzarsi in Associazioni e Partiti politici, che, per tutto il '900, saranno protagonisti di primo piano nella difficile vita politica dell'Italia. Sarà, in larga parte, loro merito, se la Santa Sede porterà a termine, in spirito di conciliazione, i Patti Lateranensi con il Governo Fascista di Benito Mussolini, l'11 Febbraio del 1929.

 

Il processo, invece, dell'unificazione territoriale sarà portato a termine con la Prima Guerra Mondiale o Quarta Guerra d'Indipendenza, come amano chiamarla alcuni Storici, per le ragioni che soltanto con la liberazione del Trentino e della Venezia Giulia dalla dominazione austriaca e la loro annessione al Regno di Vittorio Emanuele III verrà completata l'Unità Nazionale, in rispondenza dei confini naturali, dalle Alpi alla Sicilia, e a distanza di cento anni da quel marzo 1821, in cui il Manzoni cantava "libera tutta... Una d'arme, di lingua, d'altare.....".

Ma quanti sacrifici, quante tragedie, quante migliaia di morti e menomati di guerra costò questa "inutile strage", ricordando le dolenti parole di Benedetto XV ?

Seicentocinquantamila giovani combattenti furono strappati alla vita sulle alture del Carso, del Montegrappa, del Sabotino, e nelle trincee sulle sponde dell'Isonzo e del Piave, dove spesso si sentivano imprecazioni di dolore e disperazioni in parlate dialettali dei figli dei contadini meridionali,  che non conoscevano nemmeno le ragioni per cui erano andati a morire in terre così lontane dagli affetti dei propri familiari, dal lavoro dei propri campi, dalle tradizioni e dai costumi dei propri paesi.  Accettavano di essere trucidati come una fatale, inevitabile fatalità.

Era questo il prezzo che bisognava pagare, perché l'Italia "libera tutta"  fosse  "Una d'arme, di lingua, d'altare/ di memorie, di sangue e  di cor".

Già "una di lingua"! Ma in che termini si possa discutere di unità linguistica, quando fino a pochi decenni orsono il tasso di analfabetismo in tutte le lande della penisola era spaventosamente molto elevato e le parlate dialettali, incomprensibili fra di loro perfino nei paesi limitrofi, avevano il netto sopravvento sulla lingua nazionale?

Era questa la lingua di Dante, del Petrarca e del Boccaccio; la lingua dell'Umanesimo, del Rinascimento, dell'Illuminismo; la lingua del Manzoni, del Romanticismo e di tutti i grandi scrittori, poeti, filosofi ed artisti dell'Età contemporanea. Ma non era ancora la lingua del popolo. Piaccia o no, la unità linguistica in Italia verrà raggiunta con la diffusione della televisione. Sarà, con gli anni cinquanta del secolo scorso, un grande miracolo di cultura, d'istruzione e di civiltà, sulle onde del miracolo economico e riformista, del tutto sconosciuto alle generazioni della prima metà del 'Novecento.

Cresceva così anche il concetto di popolo, che non può non identificarsi, per il bene di una società, per il suo progresso civile e morale, per la sua elevazione materiale e spirituale, con il concetto di nazione. Popolo e nazione devono essere due facce della stessa medaglia, due strutture della stessa realtà antropologica, due parti identitarie dello stesso processo storico.

Secondo un certo indirizzo storicistico, infatti, sarà con il Romanticismo tedesco, in specie con la filosofia di Giovanni Amedeo Fichte, ad evolversi il concetto di popolo in quello di nazione, intesa, per l'appunto, come "spirito di popolo", dal tedesco "volksgeist". Era stato questo convincimento romantico, certamente, ad indurre il Manzoni a cantare l'auspicio di una Italia "libera tutta.... Una d'arme, di lingua, d'altare/di memorie, di sangue e di cor ". 

Ma i drammatici processi storici che hanno vissuto le popolazioni della penisola, dalle antiche invasioni barbariche fino alla unificazione politica dell'Italia, hanno dimostrato, a mio modesto parere, che il divenire della nostra "nazione" non si è evoluto come "spirito di popolo", il quale è rimasto, per quasi tutti i scoli passati, retaggio prezioso degli uomini di cultura, di arte e di filosofia, assolutamente estraneo alle genti italiche, quasi sempre in lotta armata fra di loro e facilmente assoggettabili dagli eserciti stranieri.

E' rimasta viva ancora oggi le locuzione di origine napoletana: "O con la Francia o con la Spagna, purché si magna".

Resta, quindi, più valido e più rispondente alle realtà storiche ed antropologiche della penisola italiana il concetto di "popolo", che si struttura in termini illuministici e contrattualistici come moltitudine di persone "che vogliono stare insieme", anziché il concetto di "natio", intesa, in termini romantici, come moltitudine di cittadini "che devono stare insieme", perché legati fra di loro dalla stessa storia, dalla stessa lingua, dalla stessa religione, dalle stesse memorie e dalle stesse tradizioni, dalle stesse sofferenze, dagli stessi valori morali e civili e dagli stessi sentimenti.

La nostra Unità Nazionale, in verità, non è stata né il risultato di cittadini che decisero, in una libera consultazione elettorale, di vivere insieme né la naturale conseguenza della nazione italiana intesa come "spirito di popolo".

 E' stata invece il risultato di invasioni militari, che operarono prima con le occupazioni e le annessioni e poi, falsando la realtà di fatto, con i famosi plebisciti, che non lasciavano spazio alla libera e consapevole partecipazione elettorale, snaturata dalla scarsa educazione civica, dalla ignoranza e dall'analfabetismo.

Popolazioni di diversa cultura e formazione, cresciute in contesti economici e sociali assai deversi fra di loro, dovevano sottostare, dalle Alpi alla Sicilia, alle stesse Leggi, alla stessa imposizione fiscale, alla stessa leva militare, ecc., con le gravi conseguenze che numerosi focolai di ribellione sociale si moltiplicarono in tutte le Regioni, quasi fino ai nostri giorni.

Personalmente, fin dalla mia prima giovinezza scolastica, ho prestato ascolto alla cosiddetta "Questione Meridionale". Da scolaro, però, non sono mai riuscito a capire le dimensioni del problema, tanto che ancora oggi seguitiamo a parlare di sottosviluppo meridionale.

 Le politiche dei governi che si sono succeduti nel tempo, dal 1860 fino ad oggi, dal fenomeno del brigantaggio alla criminalità organizzata dei nostri giorni, si sono esaurite in una lunga serie di Commissioni d'Inchiesta, redattrici di volumi di relazioni conoscitive, che hanno enumerato, con l'ausilio di insigni studiosi di sociologia, di storia, di economia, di finanza, di politiche industriali, diagnosi sociali, terapie di contrasto alla corruzione, al  crimine e alla povertà e soluzioni di intervento economico, come la famosa Cassa del Mezzogiorno, che rovesciò miliardi di denari nei  rivoli carsici dei partiti e delle clientele locali.

La "Questione Meridionale" non è stata mai risolta.

 Anzi, da "meridionale" è diventata "centro-settentrionale", con la espansione della criminalità organizzata, con le tecniche raffinate dell'evasione fiscale e con la corruzione non solo dei piccoli "mariuoli", come diceva Bettino Craxi ai tempi di Mario Chiesa, ma con la corruzione tangentizia divenuta sistema nei grandi appalti per la costruzione di grandi Opere Pubbliche (autostrade, ferrovie, ponti, ecc.), all'interno del Ministero delle Infrastrutture, nel cuore della superburocrazia.

La corruzione dilaga prepotente dal Veneto a Roma, da Roma Capitale alla Sicilia.

La corruzione relativa alla costruzione del Mose di Venezia, costata alla collettività milioni di euro; la corruzione relativa alla tangente di Centomila Euro, pagati a Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio di Palermo, che per prima in Italia approvò un piano contro la corruzione.

 Il sistema corruttivo, messo in atto da superburocrati al Ministero delle Infrastrutture, il cui costo viene stimato, in questi giorni, dalla Procura di Firenze che conduce le indagini, in una spaventosa cifra di milioni di euro.

La corruzione di trecento mila euro, intascati, secondo la Procura di Napoli, dal Sindaco di Ischia, per la metanizzazione dell'isola.

Chiedersi, allora, "qual è il carattere fondamentale del popolo italiano?" non serve a nessuno, la risposta ovvia e facile non aumenta le nostre conoscenze. Anche i ragazzi delle scuole inferiori non sono motivati a rispondere. Soltanto, la retorica patriottarda nelle celebrazioni dei grandi eventi nazionali esalta con enfasi le virtù civili del popolo italiano.

 

 
 
 
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