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La società aperta (1 a)

Post n°47 pubblicato il 07 Settembre 2015 da giulio.stilla

“LA SOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI”        (1 a)

“PLATONE TOTALITARIO”    di  K.R. POPPER

 

Mancano pochi giorni alla riapertura delle scuole italiane, che, quest’anno, saranno  avviate con la immissione nei ruoli di decine di migliaia di docenti precari, ansiosi di trovare un’adeguata dimensione occupazionale. Ma anche sul piano didattico si profilano innovazioni più aderenti alle esigenze dei tempi, come la soppressione dei metodi tradizionali e la sperimentazione della ricerca in classe per la soluzione dei problemi proposti di volta in volta dalla progettazione formativa. Lo studio fuori classe o a casa dovrebbe consistere nella sistemazione individuale dei risultati raggiunti nella mattinata scolastica con i rispettivi docenti. Ricerca e didattica sono state da sempre teorizzate e sperimentate dai migliori pedagogisti ed operatori scientifici delle tecniche dell’apprendimento. Ma quasi sempre le ricerca e la proficua didattica sono state latitanti nella pratica quotidiana della scuola italiana, condotta da dirigenti talvolta impreparati e più attenti ad esercitare un potere burocratico, che con la scuola dell’istruzione e della formazione non ha mai avuto a che fare.

Oggi, con la ennesima Riforma della Scuola della Ministra Giannini si intende conferire maggiore potere ai Dirigenti scolastici, i veri responsabili delle disfunzioni e delle inefficienze della Scuola italiana, sempre prona alla libidine del potere politico e partigiano. La Scuola per definizione è educazione alla libertà e alla ragione, due categorie sconosciute alla grande maggioranza dei burocrati della Scuola.

La ricerca e la didattica devono coniugarsi con la libertà e la ragione degli insegnanti, e non con i paradossi e le proiezioni antiscientifiche di molti presidi, che dalla sfera della ricerca e della didattica dovrebbero essere semplicemente allontanati, e se mai relegati nei ruoli di dirigenti amministrativi, con l’etica della responsabilità di sorreggere ed interpretare una conveniente preparazione economica.

   Oltre sessant’anni fa, nel 1952, sul numero 6 Maggio della rivista “La Via”, commemorando la pedagogista Maria Montessori, così scriveva Don LUIGI STURZO:

“…….. si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà, si vuole l’uniformità; quella imposta dai burocrati e sanzionata dai politici.

Manca anche l’interessamento pubblico ai problemi scolastici, alla loro tecnica, all’adattamento dei metodi, alle moderne esigenze.

Si parla tanto di libertà e di difesa della libertà; ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico in ogni attività associata, dove mette mano lo Stato:

dalla Economia che precipita nel dirigismo alla politica che marcia verso la partitocrazia, alla Scuola che è monopolio dello Stato e di conseguenza burocratizzata.”

 

Nel 1973, viene pubblicata, per la prima volta, in Italia, un’opera di grande rilevanza scientifica, accessibile alla conoscenza del grande pubblico, che non fosse predisposto alla cultura specialistica, ma che fosse motivato ad allargare l’orizzonte delle sue conoscenze sulle grandi tematiche della filosofia politica e del metodo della scienza, il quale, lo si sa, è la scienza, intesa non solo come conoscenza della fisica ma anche come conoscenza dei processi storici, politici e filosofici.

Il libro, in due tomi, porta il titolo de “LA SCOCIETA’ APERTA E I SUOI NEMICI” ed è stato curato con straordinaria chiarezza concettuale dal suo autore, KARL POPPER, un filosofo di origine ebraica, nato a Vienna, nel 1902, e scappato via dall’Europa, nel 1937, in Nuova Zelanda. Dal 1945, con la fine della Seconda Guerra Mondiale, visse in Inghilterra, in laboriosa attività di grande pensatore, fino alla morte, avvenuta nel 1994.

La tesi fondamentale che sorregge l’impianto dell’Opera è quella medesima intorno alla quale il filosofo lavorava da sempre, con la composizione di altri libri, e cioè: nell’ambito della ricerca scientifica, delle scienze fisiche e naturali e di quelle cosiddette umane, politiche ed economiche, non esistono leggi o teorie definitive, che non possano essere smentite dall’avanzamento della ricerca e dal progressivo andamento delle conoscenze,

Anzi, una teoria per essere considerata “vera” deve essere non conclusiva, provvisoria e passibile sempre di fallibilità e di confutazione. Il criterio di verificazione, di matrice antica, sia nell’ambito del pensiero scientifico sia in quello più strettamente filosofico, non era più sufficiente per garantire una teoria scientifica universale, valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Il costante progresso della ricerca scientifica dimostrava, infatti, che una teoria resta “vera” fino a quando non venga confutata e dichiarata falsa da una ulteriore interpretazione, che non soggiace alla prima e che introduce nuove scoperte, controllabili non già con il principio di verificabilità ma con il principio di falsificabilità, nel senso che  non sono sufficienti infinite verifiche per dichiarare una teoria “certa”, ma basta una sola falsificazione per dichiarala non “vera”.

La falsificabilità, quindi, e non la verificazione, è il criterio per distinguere una teoria scientifica da una teoria che scientifica non è.

La scienza, che procede per modelli matematici, non è chiamata tanto a verificare le leggi dei fenomeni osservati, quanto piuttosto a “falsificarle”. In altri termini ancora, un’asserzione di tipo metafisico non è un’asserzione scientifica non perché non può essere verificata, ma perché non può essere falsificata. “Un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza” (Popper,“Logica della scoperta scientifica”, p. 24, Torino, Einaudi, 1970).

Insistere su questo versante richiederebbe un’analisi approfondita della storia del “Verificazionismo” fino al neopositivismo logico del Circolo di Vienna per approdare poi alla posizione epistemologica di Karl Popper, la quale mi serve per affermare che, se nell’ambito delle scienze fisiche e naturali, non è prudente e scientifico emettere teorie o semplici enunciati che possano valere per tutta l’eternità, si figuri se questo atteggiamento di ricerca e di conclusione definitiva possa essere possibile nell’ambito della Storia e delle Scienze Umane.

La tesi di fondo che induce Popper a scrivere “La società aperta e i suoi nemici” è l’intento di dimostrare  che nella storia e nelle società politiche non esistono regole o leggi o sistemi perfetti che possano valere per sempre e per tutti, soffocando in tal modo le libertà dei soggetti associati e delle persone, in nome della presunta verità di un sistema politico, ideologico e  filosofico, che chiude le porte alla circolazione delle idee, all’interscambio delle culture, all’esercizio delle possibili confutazioni e all’atteggiamento critico del libero pensiero.

Karl Popper appartiene a quella categoria di pensatori che, nel corso del secolo scorso, intesero riappropriarsi della esigenza etica di esercitare l’impegno speculativo con impostazione unitaria, sia nel campo delle filosofie teoretiche e pratiche sia nell’ambito dell’esame critico della ricerca epistemologica

Il filosofo austriaco persegue questo fine  con “La Logica della scoperta scientifica” sul versante della riflessione epistemologica e con “La società aperta e i suoi nemici” sul versante delle filosofie politiche, decretando insieme con altri pensatori del Novecento l’abbandono dell’orientamento tradizionale che preferiva che  le due specializzazioni restassero distinte e separate in modo tale che la ricerca scientifica non si confondesse con le teorie metafisiche e le dottrine pratiche nel campo dell’etica, della morale individuale, della politica, ecc. ecc.

Popper intende, invece, dimostrare che il principio di autorità che vige sovrano nelle società totalitarie, e non aperte, è irrimediabilmente letale non solo per la nascita e  il divenire della democrazia ma anche per il progresso scientifico, come aveva ampiamente dimostrato, già nel 1600, Galileo Galilei, lottando contro due forti e secolari “Autorità”: la  dommatica resistenza delle Chiesa e la pervicacia della cultura aristotelica, che permaneva monolitica e granitica, ancora ai tempi dello scienziato pisano.

 La Chiesa pretendeva, sulla base di una lettura sbagliata della Bibbia, che si continuasse a teorizzare, contro l’autonomia e la libertà della scienza, che non fosse la Terra a girare intorno al Sole, bensì questo intorno alla Terra. Scriveva Galileo nelle “Lettera a Madama Cristina” di Lorena, granduchessa di Toscana, nel 1615, che la missione della Chiesa è quella di insegnare agli uomini  come si vadia nel cielo, e non come vadia il cielo”.

La cultura egemone degli aristotelici, che aveva arrestato la ricerca scientifica per venti secoli, pretendeva poi che l’autorità del filosofo di Stagira non venisse revocata in dubbio nemmeno di fronte all’evidenza. Racconta Galileo , nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi del Mondo”, che un personaggio  di formazione aristotelica si fosse talmente sorpreso nel constatare, assistendo alla sezione di un cadavere nella casa di un medico,, che “i nervi non partissero dal cuore”, come scriveva Aristotele, “ma dal cervello”, tanto che se non l’avesse detto il maestro, sarebbe stato il caso di credere a quella evidente dimostrazione.

Questo grottesco orientamento illiberale e antiscientifico resiste, ancora oggi, come già denunciava Don Luigi Sturzo, nella nostra società, a varie dosi, in tutti i campi del sapere e della ricerca: dalle baronie universitarie alla organizzazione socio-politica, dal sistema delle corporazioni professionali alla manipolazione dei mezzi di informazione di massa, dall’Economia alla grande Finanza, alla soffocante ingerenza dello Stato, attraverso i suoi tentacoli, nei processi di educazione e di formazione alla libertà e alla ragione.

La intelligenza, che ama la libertà e la scienza, stenta ad   affermarsi nella nostra Italia, dove la democrazia è soltanto formale e la scienza è, quasi sempre, costretta ad emigrare all’estero.

 La democrazia sta scritta solo sulla carta, ma nella vita pratica di tutti i giorni, essa è disattesa e vilipesa o, meglio, è latitante, perché non sono garantiti i diritti al lavoro,   alla casa,  all’assistenza, alla istruzione. Non è garantito il diritto alla vita.

Mancanti le garanzie per tutti questi diritti, non è esagerato dire che la nostra società non è una società “aperta”, ma una società “chiusa”, all’interno della quale prevale arrogante la logica dei più forte, che infierisce e trova spazio soprattutto in politica, creando steccati e recinti sociali “non aperti”, che meriterebbero un’attenta disamina filosofica alla maniera di quella condotta da Karl Popper sulle società “chiuse”, teorizzate da Platone, Hegel  e Marx, profeti e ispiratori di tutti i totalitarismi e di tutti i regimi dittatoriali.

 La storia d’Italia, nel corso del secolo scorso, dimostrerebbe questa mia ardita convinzione: a conclusione dell’età giolittiana e della Prima Guerra Mondiale, con la nascita e l’avvento del Fascismo, per vivere in Italia da schiavo c’era bisogno della tessera del Partito Nazionale Fascista. Debellato il Fascismo, a conclusione della Seconda Guerra Mondiale, con l’avvento della Democrazia Cristiana, per vivere da clientes in Italia e riempire la sportula di “panem et circenses”, c’era bisogno della tessera della Democrazia Cristiana.

Superata questa temperie democristiana, per vivere da carrierista in Italia c’è stato bisogno della Tessera prima del PSI e poi del PCI. Soprattutto gli intellettuali, se non erano di sinistra, non erano nemmeno intellettuali. Per essere considerati nel mondo della Scuola, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Amministrazione della Giustizia, nelle Redazioni dei Giornali, nel Mondo della Televisione Pubblica, bisognava ostentare di militare con tutto il cuore e con tutta la mente nei feudi dei valvassori e dei valvassini della Sinistra. Era pratica molto diffusa, soprattutto durante l’estate, celebrare i fasti della Sinistra con “feste, farina e forche”, come durante il periodo borbonico, nel regno di Napoli. Erano gli anni in cui il livello del debito pubblico si attestava su una soglia astronomica, dalla quale forse non scenderemo mai più, peggiorando le condizioni  del sottosviluppo endemico nel Mezzogiorno d’Italia.

Oggi, cadute le paratie ideologiche, per affermarsi con una qualsivoglia professione o trovare un posto di lavoro, bisogna vivere da affiliato ai comitati d’affari, tanto da far desiderare di morire nelle “società chiuse” di Platone, Hegel e Marx, anziché vivere con costoro.

La società politica, teorizzata da Platone, in effetti, non aveva nulla di politica, perché, risalendo all’etimo e al concetto del termine, coniato, nella civiltà greca, la parola “politica” significava l’arte di amministrare la polis per il benessere di tutti i cittadini, di tutti i cittadini e non di una sola classe o di una categoria sociale o gruppo di potere.

Il termine “politica” era quindi sinonimo della parola “democrazia”, perché solo con la democrazia si dibatte e si discute sui problemi della città, le cui soluzioni devono essere i risultati della ricerca razionale e condivisa dalla partecipazione democratica dei cittadini.

L’autonormatività della politica, infatti, vuole che una politica che non sia l’arte di amministrare la polis per il bene materiale, culturale e spirituale degli uomini liberi non è nemmeno politica. E’ tutt’altro che politica. E’ tirannide, oligarchia, timocrazia, aristocrazia, degenerazioni tutte della democrazia, e non, come pensava Platone, che la democrazia fosse la degenerazione della società politica.

Scrive Tucidide ne “La guerra del Peloponneso, II, 37 – 41, riportando l’orazione commemorativa pronunciata da Pericle in onore dei morti del primo anno di guerra:

 “La nostra costituzione non calca l’orma di leggi straniere. Noi piuttosto siamo d’esempio agli altri senza imitarli. Il suo nome è democrazia, perché affidiamo la città non ad un’oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini; ma in realtà le sue leggi danno a tutti indistintamente i medesimi diritti nella vita privata; e per quanto riguarda gli onori ognuno viene prescelto secondo la fama che gode, non per l’appartenere all’uno o all’altro partito a preferenza del valore. Né avviene che la povertà offuschi il prestigio e arresti la carriera di chi può rendere buoni servigi alla città. Libera si svolge la vita politica della nostra città […..]  Sicché la città nostra è ammirevole sotto questo come ancora sotto altri aspetti. L’amore del bello non ci insegna lo sfarzo, né la cultura c’infiacchisce. La ricchezza è per noi stimolo di attività, non motivo di superbia loquace. E quanto alle ristrettezze della povertà, è umiliante presso di noi non il confessarle, ma piuttosto il non saperle superare lavorando. Riuniamo nelle nostre stesse persone le cure familiari e le politiche , e, pur rivolti ognuno a una diversa attività privata, riveliamo tutt’altro che scarse capacità nelle pubbliche mansioni: noi soli giudichiamo non un tranquillo, ma un inutile cittadino che di esse non si occupi affatto. E noi direttamente o decidiamo almeno di una proposta o meditiamo debitamente sulle questioni politiche, e non stimiamo che i discorsi infirmino l’azione, cui deriva piuttosto del danno se la discussione non l’illumina, prima che l’impresa voluta s’inizi. E in questo ancora ci distinguiamo dai nostri nemici: che nelle imprese noi rechiamo il più ardito coraggio non disgiunto dalla più matura riflessione. [….]  Dirò insomma che la nostra città è, nel suo complesso, la scuola dell’Ellade, e che ciascuno singolarmente, per quanto a me sembra, sviluppa presso di noi una personalità autonoma, che accoglie con elegante versatilità le più svariate forme di vita.(Tucidide,“La guerra del Peloponneso”, II, 37-41, trad. it. di P. Sgroi, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, Varese-Milano, 1942, pp. 197-199).

Con queste idee e con questa prassi politica, Pericle governò la città di Atene dal 443 al 429 a. C., anno della sua morte, riportando grandi successi amministrativi e straordinari progressi socio-economici e culturali tali da creare eccezionali condizioni storiche, perché la città di Atene fosse considerata attraverso i secoli “la Scuola dell’Ellade” e la sua epoca venisse chiamata, per antonomasia, “Età Periclea”.

Anche Platone, chiamato per tre volte nella città di Siracusa da Dionigi il Giovane, tentò di realizzare una riforma politica sul modello della sua “Repubblica ideale”, ma, tutte tre le volte, fallì il suo progetto e fu costretto, per contrasti con Dionigi, a scappare via dalla città. La prima volta, anzi, era stato venduto come schiavo e riscattato da un certo Anniceride, il cui danaro, però, rifiutato dai suoi compratori, venne restituito allo stesso Platone ed impiegato per fondare in Atene l’Accademia,  la sua scuola di filosofia, al cui insegnamento si dedicò fino alla morte.

Deluso, infatti, drammaticamente, dall’amministrazione della giustizia nella città di Atene, che aveva mandato a morte Socrate, l’uomo più giusto del tempo, Platone si convinse che: “Se i filosofi non governano la città o se quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente all’una o all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali delle città e anche quelli del genere umano”. (“Repubblica”, V,  473 d)    (continua)

 
 
 
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