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Mali

Post n°450 pubblicato il 29 Marzo 2012 da Guerrino35

da elpravda.blogspot.it/2012/03/mali-nueva-guerra-del-africom.html
Estratto e traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Mali, nuova guerra dell'AFRICOM?
 
di Rick Rozoff, attivista per la pace ed analista di temi internazionali
 
La stampa riporta l'intensificarsi dei combattimenti in Mali tra i militari della nazione ed i ribelli di etnia tuareg del Movimento Nazionale di Liberazione Azawad nel nord del paese [1].
 
Siccome le uniche agenzie di stampa di portata internazionale a disporre dei fondi e delle infrastrutture necessarie a mantenere uffici e corrispondenti in tutto il mondo sono quelle con sede nei principali Stati membri del NATO (Associated Press, Reuters, Agence France-Presse, BBC News e Deutsche Presse-Agentur), la copertura degli attuali avvenimenti in Mali, come di quelli che si verificano in qualunque altro paese, riflettono un taglio occidentale ed un'agenda occidentale.
 
I tipici titoli da luogo comune risultano pertanto:
Reuters: "Armi ed uomini provenienti dalla Libia rafforzano la ribellione in Mali"
CNN: "Presidente: combattenti tuareg della Libia attizzano la violenza in Mali"
The Scotsman: "Tuareg armati dal Colonnello Gheddafi piombano sul Mali"
Agence France-Presse: "La Francia denuncia assassini compiuti dall'offensiva ribelle in Mali"
Voice of America: "Mali: la Francia condanna presunte atrocità di ribelli tuareg"
 
Per arrivare dalla Libia al Mali è necessario un viaggio di almeno 800 chilometri attraverso l'Algeria e/o il Niger. Siccome i ribelli evidentemente non dispongono di una forza aerea, non possono contare su aeroplani da trasporto militari, i titoli citati e la propaganda che rappresentano, implicano che i combattenti tuareg hanno coperto tutta la distanza dalla Libia alla loro patria in convogli terrestri, con armi pesanti al seguito, attraversando una nazione estera senza essere intercettati o per lo meno dissuasi dalle autorità locali. E questo, oltretutto, per lanciare un'offensiva tre mesi dopo l'assassinio del leader libico Muammar Gheddafi, dopo che nell'ottobre scorso il suo convoglio fu attaccato da bombe francesi e da un missile Hellfire statunitense. Ma l'implicazione che Algeria e Niger, specialmente la prima, siano complici del transito di combattenti tuareg e d'armi dalla Libia al Mali è di cattivo presagio in termini di estensione delle accuse e delle azioni occidentali nella regione.
 
Le notizie internazionali dominate dall'Occidente trattano in modo diverso le ribellioni armate, a seconda del modo in cui i ribelli ed i governi cui si oppongono sono visti da importanti membri della NATO.
 
Questi ultimi hanno fornito appoggio militare e logistico a formazioni ribelli armate, nella maggioranza dei casi in attacchi attraverso le frontiere e con piani separatisti ed irredentisti, in anni recenti in Kosovo, Macedonia, Liberia, Costa d'Avorio, Libia ed ora in Siria, e sui fronti dello spionaggio e della "diplomazia" in Russia, Cina, Pakistan, Sudan, Indonesia, Congo, Myanmar, Laos e Bolivia.
 
Tuttavia, importanti potenze della NATO hanno adottato l'indirizzo opposto quando si è trattato di Turchia, Marocco (coi suoi 37 anni d'occupazione del Sahara Occidentale), Colombia, Filippine, Repubblica Centrafricana, Chad ed altre nazioni, che sono loro clienti militari o territori da esse controllati, dove gli USA e i loro alleati occidentali forniscono armi, consiglieri, forze speciali e le cosiddette forze di mantenimento della pace.
 
Il martellamento di notizie allarmanti rispetto al Mali è un segnale che l'Occidente si propone di aprire un'altro fronte militare nel continente africano, dopo la campagna aerea, navale e di forze speciali contro la Libia e le continue operazioni in Somalia ed Africa Centrale, col recente dispiegamento di forze speciali statunitensi in Uganda, Congo, Repubblica Centrafricana ed il Sudan meridionale. Nel febbraio scorso in Costa d'Avorio, il vicino del Mali verso sud, i militari francesi, con le accomodanti truppe delle Nazioni Unite - "forze di pace" - spararono razzi contro la residenza presidenziale e sequestrarono con la forza il presidente Laurent Gbagbo.
 
Il Comando Africa degli USA (AFRICOM) cominciò a funzionare per la prima volta come forza combattente, ciò che avrebbe dovuto essere fin dall'inizio, nel marzo scorso nella prima quindicina di giorni di guerra contro la Libia, con l'"Operazione Alba dell'Odissea", prima di trasferire la campagna alla NATO per oltre sette mesi d'ininterrotti bombardamenti ed attacchi missilistici.
 
Il Mali potrebbe essere la seconda operazione militare dell'AFRICOM.
 
Il paese, senza sbocco al mare, è il raggio della ruota dell'ex Africa Occidentale Francese, confinando con quasi tutti gli altri membri a parte il Benín: Burkina Faso, Guinea (Conakry), Costa d'Avorio, Mauritania, Niger e Senegal. Verso nord condivide inoltre la frontiera con l'Algeria, un altro antico possedimento francese.
 
Il Mali è il terzo produttore d'oro dell'Africa, dopo Sudafrica e Ghana. Possiede considerevoli depositi d'uranio amministrati da concessionarie francesi nel nord del paese, scenario degli attuali combattimenti. Le richieste dei tuareg includono l'ottenimento di un certo controllo sulle miniere d'uranio e sui ricavi che fruttano. Inoltre sono state effettuate negli ultimi anni importanti esplorazioni alla ricerca di petrolio e gas naturale, sempre nel nord del paese.
 
La nazione è pure un asse portante della "Cooperazione Antiterrorismo Trans-Sahara degli USA" stabilita nel 2005 (in origine Iniziativa Antiterrorismo Trans-Sahara), derivante dall'"Iniziativa Pan Sahel" del 2003-2004.
 
In maggio il "Comando Europa delle Operazioni Speciali degli USA" inaugurò l'Iniziativa Antiterrorismo Trans-Sahara inviando 1000 soldati delle forze speciali nell'Africa nordoccidentale per l'"Operazione Flintlock" ("Operazione Fucile a pietra focaia"), con l'obiettivo di addestrare le forze armate di Mali, Algeria, Chad, Mauritania, Niger, Senegal e Tunisia, i sette membri africani originari dell'Iniziativa Antiterrorismo Trans-Sahara, che include attualmente anche Burkina Faso, Marocco e Nigeria. La Libia vi s'inserirà presto, come pure nella cooperazione militare del Dialogo Mediterraneo della NATO.
 
Le forze speciali statunitensi diressero la prima di ciò che è divenuta poi l'"Operazione Flintlock", esercitazione di controinsurrezione a cadenza annuale con le nazioni menzionate del Sahel e del Magreb. L'anno successivo la NATO realizzò i giochi di guerra su vasta scala "Steadfast Jaguar" ("Giaguaro risoluto") nella nazione insulare africana occidentale di Capo Verde, per lanciare la Forza di Reazione della NATO, in base alla quale è stata forgiata la Forza Ausiliare Africana.
 
[......]
 
Benché il proposito dichiarato della Cooperazione Antiterrorismo Trans-Sahara e delle sue esercitazioni plurinazionali "Flintlock" sia addestrare i militari delle nazioni del Sahel e del Magreb al combattimento contro gruppi estremisti islamici nella regione, in realtà gli USA ed i loro alleati l'anno scorso hanno ingaggiato la guerra contro il governo della Libia a sostegno di elementi simili, e l'applicazione pratica dell'addestramento militare e del dispiegamento del Pentagono nell'Africa nordoccidentale è stata combattere contro le milizie tuareg, anziché contro gruppi come Al Qaida nel Magreb Islamico o Boko Haram in Nigeria.
 
Gli USA ed i loro alleati NATO hanno realizzato ed appoggiato altre esercitazioni militari nell'area con propositi simili. Nel 2008 la Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (ECOWAS), il gruppo economico regionale per il quale fu creata la Forza Ausiliare Africana Occidentale appoggiata da USA e NATO, realizzò un'esercitazione militare denominata "Jigui 2008" in Mali, che secondo quanto riportava allora il Ghana News Agency, era "appoggiata dai governi anfitrioni, così come da Francia, Danimarca, Canada, Germania, Olanda, Regno Unito, USA e Unione Europea".
 
Anche AFRICOM effettua esercitazioni plurinazionali di interoperatività delle comunicazioni, Africa Endeavour, principalmente in Africa Occidentale. La conferenza programmatica dell'anno scorso si svolse a Bamako, capitale del Mali e, secondo l'Esercito USA in Africa, riunì oltre 180 partecipanti di 41 nazioni africane, europee e nordamericane, osservatori della Comunità Economica degli Stati dell'Africa Occidentale (ECOWAS), della Comunità Economica degli Stati dell'Africa Centrale (ECCAS), della Forza Ausiliare dell'Africa Orientale e della NATO, per preparare la prova d'interoperatività di sistemi di comunicazione e d'informazione delle nazioni partecipanti. Anche l'esercitazione principale avvenne in Mali.
 
I militari statunitensi si sono insediati nella nazione per lo meno dal 2005 e quell'anno Voice of America rivelò che il Pentagono aveva "stabilito un centro operativo temporaneo in una base della Forza Aerea del Mali vicino a Bamako. L'installazione fornirà appoggio logistico e servizi d'emergenza alle truppe USA che addestrano forze locali in cinque paesi della regione".
 
L'anno successivo il Comando Europeo degli USA e capo del Comando Supremo della NATO in Europa, il generale dei marines James Jones, primo consigliere nazionale di sicurezza del governo di Obama, secondo un articolo pubblicato su Ghana Web " rivelò [che] il Pentagono vuole ottenere l'accesso a…. basi in Senegal, Ghana, Mali e Kenya ed altri paesi africani".
 
[......]
 
Nel settembre del 2007 un aereo da trasporto militare statunitense C-130 Hércules fu raggiunto da fuoco di fucile mentre lanciava rifornimenti a truppe del Mali sotto assedio da parte di forze tuareg.
 
[......]
 
Nel 2009 gli USA annunciarono che stavano fornendo al governo del Mali oltre 5 milioni di dollari in veicoli nuovi ed altri equipaggiamenti.
 
[......]
 
Gli USA sono stati collusi con la guerra del Mali nel corso di quasi dodici anni. Recenti storie di atrocità riportate dalla stampa occidentale alimenteranno richieste d'intervento "Responsabilità di Proteggere", sullo stile di quelle realizzate in Costa d'Avorio ed in Libia un anno fa, e forniranno il pretesto per una partecipazione militare statunitense e della NATO nel paese.
 
È possibile che AFRICOM stia pianificando la sua prossima guerra.
 
Nota
 
[1] Il popolo tuareg o imuhagh è un popolo berbero o amazigh, che abita nello zona settentrionale ed occidentale del Sahara e nel nord del Sahel. Per i tuareg il Sahara non è un deserto, bensì molteplici insieme. Tra i deserti del nordovest dell'Africa, si distingue il Tiniwan. Se ne possono citare anche numerosi altri, che essi differenziano in più o meno aridi, pianeggianti o montagnosi. La lingua tuareg o Tamasheq è un gruppo di varianti berbere - il tamasheq, il tamahaq ed il tamajaq (o tamajaght) parlate dai Tuareg. Provengono dalla famiglia di lingue afro-asiatiche. Le varianti tuareg sono le uniche del gruppo berbero ad avere conservato la forma scritta dell'alfabeto libico-berbero, chiamato anche tifinagh, il cui uso è documentato dal secolo III a. C. fino al secolo III d. C. in tutto il nord dell'Africa e nelle Isole Canarie. Gli viene attribuita un'origine punica.

 
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CONGO telefonini insangunati

Post n°449 pubblicato il 04 Marzo 2012 da Guerrino35

Guerra in Congo: Nord Kivu e i telefonini insanguinati
Domenica 04 Marzo 2012 09:17 amministratore
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Per osservare i volti dei profughi di Kibati bisogna alzarsi prima del sole, quando il fumo pesante dei falò morenti avvolge la folla di disperati che ogni notte si accuccia intorno al bagliore di mille fuochi. Le prime vittime di una guerra mai spenta si incontrano qui: duecentocinquantamila anime con gli occhi sbarrati che lottano contro colera e fame ogni giorno. La pista di terra rossa, che partendo da Goma attraversa il campo dei rifugiati e prosegue verso gli inferni delle miniere d’oro e di coltan del nord, si allarga in corrispondenza dei resti di un check point abbandonato nella notte dall’esercito congolese in fuga. Il territorio controllato dalle milizie C.N.D.P. del generale rinnegato Laurent Nkunda inizia qui, ai piedi di un grande albero della gomma chinato verso il tramonto, e comprende le foreste del Massisi e la regione del Nord Kivu fino a Rutshuru, primo villaggio colonizzato dai belgi all’epoca di Leopoldo II e ora residenza dello stato maggiore del Congresso Nazionale per la difesa del popolo. Tra le baracche di questa cittadina della Repubblica Democratica del Congo, vuota di tutto quel che la guerra s’è portata via, si scrive l’ennesima pagina di un conflitto che odio etnico e interessi economici hanno trasformato nella più grande tragedia della storia dalla fine della seconda guerra mondiale.
“Un albero può morire. E restare in piedi. Può marcire. E restare in piedi. Ma anche un popolo può morire, e marcire, e restare in piedi, quando perde la propria sensibilità. La propria energia. Sono qui per informarvi, signori, che il popolo congolese è morto. Voi, siete morti. E state già marcendo.”
Nella sala dell'Istituto Superiore Pedagogico della cittadina di Rutshuru, Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, il silenzio è spettrale. Il generale rinnegato Laurent Nkunda, leader del movimento ribelle tutsi C.N.D.P., psicologo, pastore della chiesa avventista del settimo giorno, percorre la sala a grandi passi, evoca il passato, cita Ezechiele, infine sentenzia: gli hutu colpevoli di genocidio fino alla settima generazione. Molti dei presenti iniziano a contare con le dita quanti nonni sono trascorsi dal 1994. Troppo pochi.
Sono oltre duecento i cittadini di etnia hutu “invitati” alla prevista seduta di rieducazione ideologica. Ammassati, silenziosi, plaudenti al segnale convenuto. Chi non partecipa, sparisce insieme alla famiglia. Stupri, saccheggi, esecuzioni, mutilazioni: le testimonianze dei pochi sopravvissuti a queste barbarie sono irripetibili. “Il popolo Tutsi, come il popolo di Israele, ha il dovere di combattere per la propria sopravvivenza: con l’aiuto di Dio schiacceremo i nostri nemici, coloro che hanno alzato le mani sui nostri padri così come i politici corrotti di Kinshasa che vendono il nostro futuro ai comunisti cinesi”, conclude il generale. Sulla mimetica, una spilla: rebel for christ.
Dicono poco, i numeri. Raccontano di un contingente di diciassettemila caschi blu che non sanno, o non vogliono, fare il loro dovere. Impantanati nel fango di una guerra combattuta da eserciti medioevali e gruppi ribelli armati di lance e machete, i blindati della Monuc- missione Onu Congo- sono un monumento all’incapacità occidentale di fermare questa strage. Cinque milioni e quattrocentomila morti testimoniano, una volta ancora, l’assoluta inadeguatezza di una istituzione che faticosamente sopravvive ai massacri che dovrebbe arrestare. Ma forse la verità è un’altra. All’indomani delle elezioni farsa del luglio 2006, finanziate da Europa e Stati uniti, che hanno visto il sanguinario presidente Kabila riconfermato alla guida di uno dei paesi più corrotti, e ricchi, del pianeta, gli accordi per lo sfruttamento delle miniere d’oro, diamanti e coltan del nord kivu sono stati rinegoziati in favore di un nuovo partner: la Cina. Contratti per dieci miliardi di dollari.
Secondo un deputato congolese, che vuole restare anonimo, “l’Occidente finanzia il signore della guerra Nkunda per ricattare il governo congolese, colpevole di non aver tutelato gli interessi delle multinazionali occidentali nel settore minerario”. I fatti sembrano confermarlo. Il comandante della Monuc nel nord Kivu, colonnello Chand Saroha, è stato rimosso nel luglio scorso, accusato di aver fornito vettovaglie, informazioni e munizioni ai miliziani del Generale Nkunda. Il Ruanda, paese alleato dell’Occidente, fornisce uomini e armi al C.N.D.P, ed è diventato uno dei principali esportatori di coltan del mondo. Eppure non ne possiede un grammo. L’Uganda, che fornisce armi e mezzi alle truppe di Nkunda, è diventato uno dei principali esportatori d’oro del mondo. Eppure, non ne possiede un grammo. Decine di multinazionali procedono, in un assordante silenzio mediatico, al saccheggio sistematico del paese più ricco del mondo in termini di risorse minerarie ed energetiche, all’ombra di un conflitto di cui nessuno vuole nemmeno sentire parlare.
Il kalashnikov che Sebastien mi porge ha il calcio di legno rosso. In cambio, vuole il mio telefonino. Mi chiede se è possibile chiamare casa, a Bukavu, dalla foresta. Vorrebbe salutare sua mamma. Sebastien compirà tredici anni ad aprile. Presidia questo avamposto da molti mesi, non sa dire quanti. Il C.N.D.P. recluta giovani hutu, per inviarli in zone indifendibili. In caso di diserzione, la sua famiglia verrà sterminata. La foresta pluviale l’ha accolto insieme a una decina di ragazzi e ragazze. Una aspetta un bambino. Nascerà qui, dice, in questa capanna di rami intrecciati che fa ombra a una padella, due lanciarazzi a spalla e una scarpa da ginnastica sfondata. Non si riesce a capire chi sia al comando dell’accampamento: nessuno porta i gradi. E’ la ribellione. Oltre la collina, Kanyabaionga, Kayna, Kirumba, cittadine controllate da milizie xenofobe Mai Mai, Interawhe, Fardl.
Partiamo con tre fuoristrada, uno di scorta : le scritte international press e tv incollate sui finestrini, sull’agenda il nome di un portavoce dei Mai Mai che forse è vivo e forse no, da tirar fuori come un coniglio dal cappello se le cose si mettono male davvero. Scimmie e ippopotami si dividono le sponde di un corso d’acqua limacciosa che taglia la terra di nessuno: poi la pista si arrotola su se stessa, come un boa, e comincia a salire. Ai tonfi sordi dei mortai, migliaia di uccelli si alzano in volo, corrono verso il cielo in fiamme. Mai Mai e FARDC, fino a pochi giorni fa alleati contro le forze del C.N.D.P, combattono da quando, ieri, il sole si è tuffato nella giungla. Una ventina di Mai Mai gravemente feriti riposano all’ospedale di Kayna: dividono le brande con i malati terminali di colera, e la stessa cura : un po’ di zucchero, sciolto nel thé, e qualche benda di fortuna. Dietro la collina, silhouette di profughi in fuga e alberi della gomma si mescolano nel controluce della sera. Una donna ci corre incontro. Si copre i seni, nudi sotto i brandelli insanguinati di quel che resta di una camicia. Sul dorso, un bambino addormentato di pochi mesi: chiede cibo, acqua. Muni sai die. Aiuta mio figlio.
Kayna è deserta. Le case spoglie, bruciate. Sul lato della strada, due cadaveri di cui non rimangono che resti fumanti. Paul ha gli occhi neri di cenere, il copertone di una bicicletta in mano e un berretto rosso da sci. Non gli resta altro. Fino alla notte scorsa, possedeva una baracca di assi, due letti, delle pentole e un frigorifero. Vendeva chapati di manioca e latte cagliato. “Ieri notte i militari del governo sono arrivati su un camion. Erano le dieci. Eravamo a letto. Hanno ucciso mio padre. Hanno preso tutte le nostre cose. Non mi rimane più niente.” Gli chiedo che ha intenzione di fare. Dalle tasche della giacca a vento spunta un pezzo di carta, ingiallito dal tempo. Sopra, scritto a matita, un numero a quattordici cifre, un nome, un indirizzo. “Porta questo a mio fratello, Muzungu. Vive in Italia, forse ancora a Mestre. Digli che la nostra casa, ora, è la foresta”.
All’indomani della spaccatura del C.N.D.P, e del presunto arresto del Generale Nkunda, avvenuto poche settimane fa, il nuovo flagello del Congo porta il nome di uno dei gruppi ribelli ugandesi più spietati della storia africana.
Attacchi indiscriminati contro la popolazione nella regione del Haut Huélé, stupri, esecuzioni di interi villaggi. MSF denuncia l’indifferenza della Monuc: immobile, nonostante la risoluzione del consiglio di sicurezza ONU 1856 del 22 dicembre scorso imponga ai caschi blu di intervenire per proteggere la popolazione da quello che ormai è diventato un massacro sistematico. Migliaia di ombrelli dai colori dell’arcobaleno si incrociano ai bordi delle piste di terra rossa. Vanno in ogni direzione, da nord a sud e viceversa. Non chiedono informazioni, non vogliono sapere più nulla. Maurice e la sua famiglia si sono seduti ai bordi della pista. Hanno deciso di non continuare a camminare. Succhiano qualche canna da zucchero, bevono l’acqua che ogni sera, alle 5 in punto, regala loro la pioggia. Fuggono da troppo tempo per illudersi ancora che esista un luogo in cui ricominciare a vivere in pace.
La guerra, nella Repubblica Democratica del Congo, è ovunque.

Ugo Lucio Borga, Reportage per the witness journal

 
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